[1] Sotto il regno di Assarhaddon ritornai dunque a
casa mia e mi fu restituita la compagnia della moglie Anna e del figlio
Tobia. Per la nostra festa di pentecoste, cioè la festa delle settimane,
avevo fatto preparare un buon pranzo e mi posi a tavola:
[2] la tavola era imbandita di molte vivande. Dissi al figlio Tobia:
"Figlio mio, và, e se trovi tra i nostri fratelli deportati a Ninive
qualche povero, che sia però di cuore fedele, portalo a pranzo insieme
con noi. Io resto ad aspettare che tu ritorni".
[3] Tobia uscì in cerca di un povero tra i nostri fratelli. Di ritorno
disse: "Padre!". Gli risposi: "Ebbene, figlio mio".
"Padre - riprese - uno della nostra gente è stato strangolato e
gettato nella piazza, dove ancora si trova".
[4] Io allora mi alzai, lasciando intatto il pranzo; tolsi l'uomo dalla
piazza e lo posi in una camera in attesa del tramonto del sole, per
poterlo seppellire.
[5] Ritornai e, lavatomi, presi il pasto con tristezza,
[6] ricordando le parole del profeta Amos su Betel:
"Si cambieranno le vostre feste in lutto, tutti i vostri canti in
lamento".
[7] E piansi. Quando poi calò il sole, andai a scavare una fossa e ve lo
seppellii.
[8] I miei vicini mi deridevano dicendo: "Non ha più paura! Proprio
per questo motivo è già stato ricercato per essere ucciso. È dovuto
fuggire ed ora eccolo di nuovo a seppellire i morti".
[9] Quella notte, dopo aver seppellito il morto, mi lavai, entrai nel mio
cortile e mi addormentai sotto il muro del cortile. Per il caldo che c'era
tenevo la faccia scoperta,
[10] ignorando che sopra di me, nel muro, stavano dei passeri. Caddero sui
miei occhi i loro escrementi ancora caldi, che mi produssero macchie
bianche, e dovetti andare dai medici per la cura. Più essi però mi
applicavano farmachi, più mi si oscuravano gli occhi per le macchie
bianche, finché divenni cieco del tutto. Per quattro anni fui cieco e ne
soffersero tutti i miei fratelli. Achikar, nei due anni che precedettero
la sua partenza per l'Elimaide, provvide al mio sostentamento.
[11] In quel tempo mia moglie Anna lavorava nelle sue stanze a pagamento,
[12] tessendo la lana che rimandava poi ai padroni e ricevendone la paga.
Ora nel settimo giorno del mese di Distro, quando essa tagliò il pezzo
che aveva tessuto e lo mandò ai padroni, essi, oltre la mercede completa,
le fecero dono di un capretto per il desinare.
[13] Quando il capretto entrò in casa mia, si mise a belare. Chiamai
allora mia moglie e le dissi: "Da dove viene questo capretto? Non sarà
stato rubato? Restituiscilo ai padroni, poiché non abbiamo il diritto di
mangiare cosa alcuna rubata".
[14] Ella mi disse: "Mi è stato dato in più del salario". Ma
io non le credevo e le ripetevo di restituirlo ai padroni e a causa di ciò
arrossivo di lei. Allora per tutta risposta mi disse: "Dove sono le
tue elemosine? Dove sono le tue buone opere? Ecco, lo si vede bene dal
come sei ridotto!".
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