La
proprietà privata pur avendo riflessi sociali innegabili, è
direttamente ordinata a stabilire rapporti reciproci di diritti e di
doveri tra le singole persone. Abbiamo omesso tutte le applicazioni
sui modi originari e derivati di giungere alla proprietà, sia perché
non abbiamo ritenuto necessaria tale esposizione ad una completa idea
della giustizia, che costituisce lo scopo del nostro lavoro, sia perché
è facile trovarne le indicazioni nei vari manuali di teologia morale
o nei corsi istituzionali di diritto.
Si
ritiene invece assai utile per il nostro scopo dedicare un po’ di
spazio a qualche considerazione sulla giustizia distributiva e su
quella legale, che direttamente investono i rapporti dei singoli
cittadini con la società, di cui fanno parte.
Non
è nostra intenzione e neppure nelle nostre possibilità fare
un’esposizione completa di questi due aspetti della giustizia,
importantissimi ai nostri giorni e che costituiscono oggetto di studio
di discipline specializzate come la sociologia, la politica,
l’economia, la tecnologia, la psicologia ecc. Ci sforzeremo di
raccogliere alcune indicazioni essenziali nel mare immenso e alquanto
confuso della giustizia sociale, i cui elementi si trovano
specialmente nella giustizia distributiva e legale, benché non
manchino in quella commutativa, come appare chiaramente dai capitolo
precedente. Ci sforzeremo di fare cosa utile e chiarificatrice,
ponendo
le linee essenziali non in principi astratti, privi di dinamismo
intrinseco, ma in idee fondamentali e concrete, maturate in una
riflessione, che pur restando fedele ai principi, non perde di vista
la realtà estremamente mobile delle condizioni
sociali.
La
giustizia distributiva
S.
Tommaso considera la giustizia distributiva nell’ordine privato in
contrapposizione alla giustizia legale, che si realizza nell’ordine
pubblico. Egli dice che compete alla giustizia legale ordinare le prerogative dei
singoli al bene comune, e alla giustizia distributiva ordinare la
distribuzione del bene comune alle singole persone, in quanto membri
della società. Per
la mentalità moderna non è facile accettare il punto di vista della
teologia medioevale che, attribuendo la distribuzione al capo della
comunità, ritiene tuttavia che la giustizia distributiva risiede nei
singoli membri della società, in quanto questi sono contenti della
giusta distribuzione. Da che cosa dipende infatti che la distribuzione
si dica giusta? Nell’evoluzione sociale dei tempi della scolastica,
pur essendosi già affacciati in qualche modo i diritti dei singoli a
partecipare alla vita pubblica, la distribuzione del bene comune
restava affidata all’arbitrio del principe e difficilmente si poteva
concepire una distribuzione, della quale i sudditi potessero non
essere contenti.
S.
Tommaso con gli scolastici era preoccupato più di distinguere la
giustizia distributiva dalla commutativa, con la quale poteva
confondersi in quanto terminava alle singole persone, secondo la
specificazione del movimento da parte del termine ad quem. Nulla vieta
però che la giustizia distributiva possa essere ritenuta assai vicina
alla giustizia legale, considerandone il punto di partenza, che è
l’autorità, in quanto rappresentante della società. Anche nel medioevo il capo ‘della comunità nella distribuzione non poteva
prescindere dall’ordinamento al bene comune. L’organizzazione era
assai diversa dalla nostra: allora tra il principe e il popolo non
esistevano enti intermediari, che non fossero estensioni
dell’autorità del principe, mentre oggi si hanno istituti giuridici
e personali, come la Costituzione, il Parlamento, l’organizzazione
amministrativa ecc., che danno un senso assai più obbiettivo alla
giustizia distributiva. Questa è maggiormente collegata con la
giustizia legale, tanto che, secondo alcuni autori, la giustizia
sociale non è altro che la confluenza di quella legale e
distributiva, in un processo di ascensione dai membri della società
all’autorità o di discesa dall’autorità ai singoli membri della
società stessa.
È
del resto pacifico che S. Tommaso, proprio per distinguere la
giustizia distributiva da quella commutativa, ha sempre considerato la
prima legata sì alle persone private, ma in quanto parte di una
società, che ha dei debiti verso di esse.
C’è
un’altra espressione che, a prima vista, può causare
disorientamento in S. Tommaso, dove afferma che è tanto più grande
il debito della società verso la parte in quanto questa ha una
maggiore importanza nel tutto, ossia nella società. La cosa viene
chiarita nel contesto dell’art. 2 della q. 61 nella II-II: ammesso
che nella giustizia distributiva competa ai singoli membri della
società una porzione del bene comune, proporzionata alla importanza
che quella persona ha nella comunità stessa, così continua: « La
quale importanza tuttavia è considerata in rapporto alla virtù nella
società aristocratica, in rapporto alle ricchezze nella società
oligarchica, in rapporto alla libertà nella società democratica e
diversamente in altre società ».
S.
Tommaso non esclude nessun tipo di organizzazione sociale e con le
ultime parole « in aliis aliter » sembra aprire il campo alle più
vaste possibilità di organizzazione.
Concetto
di giustizia
distributiva
Nonostante
le differenze di impostazione, si può dedurre dall’insieme della
dottrina tradizionale una definizione della giustizia distributiva
valida anche per i nostri tempi, pur tanto diversi da quelli del
medioevo per l’organizzazione sociale, come di « una virtù morale
che inclina la società, o colui che ne fa le veci, a dare a tutti e a
ciascuno dei membri di essa, quanto ad essi è dovuto ».
Tale
definizione si verifica pienamente nelle società perfette, (la Chiesa
e lo Stato) e solo imperfettamente nelle società private, costituite
per perseguire fini particolari, nelle quali si deve parlare piuttosto
di giustizia commutativa.
Chi
rappresenta la società, a titolo proprio o per delegazione, è il
soggetto del dovere della distribuzione, mentre i membri della
società sono i soggetti di diritto o aventi diritto alla
distribuzione. La reciprocità di dovere e di diritto costituisce il
motivo formale della giustizia distributiva, il cui oggetto materiale
diretto sono i beni in genere, in quanto espressione del bene comune,
indiretto gli oneri. Gli scolastici distinguevano l’oggetto
materiale remoto, cioè i beni in se stessi, dall’oggetto materiale
prossimo, cioè le azioni esteriori, che presiedono alla distribuzione
e costituiscono propriamente la giustizia distributiva.
Chi
tiene le veci della società deve in particolare:
1) Tutelare
i diritti e i beni dei membri, non in via assoluta, beninteso, ma
subordinatamente al bene comune e secondo una certa gerarchia di
proporzione. Se infatti, ammonisce Leone XIII, tutti i cittadini, in
quanto parti della società, sono uguali, senza distinzione tra ricchi
e poveri, i più deboli hanno bisogno di maggiore assistenza, che non
i più forti, i beni necessari devono avere la precedenza sopra i
superflui. Come si vede il grande Papa, che pure si rifà sempre
volentieri all’insegnamento di S. Tommaso, non ha scrupoli nel
mutarne il criterio di distribuzione, legandolo non più alla maggiore
importanza, ma al maggior bisogno.
2)
Concedere premi ai più meritevoli, per lo sviluppo delle arti, delle
scienze e della virtù e distribuire sussidi a sollievo delle miserie
fisiche e morali.
Ai
premi sono assimilati gli onori, la cui distribuzione più
difficilmente suole rispondere a criteri di obbiettiva valutazione dei
meriti.
3)
Assegnare gli uffici pubblici necessari, o comunque, atti a
raggiungere più facilmente il bene comune, alle persone che eccellono
nell’onestà, nella scienza, nell’arte, nell’abilità
organizzativa ecc.
4)
Distribuire equamente gli oneri secondo le possibilità dei cittadini;
ciò rientra già nella giustizia legale, in quanto suppone un diritto
esigitivo nella società e un debito nei membri di essa.
Il
quadro, brevemente accennato, è assai più vasto di quello offerto
dalla Somma Teologica, che praticamente riduce i peccati contro la
giustizia distributiva alla « acceptio personarum », secondo una formula, che oggi appare
alquanto generica. L’uguaglianza della giustizia distributiva esige
che alle diverse persone della società vengano attribuiti compiti
diversi secondo le loro qualità. Ora, dice S. Tommaso, fare una
persona maestro o capo di una organizzazione, non è peccato di
accezione delle persone, anche se si tratta di consanguinei o di
amici, se quella persona è fornita delle qualità necessarie. C’è
invece acceptio personarum se
la persona prescelta non è fornita delle qualità necessarie: infatti
scrive lepidamente S. Tommaso « la consanguineità rende qualcuno
degno di ricevere la designazione ad erede di un patrimonio, non che
gli si conferisca una prelatura ».
Di fatto a meno che non si abbia la concorrenza di qualche forma
di giustizia commutativa non si ha l’obbligo di scegliere il
migliore, perché la cosa essendo spesso impossibile, renderebbe assai
difficile la convivenza sociale: tuttavia l’Angelico non ammette che
si possa prendere a giustificazione della acceptio
personarum il modo di agire di Dio, che dà la sua grazia a chi
vuole.
La
grazia è un dono, che si dispensa liberamente, mentre le cose dovute
per giustizia devono essere distribuite equamente. Se S. Tommaso
conosce e condanna il peccato contro la giustizia distributiva non
possiamo pretendere da lui l’anticipo di soluzioni che solo oggi
sono state rese possibili. In particolare no dobbiamo scandalizzarci,
se alla questione propostagli dalla Duchessa di Brabante circa la
liceità di vendere gli uffici pubblici, risponde con una certa
ambiguità e diplomazia, che la cosa in sé è possibile e lecita,
limitandosi a dire che spesso non è opportuna, perché può avvenire
che coloro, i quali non sono in condizione di poter comprare le
pubbliche cariche con il danaro, ne siano effettivamente i più degni:
d’altra parte anche coloro che sono già abbastanza provveduti di
mezzi rifiuterebbero di comprare per amore del quieto vivere. Comunque
si avrebbe la conseguenza, che tali uffici verrebbero conferiti agli
incapaci, agli ambiziosi e ai cattivi amministratori, preoccupati di
ammassare delle ricchezze, invece che del bene comune. Un insegnamento
di questo genere non si potrebbe sostenere oggi, anche se limitato
alle cariche civili, (in quelle ecclesiastiche si avrebbe simonia).
Del resto lo stesso San Tommaso, proponendosi il caso di ministri che
hanno angariato il popolo con vessazioni ingiuste, lo risolve con una
distinzione più severa: se il denaro ingiustamente carpito è stato
passato al principe, questi deve restituirlo alle persone dannificate
o a opere pie, se la cosa si è fatta impossibile. Se invece tale
danaro è ancora nelle mani degli amministratori, questi devono essere
obbligati a restituirlo, perché a nessuno è lecito arricchirsi
ingiustamente e anche puniti. Nell’organizzazione moderna la
giustizia distributiva prende sempre maggiore ampiezza. Oggi si parla
persino del dovere da parte delle nazioni più ricche e privilegiate,
come sono l’America e la Russia, di venire in aiuto dei popoli meno
evoluti. Il movimento è nato dalla pubblica carità degli Stati Uniti
con l’attiva partecipazione dei cattolici; non ci meraviglieremmo,
se si giungesse a stabilire un quadro internazionale, nel quale le
nazioni privilegiate si impegnassero quasi per obbligo di giustizia, a
versare un determinato contributo in sovvenzione delle nazioni meno
abbienti.
La
giustizia legale
Gli
uomini sono per natura politici e cioè chiamati a vivere in società:
Aristotele con espressione cruda diceva semplicemente, che l’uomo è
un animale politico. Non dobbiamo tuttavia credere che la socialità
sia fondata sulla corporeità o animalità: il corpo è il mezzo per
cui le relazioni sociali appariscono esteriorizzate, ma la vera
socialità si basa sull’anima, cioè sulla ragione e così si
distingue nettamente dalle convivenze degli animali basate
sull’istinto. Nelle comunità umane infatti si ha
un’organizzazione della vita di molti uomini per raggiungere con
mezzi comuni un fine comune sotto la guida della legittima autorità.
La
società è necessaria all’uomo per esprimere e realizzare più
pienamente la sua umanità: egli ha bisogno del concorso degli altri
uomini per dominare le forze della natura e per sviluppare le sue
capacità morali e intellettuali.
Come ci sono delle relazioni di diritto e di dovere tra la
società e i suoi membri, contemplate nella giustizia distributiva,
così ci sono delle relazioni reciproche tra i membri e la società
stessa contemplate nella giustizia legale. Ma mentre nella prima il
bene comune è considerato indirettamente, nella seconda tutta
l’attività delle singole persone viene indirizzata al bene comune.
Tale ordinamento, ammonisce S. Tommaso, può avvenire in due modi. In
un senso generale tutte le virtù sono ordinate al bene comune e
quindi sotto questo aspetto sono identificate con la giustizia legale.
Ma se si considera l’ordinamento dei singoli membri della società,
che vengono inclinati al bene comune in quanto dovuto propriamente
alla società stessa, si ha la giustizia legale, strettamente intesa,
come specie della virtù cardinale della giustizia.
Si è detto che S. Tommaso ha un’istintiva diffidenza verso
la giustizia legale di Aristotele, per il quale gli uomini sono
ordinati al conseguimento della felicità nella vita presente per
mezzo della realizzazione di una società perfetta. Evidentemente egli
non poteva prescindere dal punto di vista cristiano: l’uomo
trascende il tempo, proiettandosi nell’eternità e realizzando il
suo destino di felicità in un mondo ultraterreno. Ciò però non gli
impedisce di seguire Aristotele nel subordinare le singole persone
alla comunità sotto l’aspetto del bene comune, enunciando in
proposito un lucido principio: « È chiaro che tutti coloro i quali
si trovano a far parte di una comunità organica, vengono ad essa
riferiti come parti ad un tutto. Ora la parte, in quanto tale,
appartiene al tutto: di conseguenza il bene della parte deve essere
subordinato al bene della totalità ». Questa poi, ossia la società, non è un’addizione o una somma
delle parti o una somma dei suoi membri, ma una nuova entità, che per
l’unificazione del fine comune, si distingue adeguatamente dalle
singole parti. La società esprime la massima perfezione dell’umanità
sotto l’aspetto del bene comune, che S. Tommaso con forte
espressione proclama maggiore e più divino del bene personale. E
senza alcuna difficoltà segue Aristotele nel paragonare la società
ad un organismo vivo e organico. Alcuni autori, dopo il Vermeersch,
fanno ampie riserve su tale confronto, quasi che ne restasse troppo
diminuita l’importanza delle singole persone. Per nostro conto non
abbiamo alcuna riserva da fare e riteniamo il confronto assai
appropriato e significativo, pur rendendoci conto che i paragoni sono
sempre imperfetti.
S. Tommaso
sapeva benissimo che l’organismo vivente è dotato di una unità
fisica, mentre l’unione degli uomini in una comunità è solo
morale. Tuttavia questa unione morale non è meno importante e coesiva
della unione fisica, se si tiene conto che nell’uomo la spiritualità
è sempre prevalente sulla corporeità.
L’assimilazione
o l’analogia della società ad un organismo vivo ha lo scopo di
esaltare il bene comune al di sopra di quello delle singole persone,
senza distruggere o diminuire in alcun modo l’autonomia della
persona, che rimane sempre trascendente sulla società nella sua realtà
ontologica e nella sua destinazione soprannaturale. Aristotele e i
pensatori pagani hanno ignorato questo concetto più profondo della
persona umana, di cui invece è assertore S. Tommaso sotto la guida
della Rivelazione cristiana: sarebbe erroneo negare la prevalenza
della società sugli individui sotto l’aspetto del bene comune,
caratteristica della giustizia legale. Se tra la subordinazione e la
trascendenza della persona sulla società si scopre una
contraddizione, questa non può essere che apparente. Infatti la
subordinazione della persona alla comunità si risolve in ultima
analisi in favore della persona stessa, che si vale del necessario
concorso degli altri membri della comunità per affermare più
pienamente i propri valori. Nello stesso mondo degli animali la
subordinazione degli individui alla vita del gruppo si risolve a
vantaggio dei singoli componenti, saggiandone la resistenza e
provocandone la selezione. Nessuna meraviglia che la cosa sia maggiormente vera per il mondo degli
uomini. Infatti la realtà della persona non si assorbe mai totalmente
nella funzione di membri della società, come sembra ritenere il
collettivismo; la sua costituzione ontologica e soprannaturale impedirà
sempre che possa ridursi ad una pura funzione o ad un numero senza
valore: in questo senso la persona umana, in quanto partecipazione
dello spirito, è fine a se stessa, fine relativo nei riguardi di Dio,
assoluto nei riguardi della società a cui non è né riducibile né
subordinabile.
A
pari ragione però non si può ritenere la società un semplice
mezzo di affermazione dei valori personali, come sembrano ritenere i
liberali, perché nella società si trovano altre persone, che sono
ugualmente fine a se stesse e nell’ambito dell’assoluto, nel senso
sopra indicato.
La
perfezione dell’umanità viene realizzata nelle singole persone, in
modo da poter essere realizzata anche nella società e viceversa.
La
storia degli uomini può oscillare tra liberalismo e collettivismo,
anche con paurosi sbandamenti, ma dovrà sempre ritornare ad un
equilibrio naturale, che mostri come protagonisti e componenti della
storia sia le persone singolari, sia la società, che da esse è
costituita.
Concetto di giustizia legale
Su
tali premesse possiamo definire la giustizia legale come la virtù che
orienta le singole persone, come membri della società a rendere ad essa
tutto ciò che le è dovuto secondo le esigenze del bene comune.
Ad
un debito nei membri, in quanto tali, corrisponde un diritto esigitivo
della società in quanto costituita da coloro che non possono pretendere
di trovarvi solo dei vantaggi, senza accettarne le limitazioni
necessarie e i sacrifici conseguenti. Questa reciprocità comporta
quella dote di alterità, che è essenziale al concetto genuino della
vera giustizia, basandosi sulla correlatività di dovere e di diritto.
Alcuni autori continuano a sostenere che non si tratta di una alterità
perfetta, ma si fa sempre più numeroso lo stuolo di coloro che
ritengono tale alterità perfetta, cosa che a noi non sembra una novità,
ma un ritorno alla genuina impostazione tomista che abbiamo accennato.
Non
ci sembra neppure che manchi l’altra dote essenziale della
uguaglianza, non certo aritmetica, e neppure geometrica, ma di semplice
proporzione.
L’oggetto
formale della giustizia legale è l’ordinamento al bene comune, non
solo in quanto tutte le virtù sono in qualche modo ad esso ordinate, ma
in quanto tale ordinamento viene considerato in forma specifica e
propria. S. Tommaso illustra questo duplice aspetto con il parallelismo della carità:
« Come la carità può dirsi una virtù generale, che ordina gli atti
di tutte le altre virtù al bene divino, così la giustizia legale può
ritenersi una virtù generale, che ordina gli atti di tutte le altre
virtù al bene comune. Ma parimenti come la carità è pure una virtù
particolare e specifica, che ordina essenzialmente i suoi atti al bene
divino, come a proprio oggetto, così la giustizia legale è una virtù
speciale che ordina i suoi atti al bene comune, come a proprio oggetto.
In tal senso la giustizia legale risiede principalmente e quasi
architettonicamente nell’autorità della società ed in via
subordinata e quasi amministrativamente in tutti i sudditi, come membri
della società ». Con altre parole
lo stesso S. Tommaso dice pure che non si identifica la virtù
dell’uomo buono con quella del buon cittadino: la prima è la
giustizia legale generale, la seconda è la giustizia legale speciale,
inquadrata nell’ambito della virtù cardinale della giustizia.
La
conclusione che la giustizia legale si trovi principalmente nel principe
e solo subordinatamente nei sudditi non suona bene alle orecchie dei
moderni. Bisogna tenere presente che S. Tommaso distingue le tre specie
della giustizia, commutativa, distributiva e legale secondo il loro
ordinamento al bene privato o comune. Poiché nella concezione del
tempo il bene comune e l’ordinamento ad esso era di competenza
esclusiva dell’autorità, logicamente la giustizia legale viene
attribuita principalmente al principe. Nella concezione moderna invece
anche i singoli cittadini devono sentire il loro ordinamento al bene
comune e quindi nella società democratica i singoli cittadini sono
soggetti e non solo termini della giustizia legale. Prendiamo
l’esempio delle tasse e degli altri doveri verso lo Stato: se
restringiamo la nostra considerazione alle tasse in se stesse, il dovere
di versarle risiede soltanto nei singoli cittadini. Se invece si
considera la determinazione delle tasse, è chiaro che essa non può
essere lasciata ai singoli cittadini, ma deve essere fatta da colui che
tiene le veci della società, ossia dall’autorità, secondo le diverse
condizioni dei cittadini stessi, con la preoccupazione di una
uguaglianza di proporziorne. In
questo senso soltanto si deve intendere che la giustizia legale risiede
principalmente nell’autorità.
È
vero che allora la giustizia legale si trova assai vicina a quella
distributiva: in effetti, nella concezione moderna la giustizia
distributiva non è più inquadrata nell’ambito della giustizia
particolare o privata, insieme alla commutativa, ma nell’ambito della
giustizia ordinata al bene comune, insieme alla giustizia legale.
Anche
nella giustizia legale, secondo la terminologia tradizionale si
distingue l’oggetto materiale remoto e quello prossimo: il primo è
costituito semplicemente dal bene comune, il secondo invece dalle
attività dei cittadini, in quanto orientate a raggiungere e a
promuovere il bene comune.
L’oggetto
materiale remoto non può essere costituito dal benessere materiale, ma
anche e soprattutto dall’insieme delle virtù umane, intellettuali e
morali, non escluse quelle soprannaturali. I beni terreni non possono
essere separati dal destino eterno dell’uomo. Molto opportunamente gli
interventi di Leone XIII, di Pio XI e di Pio XII pongono nell’ambito
del bene comune lo spirito di carità, la custodia della fede, la probità
dei costumi e la santità della famiglia, ed insieme la fedeltà nei
contratti, il lavoro per tutti, il giusto salario della prestazione di
lavoro ecc. È pertanto assurda l’accusa fatta alla Chiesa di
oltrepassare il suo mandato quando si interessa dell’aspetto materiale
del bene comune, perché lo fa considerandolo il presupposto necessario
del progresso spirituale.
Nell’ambito
della giustizia sociale hanno parte ugualmente i beni materiali e quelli
spirituali, come nell’uomo non si può prescindere dall’anima o dal
corpo.
Le
attività umane, ossia l’oggetto materiale prossimo, sia da parte dei
dirigenti della società, sia da parte dei suoi membri, devono essere
ordinate al bene comune, senza escludere una contropartita, la quale
resta imperniata soprattutto sui valori della persona.
Negli
stati moderni, anche non marxisti, l’importanza dei doveri imposti
dalla giustizia legale si trova in forte crescendo e non è raro sentire
rivolte ai cattolici in Italia accuse di poca sincerità verso lo Stato.
Accuse del genere contengono forse qualche briciolo di verità e la cosa
può spiegarsi con le particolari condizioni storiche nelle quali si è
sviluppato lo stato unitario italiano sotto la spinta della massoneria,
che ha saputo manovrare le stesse masse cattoliche, determinando o
sfruttando lungamente un certo conflitto tra Stato e Chiesa. Non si può
negare che anche attualmente i cattolici italiani non sono sempre così
ben disposti verso il loro Stato, come i cattolici degli Stati nordici o
anche semplicemente di Spagna e di Francia.
Ma
se ci mettiamo sul piano della dottrina della Chiesa, i doveri dei
fedeli verso la Chiesa, società perfetta visibile, gerarchica,
universale e soprannaturale non differiscono dai doveri verso lo Stato,
società perfetta nell’ordine temporale, quanto alla loro ispirazione.
L’Enciclica « Sapientiae christianae » di Leone XIII espone sotto il
triplice aspetto della pietà, della fedeltà e dell’obbedienza tanto
i doveri dei fedeli verso la Chiesa, quanto i doveri dei cittadini verso
lo Stato.
È
vero dunque che la religione non indebolisce, ma piuttosto conferma e
consolida i doveri verso lo Stato. In primo luogo il dovere della pietà:
i cittadini devono amare la società civile e politica con i fatti e con
il servizio effettivo, mettendo a sua disposizione la propria opera e i
mezzi necessari per impedire il male e promuovere il bene comune.
Ugualmente molteplici sono i doveri della fedeltà e le possibilità di
mancare ad essi. A tutti i cittadini incombe il dovere di promuovere la
pace, evitare la discordia, prevenire i delitti e le sedizioni,
astenersi dal pretendere ciò che non è ad essi dovuto. In terzo luogo
si deve obbedienza all’autorità e alle giuste leggi. In qualunque
regime i cittadini devono attendere al compimento dei loro doveri civici
e nel regime democratico essi devono pure valersi dei diritti e della
libertà, di cui godono, per conservare e migliorare tale regime. Il
mondo moderno è incamminato verso una unità, che potrà realizzarsi,
non realizzarsi o realizzarsi malamente. Si potrebbero moltiplicare le
citazioni di interventi del Papa Pio XII fin dal radiomessaggio
natalizio del 1941 per invitare i cattolici a prestare loro leale
collaborazione, con sincerità di propositi e di azione, per instaurare
un regime di pace nei singoli popoli e in tutto il mondo. La pace è
l’aspirazione di tutti gli uomini e di tutti i popoli, la base più
necessaria del bene comune. E l’azione dei cattolici deve mirare oltre
che a dare un aspetto religioso e morale al nuovo edificio
dell’unificazione del genere umano, alla costruzione stessa
dell’edificio dalle basi, per non trovarsi dinanzi alla triste e
possibile eventualità di un lavoro impossibile nel tentativo di dare
una patina cristiana ad un mondo unificato su basi e principi alieni
dallo spirito del Vangelo.
Si
tratta di problemi immani, per la soluzione dei quali Pio XII ha
rivendicato saggiamente la competenza della Chiesa nel dare direttive di
indole morale e religiosa. Tali direttive però resterebbero lettera morta, se i
cattolici non si preoccupassero seriamente di realizzarle,
trascrivendole nella realtà concreta della vita sociale per mezzo delle
loro organizzazioni sociali.
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