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Ferdinando Lambruschini La Giustizia virtù non facile
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LA
GIUSTIZIA E LE GIUSTIZIE
Tra le virtù cardinali, i greci, conformemente alla loro indole
speculativa, assegnavano il primo posto alla prudenza o saggezza o
sapienza, mentre i romani, conformemente alla loro mentalità pratica,
assegnavano il primato alla giustizia. Questa ha un indiscutibile
primato anche nel nostro tempo fondato sulla preminenza dei valori
sociali, perché esprime più compiutamente la perfezione delle
relazioni tra gli uomini, ossia della socialità, ma non si può dire
che la giustizia abbia minore importanza nel pensiero cristiano, che
pure la subordina alla carità. Se non abusassimo della pazienza dei
lettori, potremmo attardarci su un paradosso, in certo senso: mentre la
tradizione cristiana, pur esaltando la carità ha sviluppato la
giustizia, il razionalismo moderno, per esaltare la giustizia, pretende
di cancellare la carità dal novero delle virtù umane. Ora sappiamo che
il pensiero cristiano ha portato alle magnifiche realizzazioni della
società moderna, ma dubitiamo assai
che il razionalismo moderno spalanchi le
porte ad un vero progresso umano o all’involuzione dell’umanità.
Non vogliamo essere profeti di malaugurio, ma nutriamo i nostri bravi
dubbi in proposito. Una
divisione, caduta in desuetudine, della giustizia.
Secondo il pensiero cristiano, la giustizia mette ogni uomo in rapporto
non soltanto con tutti gli altri amici o nemici, parenti o estranei, ma
anche con Dio.
La terminologia scolastica, un po’ ostica alla orecchiabilità del
nostro tempo, ma ricca di contenuto profondo, distingue le parti
integrali e potenziali della giustizia. Le prime sono indicate in due
aspetti generali del principio universalmente accettato, di fare il bene
ed evitare il male, nelle relazioni con gli altri.
Non si tratta di una considerazione cervellotica e arbitraria, perché
la via alla giustizia, nella sua realizzazione negativa di non fare male
a nessuno ed in quella positiva di fare del bene a tutti, viene posta
nell’ambito della moralità, che ci fa vedere negli altri uomini delle
persone che hanno dei diritti nei nostri confronti, come noi ne abbiamo
verso di loro, con la reciprocità di conseguenti doveri. La cosiddetta
giustizia integrale in fondo potrebbe intendersi, come l’anticipata
formulazione, anche se involuta ancora, del pensiero di Kant, che invita
a considerare gli altri uomini come fini e non come mezzi o strumenti
dei nostri interessi particolari. Si
chiamano invece dagli scolastici parti potenziali della giustizia quelle
virtù, che pur rientrando nell’ambito della giustizia come virtù
cardinale, non ne realizzano pienamente la definizione. Poiché
l’essenza della giustizia consiste nel rendere a ciascuno ciò che gli
è dovuto secondo un criterio di uguaglianza dei rapporti,
l’incompletezza delle virtù potenziali si può verificare o
nell’assenza di un diritto stretto o nella mancanza di una vera
uguaglianza tra le parti. Sotto il primo aspetto si pongono l’amicizia
e la liberalità, che pur non trovandosi sulla linea dello stretto
dovere, hanno tanta importanza nella convivenza umana, mentre sotto il
secondo rispetto rientrano nell’ambito della giustizia, sia pure
imperfettamente, la religione, la pietà filiale e l’obbedienza alle
autorità costituite. Nella
religione infatti rendiamo a Dio il culto che gli é dovuto; ma chi
potrebbe illudersi di rendere tutto il culto dovuto, secondo una linea
di uguaglianza, quando sappiamo che tra Dio e l’uomo si ha un abisso,
in quanto l’uomo che tutto ha ricevuto da Dio, rende a Dio solo
qualche briciola di ciò che ha ricevuto e può perfino giungere a
ribellarsi al suo benefico Creatore con l’irreligione? Sia pure in
forma minore non si verifica la linea dell’uguaglianza neppure nella
pietà verso i genitori o verso la patria: dai genitori abbiamo ricevuto
la vita, che non possiamo restituire, mentre spesso alla patria
sacrifichiamo la nostra vita, senza ricavarne uguali vantaggi. L’obbedienza
infine ed il rispetto nei confronti dei superioni, costituiti in autorità,
per la stessa natura delle cose, si basa più sull’ineguaglianza che
sull’uguaglianza. Quando
si parla delle divisioni della giustizia, si fa appena cenno di queste
forme di giustizia integrale o potenziale, di cui parlavano invece tanto
volentieri gli scolastici. Troppe e troppo profonde differenze di
metodologia e di didattica separano i nostri tempi da quelli di S.
Tommaso e tuttavia non ci stancheremo di ripetere che, dietro
metodologie divenute pressoché incomprensibili, si nascondono tesori di
sapienza e di riflessione umana che, debitamente compresi, farebbero
cadere molti equivoci e molte prevenzioni. Certamente le Somme del
medioevo non si possono leggere come giornali o come settimanali
illustrati, ma devono essere studiate e meditate con amore e passione
per rivelare ricchezze nascoste e impenetrabili all’attenzione dei
nostri contemporanei, spesso così superficiali e distolti dai più
profondi problemi dello Spirito, perché chiusi in una falsa
problematica, che si esaurisce in schermaglie più o meno retoriche.
Anche alle cattedrali gotiche del 300 i superficiali preferiscono le
nostre chiese moderne, più funzionali e ricche di luce, mentre lo
studio e l’ammirazione dei cultori di arte ne proclamano gli altissimi
pregi di fede e di umanità. Una
divisone antica sempre attuale: le tre giustizie La
divisione invece più accessibile e di sempre viva attualità pure nella
formulazione antica e originaria é quella che ci presenta la giustizia
commutativa, la giustizia distributiva e la giustizia legale. Lasciando
da parte le discussioni su i criteri teorici che danno origine alla
divisione, possiamo accettarla come triplice espressione delle relazioni
intrasubiettive, che caratterizzano la giustizia. Gli uomini infatti,
che nelle reciproche relazioni devono essere guidati dalla giustizia, si
possono considerare nella loro esistenza fisica, concreta e personale e
nell’ambito della società, civile od ecclesiastica, cui appartengono.
Ne sorgono tre specie di relazioni, quelle da persona a persona,
regolate dalla giustizia commutativa che impone reciproci doveri e
riconosce reciproci diritti, quelle dalla comunità alle persone, che ne
fanno parte, regolate dalla giustizia distributiva ed infine quelle
dalla persona-cittadino alla comunità, che lo protegge, regolate dalla
giustizia legale. Non
sarà difficile ammettere che la definizione Invece
nella giustizia distributiva e legale non si verifica né la perfetta alterità né la piena
uguaglianza. La persona singolare, pur contrapponendosi alla comunità
nell’esercizio dei diritti ad essa riconosciuti, non è del tutto
estranea ad una società, di cui é parte e pertanto non se ne distingue
secondo una perfetta alterità. Così per lo meno pensano vari Autori. Che
manchi poi la piena e assoluta uguaglianza nella reciprocità di doveri
e di diritti è ancora più evidente, perché i cittadini non si possono
trovare su un piede di uguaglianza nel portare il loro contributo alla
comunità o nell’esigerne assistenza. Nell’ambito
della giustizia distributiva onori e oneri non sono partecipati ai
cittadini secondo un criterio di uguaglianza, ma secondo i meriti e le
possibilità dei singoli: d’altra parte i cittadini non saranno
chiamati a dare un identico contributo alla vita della comunità:
saranno invece tenuti a dare una prestazione proporzionata alle loro
condizioni di vita, di beni, di professione, di impegno sociale ecc. Da
qualche tempo anche i cattolici hanno cominciato a parlare di un’altra
specie di giustizia, quella sociale. Questa espressione, dopo una
prolungata quarantena di attesa e di purificazione, è entrata nei
documenti del Magistero ecclesiastico e precisamente a partire
dall’Enciclica « Quadragesimo
Anno »,
nella quale Pio XI, se non andiamo errati, ne fa uso otto volte.
Ritroviamo l’espressione nell’Enciclica «
Divini
Redemptoris » dello
stesso Pontefice e con frequenza nei discorsi di Pio XII. Nessuna
meraviglia dunque che essa goda di una grande fortuna nei nostri
ambienti, che non sempre sono riusciti a dominare i propri entusiasmi e
non sempre si sono resi conto dei limiti tra demagogia e realtà
sociale. D’altra
parte i Documenti pontifici non definiscono i criteri, che qualifichino
perfettamente la giustizia sociale e nonostante i loro molteplici
riferimenti riesce assai difficile agli Autori cattolici accordarsi
sulla classificazione e l’inquadramento definitivo della giustizia
sociale. Alcuni
la ritengono semplicemente l’insieme delle tre specie surriferite,
commutativa, distributiva e legale, viste sotto un nuovo aspetto,
imposto dal dinamismo della vita moderna nell’economia del lavoro,
dell’industria, del commercio e delle professioni, che si esprimono
con modalità così diverse da quelle dei tempi precedenti. La giustizia
sociale non sarebbe altro che l’armonizzazione e la sintesi dei nuovi
orientamenti della vita pubblica, nelle quali si affermano nuove
strutture, bisognose di essere moralizzate. Altri
invece vedono coincidere la giustizia sociale con la giustizia
distributiva e legale, in quanto lo Stato nella vita moderna di tutti i
popoli, sotto regime collettivo o liberale, va sempre maggiormente
estendendo la sua influenza in tutti i settori della vita pubblica e non
solo pubblica. Non
mancano poi Autori che identificano la giustizia sociale con quella
legale soltanto, in quanto basata sul bene comune e affermata come del
tutto prevalente sulle altre forme di giustizia basate sul bene privato.
Per completare il quadro, aggiungeremo che, secondo altri Autori, la
giustizia sociale costituisce una specie a sé stante, irriducibile alle
precedenti e consisterebbe nella protezione e promozione del benessere
comune, inteso soprattutto in senso economico, armonizzando i diritti e
i doveri dei singoli cittadini, delle famiglie e delle cosiddette società
intermedie nella socialità e nello Stato. Né
si deve dimenticare infine che nel quadro di ognuna delle quattro
impostazioni indicate, si hanno delle differenze di orientamenti e di
tendenze che non sono soltanto di tono o di sfumatura. La
giustizia sociale nei Documenti pontifici Si
sente spesso muovere alla dottrina tradizionale della Chiesa l’appunto
di avere polarizzato l’interesse degli studiosi sulla giustizia
commutativa, incentrata particolarmente nel rispetto della vita e della
proprietà privata, mentre oggi predomina la tendenza a polarizzare gli
studi sulla giustizia sociale, anche da parte di coloro che non arrivano
a considerare, con il marxismo, la proprietà privata come un furto. Torneremo
su questo discorso mentre ora ci limitiamo a indicare alcune
applicazioni della giustizia sociale fatte dalla «
Quadragesimo
Anno »
e dalla « Divini
Redemptoris », e
poi riprese dagli interventi di Pio XII. Pio
XI considera innanzi tutto la giustizia come la base di un ordine
economico migliore, nella collaborazione delle forze del lavoro e del
capitale, con la loro piena subordinazione morale. La
giustizia sociale é anche presentata come conformazione delle relazioni
sociali alle esigenze del bene comune, con il compito di imporre ai
nemici della società tutto ciò che è necessario per il bene comune. La
giustizia sociale presiede ancona alla equa ripartizione della
ricchezza, in modo che i vantaggi di una classe non tornino a detrimento
di un’altra. Alla
giustizia sociale appartengono inoltre i problemi riguardanti la giusta
remunerazione del lavoro, attraverso salari sufficienti per la famiglia.
Essa deve poi promuovere la massima diffusione possibile della proprietà
privata e delle assicurazioni sociali. A
Pio XI fa eco frequentemente Pio XII nei suoi moltiplicati interventi,
messaggi e discorsi, notando in particolare che non si può avere una
genuina giustizia sociale, che non sia basata sulla moralità pubblica,
nella quale il senso del dovere prevalga su interessi particolaristici. Anche
Pio XII ha spesso trattato ampiamente i problemi della proprietà
privata, della ricchezza, dei salari, del lavoro, della disoccupazione
ecc. nella luce della giustizia sociale. Le
molteplici discordanze a proposito di giustizia sociale, discordanze di
metodo più che di dottrina, scompaiono innanzi alla proclamazione di un
ondine nuovo, verso il quale siamo incamminati. Ma è proprio a questo
riguardo che occorre guardarsi da formulazioni demagogiche, tanto più
pericolose, quanto più superficiali. Tutti
siamo concordi circa la necessità di un profondo rinnovamento del
mondo, ma non possiamo allinearci con i nemici della fede cristiana, che
vantano e progettano la realizzazione del paradiso in terra: si tratta
di una sfida lanciata al Creatore e che a suo tempo non potrà non
essere raccolta, quando e come a Dio piacerà. Ci saranno certamente
cieli nuovi e terre nuove, ma ogni cosa resterà al posto che il
Signore ha scelto, senza alcun adattamento alle confusioni
dell’uomo. I marxisti ritengono che basti rinnovane le strutture
esteriori, perché automaticamente rimanga rinnovato l’uomo, da esse
condizionato, ad esempio attraverso la collettivizzazione, la
socializzazione della proprietà. Questo
ideale parte da un presupposto falsissimo dell’asservimento
dell’uomo alla materia, mentre noi cristiani possiamo e dobbiamo
partire da un principio opposto, quello del dominio dell’uomo sulla
materia e sulle forze della natura per mezzo dell’intelligenza e della
volontà, ricevute in dono da Dio. Ma perché il nostro principio non
rimanga inerte, privo di dinamismo, occorre nella gigantesca crescita
delle strutture esteriori, caratteristica del nostro tempo, potenziare
la forma interiore dell’uomo. «
E tutto
un mondo che occorre rifare dalle fondamenta, che bisogna trasformare da
selvatico in umano, da umano in divino, vale a dire secondo il cuore di
Dio»,
ammoniva Pio XII. E ancora: Il
rinnovamento del mondo sarà positivo se basato sul rinnovamento
spirituale secondo l’antica preghiera della Chiesa: «
Rivestitemi
o Signore di un nuovo uomo, creato secondo il cuore di Dio, nella
giustizia e nella santità della verità ».
Rivestirsi di una veste nuova può significare il rinnovamento
esteriore delle strutture, ma quando S. Paolo ci invita a rivestirci
dell’uomo nuovo, che è Gesù Cristo stesso (cfr. Rm. 13,14), vuole
esprimere il rinnovamento più profondo dell’umanità.
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