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Ferdinando Lambruschini La Giustizia virtù non facile
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LA GIUSTIZIA, VIRTU’ MORALE Una delle più grandi difficoltà dei tempi nostri per la
reciproca comprensione degli uomini è rappresentata dalle parole, che
cambiano significato sulla bocca degli uni e degli altri. Difficoltà del genere si hanno nell’interpretazione
della “giustizia”, che si trova sulle labbra di tutti, non soltanto
con piccole differenze di significato, che i francesi chiamano
«
nuances
», ma con significati addirittura opposti, tanto che ci si
può chiedere se è possibile un concetto di giustizia comune a tutti i
sistemi e a tutti gli uomini. E la domanda cui vorrebbe tentare una risposta il nostro
terzo capitolo sulla giustizia. La
giustizia nell’Antico Testamento Nella Sacra Scrittura la giustizia rappresenta l’insieme
delle relazioni tra l’uomo e Dio: nei primi Libri, la giustizia viene
presentata come un giudizio di Dio, di vendetta contro i nemici di
Israele e di favore verso il popolo eletto, considerato come un blocco
unico, sotto il segno della predestinazione. Nel libri dei Profeti, già prima dell’esilio, si ha un
progresso grandioso, in quanto la discriminazione del giudizio di
vendetta o di favore viene fatta indipendentemente dalla appartenenza al
popolo eletto o all’idolatria, in funzione della bontà e della
malizia dell’agire umano. Si giunge così a indicazioni più
obbiettive ed universali, superando criteri empiristici di favoritismi e
odiosità aprioristiche. Questo progresso non deve scandalizzare nessuno, perché,
secondo un criterio già indicato da Origene, Dio si adatta nel
linguaggio agli uomini, considerati eterni bambini. Come un padre per
farsi capire si adatta al linguaggio imperfetto del bambino di due anni
o come la madre inventa addirittura le più strane parole per farsi
comprendere, il Signore apre la strada all’inserimento nella storia
del popolo eletto della giustizia forense, già sufficientemente
sviluppata tra i popoli etnici: così nei libri di Giobbe e nei
Sapienziali si tende a vedere nella giustizia più direttamente il
regolamento dei rapporti tra gli uomini. Si deve tuttavia ritenere che,
per gli ebrei, la giustizia non si può ridurre pienamente ad una
categoria puramente giuridica per regolare i rapporti tra gli uomini,
indipendentemente dal loro ordinamento divino: in altre parole la
giustizia si compone naturalmente con la religione, che comprende anche
la categoria morale (cfr. le conclusioni di A. Descamps in «
Dictionnaire de la Bible, Supplement, IV, a. Justice
» ). La
giustizia nel Nuovo Testamento Nessuno si meraviglierà se la giustizia del Nuovo
Testamento risente di questa evoluzione antica. Nella Lettera ai Romani
S. Paolo prende la giustizia come sinonimo della grazia, data agli
uomini per poter acquistare la vita eterna. Lasciamo da parte questa
concezione, che ci farebbe entrare in un terreno di discussioni
teologiche sulla giustificazione, estranee al presente studio. Fissiamo
invece l’attenzione dei lettori su alcuni testi caratteristici di S.
Matteo, il più vicino tra gli Evangelisti alla mentalità ebraica. I
testi che indicheremo si trovano tutti nel Discorso della Montagna.
Nella quarta beatitudine si proclamano beati coloro che hanno fame e
sete della giustizia, perché saranno satollati e nell’ottava si
assegna il regno dei cieli a coloro che soffrono persecuzioni per la
giustizia. Più oltre Gesù ammonisce i discepoli che se la loro
giustizia non sarà più grande di quella dei farisei, non potranno
entrare nel regno dei cieli e aggiunge che se faranno la loro giustizia
per essere ammirati dagli uomini, non avranno alcuna ricompensa dal
Padre celeste: cerchino dunque anzitutto il regno di Dio e la sua
giustizia: tutto il resto verrà loro dato in soprappiù. Il senso dei testi indicati è ovvio: la giustizia è
sinonimo della santità di vita e comporta le opere della santità:
viene dunque messa in diretto rapporto con Dio. Tale concetto
fondamentale di giustizia, qualora si prescinda dal riferimento
immediato a Dio, non è lontano da quello degli stoici, che pongono la
giustizia semplicemente nella rettitudine della vita. Basti richiamare
il noto testo di Cicerone, che nel primo libro dei Doveri fissa i due
compiti fondamentali della giustizia nel non nuocere a nessuno e nel
considerare come proprie soltanto le cose private, non quelle comuni. La
giustizia nella prima riflessione cristiana Gli stoici consideravano le quattro virtù cardinali, come
quattro parti dell’onesto: la giustizia, come le altre tre virtù
cardinali, è dunque subordinata ad una concezione oggettivistica. Sarà
compito dei Padri della Chiesa sviluppare gli elementi soggettivi
portati dal Cristianesimo. S. Ambrogio, che pur scrive i tre libri
«
Dei
doveri degli ecclesiastici
»
sulla falsariga dell’opera corrispondente di Cicerone, verso il quale
si mostra sempre rispettoso, reagisce con forza alla definizione
ciceroniana della giustizia, rifiutandone entrambi gli aspetti sopra
indicati. In particolare Cicerone riteneva armonizzabile con la
giustizia il rendere male per male. Ambrogio sull’esempio di Cristo
dirà che non si deve mai far male a nessuno: chi è giusto non deve mai
fare del male: la categorica affermazione ha una grande importanza, se
si considera che S. Ambrogio in fondo si mantiene nell’ambito degli
schemi dello stoicismo. Con S. Agostino (cfr. soprattutto l’
«
Enchiridion ad Laurentium
», ossia
«
La fede, la speranza e la
carità ») la giustizia viene posta di colpo sopra un piano Superiore,
in quanto viene subordinata completamente alla carità e quindi
maggiormente interiorizzata. Senza dilungarci su i vari passaggi attraverso i quali è
passato il concetto di giustizia, possiamo limitarci a notare che i
Padri, riflettendo sul pensiero del Vangelo a confronto con quello dei
pensatori pagani, non potevano non scoprire il significato più
personale e soggettivo della giustizia e delle virtù cardinali; esse
non possono più essere considerate soltanto come divisioni e aspetti
oggettivi dell’onesto, ma piuttosto come qualità, che guidano
l’uomo nell’agire moralmente. Del resto l’aggettivo
«
giusto
»
(iustus), che si forma
proprio dalla radice
«
ius
» (diritto), già nella tradizione
greco-romana si collega direttamente all’aspetto soggettivo della
giustizia. I due aspetti fondamentali, oggettivo e soggettivo della
giustizia, si trovano intimamente connessi nella classica definizione di
Ulpiano, ancora oggi considerata universalmente valida:
«
volontà
ferma e perpetua di dare a ciascuno ciò che gli è dovuto, come suo
diritto
». Anche S. Tommaso ha accolto la definizione di Ulpiano, ma
insieme presenta una bella sintesi di tutti gli elementi, che provengono
sia dalla Bibbia che dai pensatori pagani. Non tutti questi elementi
sono riducibili alla definizione di Ulpiano, che presenta la giustizia
su un piano bene determinato e specifico. S. Tommaso presenta a nostro
avviso una distinzione fondamentale, altamente chiarificatrice. Vicino
alla giustizia come virtù cardinale, si trova la giustizia come
orientamento generale di tutte le attività morali al bene comune.
«
E
secondo questo aspetto — scrive nella S. Th. II-II, q. 58, a. 5 —
che gli atti di tutte le virtù possono appartenere alla giustizia, in
quanto essa orienta l’uomo al bene comune
» . Tale
giustizia generale si identifica con la santità di vita degli ebrei,
secondo la quale S. Giuseppe è definito dal Vangelo
«
vir iustus
»
(uomo giusto) e con la rettitudine morale degli stoici. Ma in quanto la
giustizia ordina l’uomo a rendere a ciascuno ciò che gli è dovuto,
secondo le tre note specie di giustizia legale, distributiva e
commutativa, ci poniamo nei confini della giustizia come virtù
cardinale. S. Tommaso illustra la distinzione con l’esempio della
carità, che in quanto virtù generale ordina gli atti di tutte le altre
virtù a Dio, identificandosi con esse e quindi anche con la giustizia,
ma si differenzia dalla giustizia, in quanto ordina a Dio la vita umana,
come a termine ed oggetto proprio. Il diritto come base
della giustizia Riservando ad altri capitoli l’esame più approfondito
delle tre specie di giustizia e del bene comune, attiriamo
l’attenzione dei lettori sul diritto, come fondamento della giustizia,
scusandoci di dover ricorrere ad espressioni un pò scolastiche, che
hanno il vantaggio della chiarezza. Considerando decisamente il diritto come oggetto proprio
della giustizia, S. Tommaso si pone in continuità della tradizione
greco-romana attraverso i teologi e i canonisti e pur dando evidenza ai
lati oggettivi della giustizia, come virtù morale che perfeziona
l’uomo, ne lega le sorti ad un ordine oggettivo, creato da Dio e non
posto dall’uomo. Nella letteratura giuridica dei nostri tempi, il diritto
non è più considerato come realtà, ma semplicemente ridotto ad una
nozione, che trova la sua ragione di essere in se stessa, oppure viene
derivata dalla persona nella sua esistenza empirica o dallo Stato, dalla
classe, dalla società, ecc. Il positivismo giuridico nelle più vane
espressioni è sempre dominante nella cultura moderna, anche se Autori
di grande nome come il Del Vecchio (si vedano le sue
«
Lezioni di
filosofia del diritto ») si mostrano inclini a
considerare il diritto
come una categoria oggettiva. Il positivismo giuridico rende equivoca la stessa nozione
di giustizia: per ovviare a tali inconvenienti è necessario difendere
il valore oggettivo del diritto, che appartiene a quelle nozioni
primordiali, delle quali tutti sappiamo che cosa sono, nessuno sa dare
una vera definizione. Nulla ci vieta naturalmente di considerane il diritto
soggettivamente, come facoltà morale di fare, di esigere, di omettere
qualche cosa a proprio esclusivo vantaggio: ma si deve sempre premettere
l’accezione primitiva e oggettiva di ciò che è dovuto. Osserva
profondamente S. Tommaso (ivi, q. 57, a. 1, ad 1): come la medicina fu
dapprima applicata a significare il rimedio che si dà al malato, e solo
più tardi l’arte di guarire, così il nome di diritto fu dapprima
usato per significare ciò che è giusto e soltanto dopo esteso a
significare la scienza giuridica o il tribunale. Non si prenda l’osservazione di S. Tommaso come
superficiale, semplicemente perché non viene tratta da schemi
aprioristici: si tratta piuttosto di una analisi profonda, basata
direttamente sullo studio e l’osservazione delle cose. Gli scolastici non ignoravano certo l’esistenza del
diritto positivo, divino e umano. derivante cioè dalla volontà di Dio
e degli uomini, ma prima di esso e come suo fondamento, ammettevano quel
diritto naturale, di cui ha tanto parlato in innumerevoli e altissimi
interventi il Papa Pio XII (cfr. tra gli altri, il Radiomessaggio
natalizio del 1942). Il fondamento che rende possibile la relazione giuridica da
persona a persona, da società a persona e viceversa, è proprio il
diritto oggettivo, in quanto la stessa cosa rapportata ad un termine è
ciò che è dovuto, rapportata all’altro termine, ne costituisce il
diritto: i termini della correlazione si attraggono o si respingono
secondo quelle doti di alterità e di uguaglianza, che sono
caratteristiche della giustizia. Riferendoci a S. Tommaso e agli
Scolastici non intendiamo certo bloccare la storia del pensiero umano e
fermarla nel tempo. Siamo tutti testimoni del corso accelerato preso dal
cammino degli uomini negli ultimi due secoli. Non si vuole neppure affermare che il punto di vista di S.
Tommaso sia l’unica via di progresso e di sicurezza. Nell’ambito particolare del diritto, S. Tommaso si tiene
piuttosto legato a Ulpiano, che vede in esso la partecipazione di una
legge universale, comune agli uomini e agli animali, mentre
l’indirizzo di S. Isidoro, che interpreta il diritto naturale secondo
la specifica natura dell’uomo, escludendone gli animali, può fornire
indicazioni più alte. Ciò ha portato a delle ambiguità circa il
diritto delle genti, che, per gli Scolastici, è rimasto sospeso a metà
strada tra il diritto naturale e positivo. E però comune a S. Isidoro e a S. Tommaso che il diritto naturale
per la sua stessa consistenza è proporzionato e adeguato secondo
un’uguaglianza fondamentale a fondare i rapporti tra gli uomini. E
questo rappresenta la base più vera per una definizione della
giustizia, comune a tutti gli uomini e a tutti i sistemi di pensiero e
di vita.
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