I
precedenti storici
Il
processo per inserire la virtù della giustizia nel quadro
delle virtù cristiane non è stato facile. Non è esatto dire che il
cristianesimo ha mutuato le quattro virtù cardinali, tra le quali la
giustizia, dalla tradizione stoica: si può meglio supporre che
stoicismo e cristianesimo facciano ugualmente capo ad una comune
origine, cioè alla natura umana e alla storia degli uomini. S.
Ambrogio,
che tra i Padri è quello che si conforma maggiormente alla tradizione
greco-latina sulle quattro principali virtù, da lui chiamate cardinali
per la prima volta, le fa discendere, con un simbolismo audace, da
Cristo, considerato come la sorgente originaria dei quattro fiumi del
paradiso terrestre, nei quali sono figurate dette virtù.
S.
Agostino invece nelle Retractationes,
sul finire della vita, si rimproverò di aver esaltato i filosofi
platonici, quasi facendone dei cristiani, previe poche mutazioni di
concetti e di parole e non si peritò di chiamare vizi le cosiddette
virtù dei pagani. Egli aveva sempre professato una tesi che oggi appare
troppo severa; sia partendo dal presupposto teologico nell' Enchiridion
de fide, spe et cantate sia dai principi filosofici nel primo libro De
doctrina
christiana
Oggi
siamo più facili ad ammettere che negli uomini lontani da Cristo e dal
Vangelo si possono trovare dei virtuosi e giusti. Ma qual è la
consistenza della giustizia nel cristiano? S. Tommaso segue una via più
lineare: confuta anzitutto la teoria dei platonici, che ritenevano
innate le virtù negli uomini, ammettendo invece con Aristotele
nell’uomo soltanto una certa attitudine alle virtù, non il possesso
perfetto di esse. Le virtù sono innate in noi solo secondo una
attitudine ed un principio, non secondo la perfezione della loro
consistenza, se si eccettuano le virtù teologiche che ci vengono infuse
direttamente dall’esterno, cioè da Dio.
Quanto
alle virtù morali S. Tommaso ne ammette due serie nel cristiano,
quelle naturali o acquisite e quelle infuse soprannaturalmente: l’ordine
naturale è tanto irriducibile al soprannaturale e viceversa, che di
ognuna virtù se ne hanno due. Ne conclude infatti che le singole virtù
cardinali infuse differiscono specificamente dalle virtù acquisite.
È
vero che Scoto riteneva inutile la duplice serie delle virtù morali
infuse ed acquisite, ritenendo che le virtù morali acquisite potevano
raggiungere un valore nell’ordine soprannaturale pratico per mezzo
della carità e nell’ordine intenzionale per mezzo della fede, ma la
linea tomistica prevalse nettamente, tanto che dopo il Concilio di
Trento l’opinione di Scoto si può dire abbandonata. Essa sembra
implicare una difficoltà insolubile: come può un atto di giustizia
naturale diventare intrinsecamente soprannaturale per un semplice
riferimento alla carità e alla fede, virtù teologiche che non
modificano l’intima struttura naturale, in se stessa insufficiente ad
entrare nell’ordine soprannaturale?
Un
ripensamento
Si
deve tuttavia ammettere che non mancano difficoltà neppure nel punto di
vista tomista: una duplice serie di virtù morali identiche ed insieme
diverse in uno stesso uomo potrebbe apparire ridicola e pericolosa per
l’unità della moralità.
Queste
difficoltà spingono alcuni autori a ripiegare sulla spiegazione
scotistica. Non si devono infatti moltiplicare gli enti senza una
necessità vera, insegnano i filosofi e i teologi. Ora mettere nel
cristiano una giustizia acquisita e una giustizia infusa è contrario
a questo principio. Si vorrebbe tornare a Scoto, che ritiene sufficiente
la carità e la fede a soprannaturalizzare l’atto naturale della
giustizia.
Dom
Lottin, assertore di questo ripensamento (Au
coeur de la
morale chrètienne, Desclée, 1957) ne porta due
esempi. Possiamo osservare la temperanza nell’ordine naturale per
ragioni di salute e di igiene; nell’ordine soprannaturale osserviamo
la temperanza per avvicinarci meglio a Gesù Cristo, che ha digiunato
nel deserto. Siamo membra di Cristo e S. Paolo ci ammonisce a non
diventare membra di meretrici. Parimenti possiamo osservare la giustizia
nell’ordine naturale per ragioni imposte dalla convivenza sociale;
nell’ordine soprannaturale osserviamo la giustizia perché nel
prossimo vediamo lo stesso Cristo, Nostro Signore. È buona la massima
di non fare agli altri ciò che non vorremmo fosse fatto a noi stessi;
è più alto l’insegnamento di Gesù riportato da S. Matteo: « In
verità vi dico, qualunque cosa avrete fatto ad uno di questi miei
fratelli più piccoli, lo avrete fatto a me ».
Da
questo punto di vista si può realizzare un ideale meraviglioso: la
giustizia, che insieme alle altre virtù cardinali, rappresenta una
vetta, un termine, un punto di arrivo per i pagani, diventa un
semplice punto di partenza, un principio di cammino e di ascesa per i
cristiani, fino all’amore di Dio. Nell’ordine soprannaturale
dell’amore e della fede non si ammette nessuna negatività, nessuna
astrazione, nessun formalismo. Non è sufficiente la retorica quando
si parla di virtù cristiane. Un pagano può fare uno studio bellissimo,
delle virtù senza scoprirne il fondamento autonomo, profondamente
umano e legato a Dio; anche il cristiano che sa conciliare teoricamente
l’interiorità umana con la dipendenza da Dio, può diventare incapace
di trascrivere queste conclusioni nella vita pratica. S. Francesco di
Sales parla di grandi teologi che hanno saputo dire cose bellissime
delle virtù, senza praticarle, mentre povere donne, prive di cultura,
hanno vissuto una vita santa, praticando le virtù, di cui non sapevano
discorrere.
I
cristiani devono soprattutto aspirare alla imitazione di Cristo, nel
quale si trovano tutte le virtù in modo perfetto e concreto. Non si
tratta solo di una esemplarità esteriore. Egli sapeva benissimo che
con le nostre forze naturali non avremmo saputo elevarci alla perfezione
di una vita pienamente morale. E ci ha dato e ci dà abbondantemente
il suo aiuto, facendosi egli stesso principio della nostra vita morale
e spirituale, adattandoci concretamente alla vocazione e alle realtà
sopranaturali.
E
come non potremo pervenire alla pienezza della giustizia e della vita
morale senza lo spirito di Cristo, del quale dobbiamo rivestirci, così
non possiamo credere di poterci rivestire del suo spirito disprezzando
o anche solo prescindendo dalle virtù morali, che costituiscono la base
dell’onestà naturale.
È
bene discutere di onestà naturale e di onestà soprannaturale, per
cercarne la più alta ispirazione e per evitare errori nella dottrina.
È
assai importante non abbandonarsi a sottigliezze e cavilli, che
compromettendo l’uno o l’altro aspetto della moralità, rompono
l’unità della vita morale, questa sintesi vitale, che si deve
presupporre
allo studio dei teologi, alla vita dei fedeli e agli stati religiosi,
sotto la guida della Chiesa, custode della fede e dei costumi.
I
cristiani la chiederanno a Dio con la preghiera, ed insieme
collaboreranno all’azione divina, con la generosità dei propositi e
con l’impegno della vita. E questo programma morale deve essere
perseguito non solo nell’ambito della giustizia commutativa, ma
anche in quello della vita sociale. Infatti il cristiano va sempre
considerato nella sua totalità, ordinato alla vita sociale, civile
nell’ordine naturale e religiosa nell’ordine soprannaturale. Alla
prima ci ordina la ragione, alla seconda ci orienta la rivelazione. Ed
è lo stesso uomo, il cristiano, che appartiene alle due società, lo
Stato e la Chiesa, verso le quali assume dei doveri da rendere.
Giustizia
e religione
La
religione è considerata da S. Tommaso e da una tradizione teologica
pressoché unanime nell’ambito della giustizia, in quanto inclina
l’uomo a rendere a Dio il culto che gli è dovuto. Tuttavia nella
religione non si realizza la perfetta uguaglianza. Si legge nella q.
80 della Secunda-Secundae: «
tutto ciò che dall’uomo è reso a Dio gli è dovuto; non però secondo
una perfetta uguaglianza, perché mai l’uomo potrà rendere a Dio
tutto ciò che gli è dovuto, come cantiamo nel Salmo 95:
che
cosa renderò al Signore per tutto ciò che mi ha donato? »
L’impostazione
tomista è difesa con forza dai teologi domenicani come la più adatta
per stabilire i contatti tra la religione e la giustizia, in modo
che la moralità umana ne risulti rafforzata e unificata.
S.
Tommaso si è sforzato di coordinare la ragione e la rivelazione nella
vita morale. Sono interessanti a questo proposito le conclusioni dello
studio Caritas et ratio. Etude
sur le double
principe de la vie morale d’après St. Thomas d’Aquin,
Nijmwegen,
1956 del padre C. A. J. Ouwerkerk.
Vi
si trovano tre capitoli: nel primo si pone la ragione come fondamento
della vita morale razionale secondo il quadro delle quattro virtù
cardinali, cosa che si riscontra anche nello stoicismo. Nel secondo
capitolo tutta la vita morale del cristiano viene posta sotto
l’ispirazione della carità e quindi nell’ordine soprannaturale.
La carità viene considerata parallelamente con la ragione e la vita
morale ne rimane sublimata: i cristiani non possono agire moralmente, se
non agiscono sotto l’ispirazione della carità.
Nel
terzo capitolo viene istituito un confronto tra questi due principii dai
quali dipende la vita morale dei cristiani. La ragione, con il corteo
delle quattro virtù cardinali, e la carità non sono due regole
indipendenti, ma subordinate con il primato della carità. La cosa è
possibile perché la rivelazione completa la ragione che, elevata dalla
fede nell’ordine intenzionale, resta subordinata alla carità come
criterio e norma della moralità.
Da
S. Ambrogio a S. Agostino
Si
può dire che S. Tommaso concili i due punti di vista che abbiamo
accennato in S. Ambrogio e in S. Agostino. La linea del primo è dettata
da prospettive pastorali, più che da preoccupazioni speculative e di
metodo. All’indomani della pacificazione dell’impero romano nel
segno del cristianesimo si erano avute conversioni in massa dei pagani,
che non rinunziavano completamente agli schemi della loro vita morale.
S. Ambrogio ritenne bene ricomporre gli ideali stoici nel cristianesimo
ed il suo tentativo fu variamente interpretato. Alcuni fanno della sua
opera Dei doveri degli ecclesiastici il primo trattato di teologia
morale: altri invece lo rendono responsabile di aver avviato il processo
della riduzione della teologia morale al livello della morale naturale
degli stoici.
Entrambe
le interpretazioni ci sembrano esagerate. Le prospettive teologiche di
S. Ambrogio sono troppo limitate e sommarie per consentirne una
eccessiva esaltazione: ci sembra però ugualmente eccessiva l’accusa
di avvilimento della teologia morale. Non condividiamo pertanto il
severo giudizio di Th. Deman, O. P., il quale nel saggio storico Aux
origines de la théologie morale accusa S. Ambrogio di non
essersi accorto che la dottrina morale degli stoici, lungi
dall’entrare facilmente nell’alveo del cristianesimo, rappresenta
piuttosto un ostacolo ad esso. Non si può far torto ad Ambrogio di non
aver avuto il genio di S. Agostino, che nell’Enchiridion dà alla
morale cristiana un’impostazione veramente teologica facendola
dipendere dalle virtù teologali della fede, della speranza e della
carità. Infatti la fede e la speranza, ossia il dogma e la morale
trovano il loro coronamento nella carità, ultima in linea di fatto,
prima in linea di ispirazione.
La
trasposizione della vita morale sul piano della vita teologale non manca
di arditezza, ma lo stesso S. Agostino non poteva dimenticare che la
riflessione dei filosofi pagani si era applicata con un certo successo
ai costumi. Non per nulla il termine morale, come equivalente
all’etica dei greci, si deve a Cicerone. S. Agostino con volo audace
trasferisce sul piano di Cristo la scienza tripartita dei pensatori
pagani, legando la logica all’insegnamento, la fisica alla
risurrezione e la morale all’imitazione di Cristo. Egli giunge persino
a presentare l’Incarnazione come la continuazione della missione
della filosofia.
Il
compito di trasferire l’etica naturale in quella cristiana gli è
facilitato dal fatto che l’etica stoica è dominata dall’idea
di beatitudine, secondo l’identificazione classica della vita
moralmente onesta con la vita beata. S. Agostino, proseguendo il
processo, identifica la beatitudine con Dio stesso, superando il
relativismo implicito nel pensiero filosofico, considerato come fine a
se stesso.
Infatti
nessun bene può rendere beati se non a condizione di non poter essere
perduto. Questa caratteristica si trova solo nel bene divino. Inoltre la
saggezza dei filosofi viene assimilata alla sapienza della
rivelazione, che nel cristianesimo si identifica con il Figlio di Dio.
La formula stoica, che presenta l’ideale morale nel seguire la natura
razionale, viene completata dicendo che l’uomo deve seguire Dio
attraverso l’imitazione di Cristo. Queste conclusioni del trattato «
De moribus Ecclesiae »,
pur partendo da premesse filosofiche, non sono lontane da quelle
dell’Enchiridion: ciò vuoi dire che tra teologia e filosofia morale
si ha una soluzione di continuità, che ne consente una organizzazione
sistematica e unitaria. La felicità viene ricondotta alla carità, cui
non portano pregiudizio alcuno le quattro virtù cardinali a patto che
esse non siano solo sulle labbra, ma anche nel cuore. Se — argomenta
S. Agostino — la virtù conduce alla vita beata, essa non è altro che
una partecipazione dell’amore di Dio. La temperanza è l’amore
di Dio che ci spinge a conservarci nell’integrità della castità; la
forza è l’amore che ci spinge a sopportare facilmente tutti i disagi
per il Signore: la giustizia è l’amore che volendo bene servire il
Signore, rende più facile il dominio delle cose, che devono obbedire
all’uomo: la prudenza è l’amore che ci fa discernere ciò che
avvicina a Dio gli uomini da ciò che li allontana.
Le
argomentazioni di S. Agostino per la riduzione delle diverse virtù
cardinali alla carità abbondano di elementi simbolici.
Per
quanto riguarda la giustizia, più che il rapporto degli uomini tra
loro e con la società S. Agostino vi scorge un rapporto di ordine, che
implica la piena sottomissione dell’uomo a Dio, sommo bene, somma
sapienza e somma pace e il dominio delle cose in parte già conquistato
ed in parte ancora da realizzarsi dall’uomo. Non si può dunque
ritenere sufficientemente superata nella sintesi agostiniana la
opposizione tra la carità, che ordina anche le cose degli uomini, in
quanto sono di Dio, e la giustizia, che ordina le cose del mondo, in
quanto mondane, anche se trattate dal cristiano.
La
sintesi tomista
S.
Tommaso che opera una sintesi gigantesca, ancora e sempre attuale tra la
filosofia aristotelica e la teologia agostiniana, si riferisce
ampiamente a Cicerone e a S. Ambrogio nella trattazione delle virtù
cardinali e della giustizia. Egli non ritiene necessario e neppure
opportuno respingere il punto di vista della tradizione stoica. Onde
qualcuno ha creduto di poter rivolgere anche a lui, sebbene un pò
larvatamente, l’accusa di aver ridotto la morale del cristiano a
quella dello stoico. A torto però, secondo il nostro modesto giudizio,
perché egli mantiene al primo piano l’ispirazione teologica. Se
accetta il punto di vista di Cicerone e di S. Ambrogio, specialmente
nell’ambito della giustizia, lo fa a ragion veduta. La direzione
della carità non gli appare sufficiente per l’inquadramento della
giustizia nelle virtù cristiane, qualora la giustizia si intenda nel
senso specifico di virtù che presiede alle relazioni tra gli uomini.
Il precetto dell’amore del prossimo, risolto da Gesù Cristo medesimo
nell’amore di Dio, può dare un colorito particolare alle relazioni
umane; non può sostituire il criterio obbiettivo della giustizia. Anche
qui si deve ritenere che l’ordine soprannaturale non distrugge, ma
convalida l’ordine naturale. Sotto l’aspetto della giustizia la
sintesi agostiniana, pur presentandosi con un incanto di formulazioni,
risulta manchevole nel rigore logico.
S.
Tommaso cerca e trova un’altra via, meno brillante, ma più ferrea nel
confronto tra religione e giustizia e pone decisamente la religione
nell’ambito della giustizia. Apparentemente si ha un rovesciamento
della posizione agostiniana, che si era sforzato di inquadrare la
giustizia nella religione rivelata del cristianesimo. In realtà S.
Tommaso, pur considerando la carità come la madre e la regina di tutte
le virtù del cristiano, non escluse quelle morali cardinali, conserva
l’ordine esteriore della tradizione filosofica di Cicerone e di
Aristotele, trovando il valore apologetico della tendenza naturale
dell’uomo alla religiosità.
Religione
e giustizia oggi
Nei
moralisti moderni si fa sempre più predominante l’aspetto
soprannaturale della moralità. La religione tende sempre più ad
evadere dagli schemi ristretti della giustizia e viene intimamente
legata alle virtù teologali nella realtà concreta della vita
cristiana.
I
moralisti dell’ordine domenicano rimangono fedeli al metodo di esporre
le tesi sulla religione nel quadro della giustizia. Moralisti di altre
tendenze trattano della religione immediatamente dopo le virtù
teologali e prima di quelle cardinali, indipendentemente dalla virtù
della giustizia. Siamo convinti che non si possa guardare alla sintesi
tomista come ad un monumento statico da conservare intatto con qualche
semplice ripulitura dalla polvere accumulata dai secoli, ma come ad un
monumento grandioso ed incompleto, alla cui costruzione sono
chiamati, a collaborare gli uomini di ogni tempo.
Oggi
si tende a distinguere la religione come virtù generale, che comprende
sotto di sé sia la vita teologale, sia la vita morale e come virtù
specifica, che si inquadra nell’ambito della giustizia, in quanto
questa è una virtù cardinale.
È
vero che S. Tommaso sembra escludere che vi possa essere una virtù
generale di religione: tuttavia ammette nella religione una duplice
serie di atti, alcuni propri e immediati, come adorare Dio, compiere
sacrifici ecc., altri attraverso le virtù, che si trovano sotto il suo
impero.
Si
può pertanto ritenere senza allontanarsi dal tomismo, che sotto il
primo aspetto la religione rientra rigorosamente nell’ambito della
giustizia, mentre sotto il secondo aspetto comanda e presiede a tutta
la vita morale del cristiano.
Dom
Lottin ha scritto un interessante articolo nelle Ephemerides
Theologicae Lovanienses su « La définition classique de la
religion », che non è piaciuto ai teologi dell’ordine domenicano in
genere. Pensiamo che non si debba ritenere usurpata la fama tomista,
che il Lottin si attribuisce anche in questa determinata questione.
Sottoscriviamo
volentieri alcune osservazioni del Lottin, quando lamenta una
sproporzione tra il grande influsso della religione in tutta la vita
morale dell’uomo e il piccolo spazio che le è riservato nei
trattati tradizionali nell’ambito della giustizia. La religione
nobilita la vita ed esprime pienamente la moralità, perché mette
direttamente in contatto con Dio, che è l’autore della moralità. Se
la religione non può essere considerata come una quarta virtù
teologale, perché non ha come oggetto direttamente Dio, mettendo gli
uomini in contatto con Dio attraverso il culto, possiamo considerarla
come una virtù di coesione tra le virtù teologali e le virtù morali,
pur conservandone l’inquadramento specifico nell’ambito della virtù
cardinale della giustizia. Lo Haering nel volume La loi du Christ (vol. I, p. 143) fa un buon tentativo di illustrare
i rapporti tra la religione e le virtù morali. Presupposto che le virtù
teologali, per sé sufficientemente significate in un dialogo semplice
e diretto con Dio, in concreto esigono una concordanza con la vita
morale dei cristiani, ritiene di trovare la mediazione di tale
concordanza proprio nella religione. Rifiutando la separazione kantiana
della cosiddetta moralità pura dalla religione, separazione soggiacente
alle varie formulazioni umanistiche odierne e diventata assoluta nel
marxismo
e nell’esistenzialismo ateo, accettiamo una distinzione tra religione
e virtù cardinali, non una separazione, che dà ansa alla moralità
laicista, areligiosa e antireligiosa. Non neghiamo un valore morale
alle leggi umane, a patto che queste si trovino fondate su un’etica
obbiettiva e naturale legata in ultima analisi alla ragione divina.
O non si ha alcuna moralità o questa deve essere fondata in Dio.
Il compito di spiegare la moralità in quanto viene da Dio e a Dio
conduce spetta proprio alla religione.
Tutti
questi compiti sono propri della religione intesa in un senso più
generale; in quanto è una virtù speciale, che porta l’uomo a rendere
a Dio il culto dovuto, entra nella classificazione tradizionale della
giustizia. In questo senso lo stesso S. Tommaso
afferma che la religione è una virtù più vicina a Dio che tutte le
altre virtù morali e quindi preminente nei confronti di esse, in quanto
le dirige tutte all’onore di Dio.
E
quando parliamo di rapporti della giustizia con la religione non
limitiamo la nostra considerazione alla giustizia commutativa, ma
guardiamo anche a quella distributiva e legale. Ciò pone dei problemi
che siamo ben lungi dal pretendere di aver risolto o anche solo
impostato compiutamente.
Anche
sotto questo aspetto la giustizia rimane una
virtù difficile.
Ci
è sufficiente aver indicato quali ampi orizzonti si dischiudono alla
riflessione cristiana sui problemi del mondo contemporaneo, centrato
sulla
realizzazione della giustizia sociale, e conseguentemente quali
possibilità si aprono all’azione dei cristiani per realizzarne le
conclusioni.
Pio
XII ha tenuto nel settembre 1956 un discorso ad un gruppo di
economisti circa i fattori umani e morali dell’economia, sul quale
non sono mancati commenti, che avrebbero voluto essere spiritosi. Da
un pilota si esige la scienza della meccanica e non il catechismo; da
un medico le scienze biologiche e non la teologia; da un capitano
l’arte militare e non la conoscenza dei testi pontificali; perché si
vorrebbe imporre questo bagaglio di conoscenze agli economisti? Gli
esempi portati sono dei sofismi banali, che non meritano una risposta e
l’interrogativo parte da un pregiudizio inammissibile, che cioè la
scienza economica e la morale si sviluppino su linee del tutto
indipendenti. Altro è studiare astrattamente le leggi economiche, altro
è studiarle in rapporto ai fatti umani.
Nelle
profondità della natura umana sono scritte delle leggi morali, di cui
qualunque scienza deve tenere il debito conto. Nella considerazione
dei vari fattori che presiedono alla socialità, di cui sono espressione
l’economia, come la politica, non va dimenticato il fattore più
importante, quello morale, ossia umano. S. Tommaso con somma chiarezza
ha distinto le tre parti della morale: la prima studia gli atti umani
sotto l’aspetto personale (monastica); la seconda studia gli atti
umani del gruppo familiare (domestica); la terza studia gli atti umani,
ossia il comportamento umano, nella società civile (politica). Pio XII
giustamente critica gli economisti del secolo scorso, che basandosi
sulle
realtà fisiche e chimiche hanno trascurato l’elemento essenziale
dell’umanità, cadendo in contraddizioni paurose. Non si possono
considerare i fatti sociali come appartenenti ad una fisica sociale, ma
piuttosto come una esplicazione ed una amplificazione dell’umanità.
Siamo sul piano della giustizia sociale e anche questa, come qualunque
espressione di moralità, non può mai prescindere dalla natura
umana e dalla ragione divina.
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