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Il libro si presenta come
opera del re Salomone con un evidente artificio letterario (cfr. introd.
a Qo), perché esso è opera di un pio giudeo di lingua greca, sicuro
conoscitore del mondo ellenistico, che viveva in Alessandria d’Egitto
tra il 120-80 a.C. Si tratta, perciò, dell’ultimo libro dell’Antico
Testamento. Imbevuto della più pura tradizione biblica, l’autore si
rivolge ai suoi correligionari che vivevano in ambiente greco, per
convincerli della superiorità della sapienza ebraica, ispirata da Dio e
concretamente espressa nella legge che governa il popolo eletto, sulla
filosofia e la vita pagana. Nelle sue grandi linee, il libro espone le
vie della sapienza opposte alla via degli empi (cc. 1-5), la sapienza in
se stessa come realtà divina (cc. 6-9), le opere della sapienza divina
nella storia di Israele (cc. 10-19). In quest’opera, la dottrina biblica
sulla sapienza raggiunge gli ultimi sviluppi ed è come il prodromo
dell’insegnamento del Nuovo Testamento sulla grazia; a sua volta, il
Nuovo Testamento sulla grazia; a sua volta, il Nuovo Testamento aiuta a
capire la dottrina dell’Antico sulla sapienza. La speranza beata nell’al
di là è espressa con rara chiarezza, illuminando il problema dell’umano
destino (cfr. introd. a Gb e Qo). E’ l’ultimo passo verso la rivelazione
cristiana: Cristo, Sapienza di Dio incarnata tra gli uomini, è la fonte
della vita e della felicità eterna. Questo spiega l’influsso che il
libro ha esercitato sulla cristologia di Giovanni e di Paolo.
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