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Ferdinando Lambruschini La Giustizia virtù non facile
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LA
RIPARAZIONE DELL’INGIUSTIZIA
Alla
virtù cardinale della giustizia si oppone l’ingiustizia, come
abitudine, e l’ingiuria, come atto di violazione del diritto degli
altri, quando la persona contro la quale si commette ingiustizia o
ingiuria sia ragionevolmente contraria a rinunziare ai suo diritto.
Infatti in forza del n.27 della Regula Iuris non viene recata offesa a
chi consente, supposta naturalmente la piena disponibilità del
diritto oggettivo, che si ha, ad esempio, sulla proprietà, non sulla
vita. Violazioni del genere sono possibili nei confronti dei diritti
personali, in senso stretto, all’educazione e alla libertà, dei
diritti personali in senso largo, alla fama e all’onore, dei diritti
misti, ad esempio al lavoro, ed infine dei diritti reali nell’ambito
della proprietà.
La
violazione si può avere nell’ambito della giustizia commutativa, se
l’ingiuria viene recata a privati, nell’ambito della giustizia
distributiva e legale,
se l’ingiuria viene recata alle persone in quanto membri della
società o alla società stessa.
Nella
violazione di qualunque specie di giustizia con l’offesa di Dio si
ha un danno al prossimo:
Secondo
l’etimologia, restituire equivale a rimettere qualche cosa al suo
posto, reintegrandola nelle condizioni antecedenti il danno recato. Se
l’obbligo di una riparazione si accompagna a qualunque peccato, la
restituzione trova il suo campo di applicazione nella violazione della
giustizia. Direttamente però viene presentata dai moralisti come un
atto di giustizia commutativa, per mezzo del quale si restituisce il
mal tolto o si ripara un danno arrecato, secondo un criterio di
perfetta uguaglianza del diritto oggettivo violato, che deve essere
reintegrato.
Chi
ha rubato una cosa ha l’obbligo di restituirla in se stessa o nel
suo equivalente e chi ha recato un danno volontariamente deve
ripararlo adeguatamente. In detta equivalenza riteniamo debba
rientrare il compenso materiale in seguito a violazione di diritti
personali, che in se stessi non possono essere reintegrati.
Qualche
moralista, seguendo S. Alfonso, non urge l’obbligo di tale
compensazione, sotto lo specioso pretesto che la restituzione debba
essere fatta sulla linea di una perfetta idèntità. Poiché non si può
restituire la vista ad una persona accidentalmente o volontariamente
accecata, non si può determinare una somma di danaro a titolo di
stretta restituzione. Preferiamo seguire S. Tommaso, che
realisticamente ragiona così: « Quando non si può restituire in se
stesso o nel suo equivalente perfetto un diritto violato, si deve
offrire un compenso nella forma possibile: ad esempio, se qualcuno
mutila di un membro una persona, deve compensarla con danaro o con
titolo di onore secondo le condizioni civili dell’offeso e
dell’offensore e giusta l’arbitrio di un uomo prudente ».
La
sempre più efficiente sostituzione della legge ai giurì di onore e
la prassi assai diffusa nella complessa organizzazione della vita
moderna (si pensi alle assicurazioni per gli incidenti
automobilistici) non lascia dubbi in proposito. L’istituto della
restituzione non è riducibile ad una generica soddisfazione, ma deve
pervenire alla reintegrazione della cosa rubata e alla riparazione del
danno arrecato. La soddisfazione generica ha luogo nei confronti
dell’offesa di Dio, perché se nessuno può pretendere di potergli
restituire l’onore tolto, si suppone che Dio non lo esiga dal
peccatore; ma nei debiti contratti con gli altri uomini il bene comune
esige la riparazione più completa e cioè la restituzione
propriamente detta.
E
due sono i titoli che fondano l’obbligo della restituzione, quello
del possesso illegittimo di cosa altrui e quello del danno recato. Chi
possiede una cosa di altri, anche se l’avesse acquistata in buona
fede, deve restituirla in se stessa o nel suo equivalente. Su
affermazioni di principio del genere tutti sono concordi, benché
nella applicazione si abbiano le opinioni più disparate, perché gli
statuti dell’antico diritto romano non sono del tutto chiari in
proposito e non sempre i codici moderni consentono con essi. L’obbligo invece della restituzione secondo il titolo del danno arrecato, è più chiaramente espresso, quando si verificano le seguenti condizioni: 1) Il danno è reale; ossia è stato violato un vero diritto altrui, suscettibile di riparazione. Non è sufficiente l’intenzione cattiva.
2)
L’azione del dannificante è veramente ingiusta, ciò che si deduce
soprattutto dall’uso di mezzi illegittimi. Se Caio ha diritto ad una
eredità, perché figlio del testatore, si ritiene ingiusto
dannificatore chi impedisce l’accesso all’eredità, anche se non
ricorre a mezzi ingiusti, come la calunnia. L’esclusione invece di
una designazione all’eredità di chi non ne ha diritto per legge, è
ritenuta ingiusta solo se sono stati usati mezzi ingiusti, come la
calunnia, non se sono stati usati mezzi legittimi, come l’influsso
della propria autorità.
3)
L’azione del dannificante costituisce una colpa teologica, ossia
un’offesa di Dio. Non si richiede tuttavia che il dannificante abbia
coscienza dell’offesa teologica: basta che abbia una responsabilità
morale diretta o indiretta del danno arrecato. In altre parole è
sufficiente che l’azione dannificante sia un atto umano, elicito
dalla volontà con conoscenza del fine. In questo senso un superiore,
un giudice, un medico, un avvocato, un confessore non sono tenuti a
riparare i danni arrecati nell’adempimento del loro ufficio, se non
hanno commesso una colpa teologica. È chiaro però che tali uffici
richiedono una grande diligenza. Ne segue che una negligenza
materialmente leggera può facilmente essere qualificata grave e
obbligare pertanto alla restituzione.
Si
noti ancora che nella complessità della vita moderna il diritto
positivo obbliga alla riparazione dei danni indipendentemente da una
colpa: la cosa si verifica ad esempio negli incidenti automobilistici
e nei genitori per i danni causati da figli minori. Disposizioni del
genere hanno lo scopo di richiamare gli uomini ad una grande diligenza
per non recare danno alla convivenza sociale. L’obbligo sorto dalla
legge impegna la coscienza, per lo meno dopo una sentenza giudiziaria.
4)
Infine tra la colpa e il danno deve esserci un nesso di causalità
diretta o indiretta. Si
pensi al caso seguente: Tizio uccide Caio prevedendo che il delitto
verrà imputato a Mario, di cui tutti conoscono i rapporti di ostilità
con l’ucciso. Tizio è tenuto a riparare i danni causati dall’omicidio,
non quelli derivanti dall’imputazione dell’omicidio a Mario, a
meno che nel compiere il misfatto non abbia agito in modo da far
cadere positivamente l’imputazione su Mario, usando le sue armi, i
suoi vestiti ecc. In questo caso è tenuto a riparare anche i danni
causati a Mario, cui l’assassinio è imputato. Obbligo
della restituzione e salvezza eterna
Quando
l’obbligo della restituzione è grave per la gravità della colpa ed
insieme del danno arrecato, la restituzione « in re o in voto »,
ossia effettiva o in programma, è per legge
divina assolutamente
necessaria alla salvezza eterna. Oltre a molteplici passi della S.
Scrittura si porta un testo assai significativo di
S.
Agostino: « Se la roba
d’altri, per la quale si è peccato, non viene restituita, quando si
abbia la possibilità di restituirla, non si fa vera
penitenza,
ma si finge: non viene dunque rimesso il peccato, se non si
restituisce ciò che si è rubato; ma come ho detto, sotto la riserva
che la restituzione sia possibile ». S.
Tommaso più concisamente argomenta così: « Poiché l’osservanza
della giustizia è assolutamente necessaria per salvarsi, ne segue che
la restituzione di ciò
che si è tolto ad altri ingiustamente, è parimenti necessaria per
salvarsi ».
Non
si può invece dire necessaria la restituzione secondo la formula
tradizionale « necessaria necessitate medii », perché altrimenti
anche coloro che non restituiscono perché non ne hanno la possibilità
fisica o morale verrebbero automaticamente esclusi dal piano della
salvezza. Se fosse così, la giustizia sarebbe troppo severa, priva di
ogni umanità e contraria all’ordine morale obbiettivamente
considerato.
I
moralisti accusati a torto di essere sordi alle istanze dell’umanità
sanno invece mostrarsi assai comprensivi ed enumerano varie cause, che
esimono dalla restituzione, sospendendone temporaneamente o
estinguendone del tutto l’obbligo.
Persino
se il padrone si mostrasse irremovibile nel pretendere la restituzione
e restio a rinunciare ad essa, avrebbe sempre prevalenza la legge
morale, la quale di autorità suppone che egli consenta al
differimento o all’estinzione dell’obbligo di restituire. Si
tratta infatti di forza maggiore, costituita dalla impossibilità
fisica o morale della restituzione. Qualora non si tratti di
estinzione, ma soltanto di differimento, nel dannificante deve
perseverare la disposizione alla restituzione, quando ne avesse la
possibilità e l’opportunità. La
restituzione nell’ambito della giustizia distributiva e legale
Sui
principi sopra enunciati i moralisti si trovano pienamente d’accordo
per quanto riguarda la giustizia commutativa: le diversità si hanno sul
piano delle applicazioni, che non è qui il caso di esporre. Si
riscontrano invece posizioni rovesciate per quanto riguarda la
restituzione nell’ambito della giustizia legale e distributiva:
infatti ad una drastica opposizione proprio sulla linea dei principi, in
quanto alcuni respingono un eventuale obbligo di restituzione, che altri
tentano di affermare, corrisponde un addolcimento delle posizioni
contrastanti, quando si passi alle applicazioni pratiche.
Vorremmo
esaminare la cosa un pò più ampiamente, formulando così il
problema: è certo che si verificano delle autentiche violazioni della
giustizia legale e distributiva: si può e si deve imporre o no
l’obbligo della restituzione a chi si è reso colpevole di tali
violazioni?
Sforzandoci
di rispondere all’interrogativo posto, vogliamo prescindere dai
molteplici casi nei quali si ha insieme violazione di giustizia legale o
distributiva e di giustizia commutativa. Si
prenda l’esempio classico di un concorso bandito per la scelta di
pubblici ufficiali dello Stato. I
candidati hanno fatto una faticosa preparazione, affrontando spese e
perdite di tempo non indifferenti: il concorso non può essere una pura
formalità o un pretesto per coprire delle preferenze. Se i giudici del
concorso fanno la loro scelta senza tenere alcun conto delle prove o
ne hanno falsato il significato, passando sottomano le soluzioni
esatte ad alcuni concorrenti preferenziati, si rendono manifestamente
colpevoli di violazione della giustizia commutativa e sono tenuti in
coscienza alla riparazione dei danni.
Vogliamo
invece parlare della pura e semplice violazione della giustizia
distributiva o legale, di cui ci riserviamo di portare qualche esempio
chiarificatore. Tutti i moralisti del passato e gran parte di quelli
odierni nel campo cattolico negano che in caso di violazione della
giustizia distributiva e legale si possa imporre l’obbligo della
restituzione, basandosi su due ragioni fondamentali. In primo luogo
sia nella giustizia distributiva, che in quella legale si ha un difetto
di perfetta alterità, perché da una parte la società non si distingue
pienamente dai suoi membri e dall’altra il bene dei singoli non è
adeguatamente contrapposto a quello comune.
In
secondo luogo la restituzione si deve imporre solo quando è stato
violato un diritto stretto, fondato sull’uguaglianza, mentre il
diritto della giustizia distributiva e legale è fondato sulla
proporzione.
Non
si tratta come si vede di ragioni campate in aria e quindi nutriamo il
massimo rispetto per questa opinione, che si può dire tradizionale. Tuttavia
osiamo pensare che se ne possa dedurre solo l’impossibilità di una
restituzione secondo un criterio di stretta uguaglianza di cosa a cosa e
di prestazione a prestazione, non l’impossibilità assoluta di una
riparazione.
Anche
nella giustizia commutativa, se si eccettuano i furti e le violazioni di
alcuni contratti, come di compra-vendita, è assai difficile determinare
la quantità e le modalità della restituzione: si pensi alla
restituzione nella violazione della fama, del segreto e in genere dei
diritti strettamente personali. Se in una prima accezione la
restituzione suppone l’identità materiale e formale del diritto leso,
che si obbiettiva facilmente, in una seconda accezione è stata
trasferita e applicata anche alle attività umane, di cui si può
controllare un effetto ad esempio in un ferimento o nella diffamazione.
Accediamo
quindi volentieri alla schiera di quei moralisti moderni, che urgono la
necessità e l’obbligo della restituzione nella violazione della sola
giustizia legale o distributiva. L’affermazione che la società non si
contraddistingua pienamente dai membri e il bene comune da quello dei
singoli cittadini ci sembra una sottigliezza giuridica. Di
fatto altra cosa è la società, in se stessa o nell’autorità che
la rappresenta, e altra cosa sono i membri di essa: parimenti non si può
confondere il bene comune con quello dei singoli privati, con il quale
non coincide, nè materialmente nè formalmente. Scrive saggiamente il
padre Gillet: « Si può ammettere che essendo il bene comune in qualche
modo il mio bene, io posso accampare il diritto di dimenticare che
esso è pure il bene di tutti gli altri membri della comunità e che, se
lo danneggio gravemente, non sono obbligato a riparare i danni recati
agli altri? Le circostanze concrete di una compensazione sono forse
ancora da determinarsi ma una determinazione del genere non deve essere
ritenuta chimerica: se non si può fare secondo un’uguaglianza
aritmetica, si potrà fare secondo una equa proporzione ».
Non
ci sembra neppure esatto che nelle giustizie distributiva e legale non
si verifica la nozione di giustizia nel senso stretto: Leone XIII
dichiara esplicitamente nell’Enc. Rerum novarum che la società è obbligata a proteggere la vita e i
diritti dei più deboli e se non lo fa viola la giustizia propriamente
detta. Ammettiamo che la giustizia legale, come quella distributiva,
sono diverse dalla giustizia commutativa, ma non possiamo ammettere
che non si trovino nell’ambito della giustizia strettamente intesa.
Qualunque
virtù esige una riparazione in caso di offesa: non si può fare
eccezione per la giustizia, tanto necessaria al sano vivere sociale.
La ingiusta distribuzione dei beni, creando condizioni ineguali e
partigiane tra i cittadini, procura gravi pregiudizi ad alcuni membri
della comunità e sovverte la pace della comunità. Si
pensi all’obbligo della
istruzione elementare per soddisfare alla quale alcuni Stati,
assegnata una somma determinata per l’educazione dei singoli ragazzi,
lasciano ai genitori la libertà di scegliere o di organizzare le
scuole destinate ai loro figli, mentre altri obbligano le famiglie
tutte a mandare i loro figli alle cosiddette scuole neutre, commettendo
un’ingiustizia di distribuzione nei confronti delle famiglie stesse.
Così
nell’ordine sanitario si afferma in teoria il diritto di tutti i
cittadini ad una assistenza, che giunge fino alla spedalizzazione: ma
come fare quando in una regione della stessa nazione i posti letto degli
ospedali sono solo l’uno per cento, mentre in un’altra regione
raggiungono l’optimum del dieci per cento?
Non
riteniamo neppure del tutto valido il riferimento alla dottrina
tradizionale, che non ammetterebbe l’obbligo della riparazione nella
violazione della giustizia che non sia commutativa. I grandi
commentatori della Somma Teologica, card. Caietano, Giovanni da S.
Tommaso e Francesco da Vitoria, parafrasando le qq. 62-63 della II-II,
sono concordi nel dedurre l’obbligo della riparazione e della
restituzione nella violazione della giustizia distributiva, fondandola
precisamente non sulla lesione di diritti privati, ma di diritti
pubblici.
Ci
sia dunque consentito sottoscrivere questa conclusione del padre Spicq:
« Poiché la distributiva è una giustizia perfetta, il suo diritto
è stretto e l’uguaglianza geometrica è una vera uguaglianza e
poiché la società e i suoi sudditi sono enti distinti con bisogni e
interessi diversi, con obblighi e diritti reciproci all’interno di
una relazione giuridica perfetta, colui che distribuisce ingiustamente,
è tenuto rigorosamente a restituire o a riparare ».
Senza
pretendere di rovesciare la tesi tradizionale, riaffermata nei tempi
più recenti e con vigoria da Vermeersch e Merkelbach, guardiamo con
simpatia agli sforzi di altri Autori qualificati per introdurre
l’obbligo della restituzione nell’ambito della giustizia legale,
seguendo, sia pure a debita distanza, la prassi degli Stati moderni a
ispirazione liberale o collettivista, nei quali si attribuisce la
massima importanza ai valori della giustizia distributiva e legale.
È
vero che negli Scolastici non è molto estesa la gamma della trattazione
riservata alla giustizia legale. Ma si possono fare due osservazioni. S.
Tommaso, trattando della giustizia si riferisce soprattutto a Cicerone
ed a Aristotele, il quale ultimo tratta della giustizia in tre
discipline, cioè l’etica, l’economia e la politica. S. Tommaso si
interessa soprattutto dell’aspetto direttamente morale, per il quale
sono sufficienti le considerazioni della giustizia commutativa, mentre i
peccati contrari alla giustizia legale, come l’omissione del pagamento
delle tasse, il rifiuto del servizio militare, il tradimento, il
disfattismo ecc. rientrano piuttosto nell’ambito dell’economia e
della politica. Inoltre
l’Angelico
considera la giustizia legale piuttosto sotto l’aspetto generale, in
modo che l’ingiustizia è presentata come violazione della legge. E la
violazione della legge esige sempre una riparazione.
Osserviamo
ancora con Heylen che non condividiamo l’ostinazione di coloro che
esagerano la distinzione tra uguaglianza aritmetica di cosa a cosa e
uguaglianza geometrica. Il diritto suppone un’eguaglianza, che non si
può sempre intendere in senso materiale, ma in senso morale. Ora il
diritto
come debito morale non si può estendere al di là del possibile, ma si
può e deve estendere a tutto il possibile. E sotto l’aspetto del
diritto, qualunque uguaglianza, aritmetica o geometrica, nei limiti
della possibilità, deve essere ritenuta ugualmente stretta e piena.
Se
il danno recato alla società violando la giustizia legale è grave,
deve essere riparato nel modo migliore possibile. Concediamo che le
esigenze comportate dalla organizzazione della vita pubblica non
sono codificate in formule rigide e che molte difficoltà si frappongono
ad una formulazione chiara sul piano della legge positiva. Tali
difficoltà
però non dispensano dall’affermare un obbligo grave e stretto di
riparazione.
Cerchiamo
di chiarificare il nostro pensiero con un esempio di attualità. Una
persona, fisica o morale non importa, fingendosi povera o simulando
inesistenti danni di guerra ottiene un buon contributo dalle autorità
responsabili, le quali sono al corrente dell’inganno, ma o per falsa
pietà o per l’utilità di una percentuale, partecipano attivamente
al falso. Da
parte della persona simulante si ha un difetto di sincerità e di lealtà,
contrario alla giustizia legale; da parte degli impiegati corrotti
si ha una lesione, spesso gravissima, della giustizia distributiva.
Credo che difficilmente si possa sostenere che non sia stata commessa
una ingiustizia grave e stretta. Stando
così le cose non si vede perché non si debba urgere l’obbligo di una
riparazione, che fra l’altro in casi del genere non è neppure
difficile: il povero simulato restituisce sufficientemente passando il
sussidio ad un povero vero: chi ha simulato danni di guerra inesistenti,
può riparare comprando titoli di stato e bruciandoli: colui che ha
distribuito i beni dello Stato senza criterio di giustizia, a parte la
restituzione aritmetica della percentuale illegittimamente guadagnata,
deve compensare lo Stato per il danno arrecato comprando titoli e
bruciandoli, o se non né ha la possibilità, lavorando di più in
favore
dell’amministrazione dannificata.
È
vero infine che nella giustizia distributiva e legale hanno molta
importanza l’economia e la politica, ma non si può certo sostenere
l’indipendenza di queste discipline dalla moralità. L’organizzazione
della società moderna attende forse dalla teologia morale un contributo
di idee e di indirizzi
per estendere all’ambito della socialità l’applicazione di quei
principi morali, che il medioevo ha saputo così bene applicare
nell’ambito delle persone.
Ha
scritto recentemente P. R. Spiazzi nel bel volume « Democrazia e ordine
morale » che la democrazia « considerata sia come ideale e come
spirito,
sia come metodo, sembra talmente in armonia con il grado culturale,
giuridico e politico di una grande parte del popolo, che pur potendosi
criticare certe sue concrete attuazioni, tuttavia non si possa
posporla ad altre formule che le vengono contrapposte ».
Sono
sacrosante parole che l’Osservatore Romano del 12-13 sett. 1960 ha
proposto alla riflessione dei suoi lettori.
Ci
sembra che l’accettazione della democrazia impegni gli Autori
cattolici ad un ripensamento delle condizioni attuali di vita sociale
alla luce degli immutabili principi della teologia morale. Non c’è
nulla da rinnegare nella costruzione del passato; ma con gli stessi
materiali, cioè riferendosi ai principi universalmente e sempre validi,
c’è forse da costruire un piano da aggiungere all’edificio
precedente. Le
basi sono solidissime, perché fondate direttamente sulla natura
dell’uomo e in ultima istanza in Dio stesso, che ha creato l’umanità:
possono dunque sostenere facilmente il peso di questo nuovo piano e di
altri ancora, che i secoli futuri renderanno necessari. La
moralità come il regno di Dio non ammette confini né di spazio né di
tempo e il cammino della giustizia non può mai essere considerato al
suo ultimo termine, qualunque siano le difficoltà che vi si
frappongono.
Un
domenicano, che ha dedicato tutta la vita allo studio concreto dei
fenomeni sociali, il padre Lebret, lamenta che in un mondo, in cui da
cento anni nuove dottrine di produttività, di tecnocrazia e di
pianificazione si sono contese il mondo, i cattolici non siano stati
all’altezza della situazione, limitandosi a confermare gli impegni
morali personali convinti che con la fedeltà al decalogo si risolvevano
tutte le difficoltà, senza studiare a fondo gli elementi anticristiani,
accumulati alla base di meccanismi disumanizzati e demoralizzanti,
ancorandosi
troppo al passato.
Non
si nega che il cristiano, per quanto misero, come uomo dotato di
intelligenza e di volontà, creato a immagine di Dio e arricchito di
un destino soprannaturale, conserva sempre un valore trascendente la
realtà materiale più organizzata socialmente. La Chiesa, che non può
essere indifferente alla giustizia e all’ingiustizia, invita i suoi
fedeli a mostrarsi vigili e attivi di fronte ai regimi politici e alle
strutture economiche, per incamminare il mondo verso nuove forme di
progresso,
di giustizia e di carità.
Se
essi sono stati colti alla sprovvista e si sono lasciati sopravvanzare
dagli avvenimenti, non hanno mai capitolato e devono darsi da fare per
riconquistare le posizioni perdute. Di
fronte al tentativo di allontanare la morale dal mondo del progresso tecnico, dalla politica e dall’economia, i cattolici devono sentire
l’impegno di lavorare per il ristabilimento dei principi immutabili e
superiori, orientando saggiamente quanti, davanti al fallimento dei
loro piani per l’elevazione, basati unicamente sul benessere
materiale, cominciano a rendersi conto di aver sbagliato strada per
aver sottovalutato i valori spirituali, che sono il sostegno più
valido di qualunque serio progresso.
Le
leggi economiche — ha detto il Card. Montini agli organizzatori della
Fiera di Milano del 1959 — non sono le supreme e non sono nemmeno
inflessibili. Il dogma della loro ineluttabile necessità può tornare
comodo per soluzioni contingenti e parziali: ma non è ammissibile, se
crea delle vittime da una parte, dei privilegiati dall’altra. Le
esigenze economiche sono importantissime e rispettabili nell’ordine
economico e giuridico; ma sopra di esse vi sono le esigenze umane e
sociali dell’ordine morale.
Accanto
alle libere scelte, amplissime in tale campo, occorre ammettere una
politica cristiana ed una economia umana, che non è sempre da
reinventare da parte di ciascuno, perché non si possono accantonare né
S. Tommaso, né centocinquanta anni di Encicliche e di Magistero.
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