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LETTERA ENCICLICA
VERITATIS SPLENDOR
DEL SOMMO PONTEFICE
GIOVANNI PAOLO II
A TUTTI I VESCOVI DELLA CHIESA CATTOLICA
CIRCA ALCUNE QUESTIONI FONDAMENTALI
DELL'INSEGNAMENTO MORALE DELLA CHIESA
Introduzione
Venerati Fratelli nell'Episcopato,
salute e Apostolica Benedizione!
Lo splendore della verità rifulge in tutte
le opere del Creatore e, in modo
particolare, nell'uomo creato a immagine e
somiglianza di Dio (cf Gn 1,26): la verità
illumina l'intelligenza e informa la libertà
dell'uomo, che in tal modo viene guidato a
conoscere e ad amare il Signore. Per questo
il salmista prega: «Risplenda su di noi,
Signore, la luce del tuo volto» (Sal
4,7).
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Gesù Cristo, luce vera che illumina
ogni uomo
1. Chiamati alla salvezza mediante la fede
in Gesù Cristo, «luce vera che illumina ogni
uomo» (Gv 1,9), gli uomini diventano
«luce nel Signore» e «figli della luce» (Ef
5,8) e si santificano con «l'obbedienza alla
verità» (1 Pt 1,22).
Questa obbedienza non è sempre facile. In
seguito a quel misterioso peccato d'origine,
commesso per istigazione di Satana, che è
«menzognero e padre della menzogna» (Gv
8,44), l'uomo è permanentemente tentato
di distogliere il suo sguardo dal Dio vivo e
vero per volgerlo agli idoli (cf 1 Ts
1,9), cambiando «la verità di Dio con la
menzogna» (Rm 1,25); viene allora
offuscata anche la sua capacità di conoscere
la verità e indebolita la sua volontà di
sottomettersi ad essa. E così,
abbandonandosi al relativismo e allo
scetticismo (cf. Gv 18, 38), egli va
alla ricerca di una illusoria libertà al di
fuori della stessa verità.
Ma nessuna tenebra di errore e di peccato
può eliminare totalmente nell'uomo la luce
di Dio Creatore. Nella profondità del suo
cuore permane sempre la nostalgia della
verità assoluta e la sete di giungere alla
pienezza della sua conoscenza. Ne è prova
eloquente l'inesausta ricerca dell'uomo in
ogni campo e in ogni settore. Lo prova ancor
più la sua ricerca sul senso della vita.
Lo sviluppo della scienza e della tecnica,
splendida testimonianza delle capacità
dell'intelligenza e della tenacia degli
uomini, non dispensa dagli interrogativi
religiosi ultimi l'umanità, ma piuttosto la
stimola ad affrontare le lotte più dolorose
e decisive, quelle del cuore e della
coscienza morale.
2. Ogni uomo non può sfuggire alle domande
fondamentali: Che cosa devo fare? Come
discernere il bene dal male? La risposta
è possibile solo grazie allo splendore della
verità che rifulge nell'intimo dello spirito
umano, come attesta il salmista: «Molti
dicono: "Chi ci farà vedere il bene?".
Risplenda su di noi, Signore, la luce del
tuo volto» (Sal 4,7).
La luce del volto di Dio splende in tutta la
sua bellezza sul volto di Gesù Cristo,
«immagine del Dio invisibile» (Col
1,15), «irradiazione della sua gloria» (Eb
1,3), «pieno di grazia e di verità» (Gv
1,14): Egli è «la via, la verità e la vita»
(Gv 14,6). Per questo la risposta
decisiva ad ogni interrogativo dell'uomo, in
particolare ai suoi interrogativi religiosi
e morali, è data da Gesù Cristo, anzi è Gesù
Cristo stesso, come ricorda il Concilio
Vaticano II: «In realtà, solamente nel
mistero del Verbo incarnato trova vera luce
il mistero dell'uomo. Adamo, infatti, il
primo uomo, era figura di quello futuro, e
cioè di Cristo Signore. Cristo, che è il
nuovo Adamo, proprio rivelando il mistero
del Padre e del suo amore, svela anche
pienamente l'uomo all'uomo e gli fa nota la
sua altissima vocazione».1
Gesù Cristo, «la luce delle genti», illumina
il volto della sua Chiesa, che Egli manda in
tutto il mondo ad annunciare il Vangelo ad
ogni creatura (cf Mc 16,15).2
Così la Chiesa, Popolo di Dio in mezzo alle
nazioni,
3
mentre è attenta alle nuove sfide della
storia e agli sforzi che gli uomini compiono
nella ricerca del senso della vita, offre a
tutti la risposta che viene dalla verità di
Gesù Cristo e del suo Vangelo. È sempre viva
nella Chiesa la coscienza del suo «dovere
permanente di scrutare i segni dei tempi e
di interpretarli alla luce del Vangelo, così
che, in un modo adatto a ciascuna
generazione, possa rispondere ai perenni
interrogativi degli uomini sul senso della
vita presente e futura e sul loro reciproco
rapporto».4
3. I Pastori della Chiesa, in comunione col
Successore di Pietro, sono vicini ai fedeli
in questo sforzo, li accompagnano e li
guidano con il loro magistero, trovando
accenti sempre nuovi di amore e di
misericordia per rivolgersi non solo ai
credenti, ma a tutti gli uomini di buona
volontà. Il Concilio Vaticano II rimane una
testimonianza straordinaria di questo
atteggiamento della Chiesa che, «esperta in
umanità»,
5
si pone al servizio di ogni uomo e di tutto
il mondo.6
La Chiesa sa che l'istanza morale raggiunge
in profondità ogni uomo, coinvolge tutti,
anche coloro che non conoscono Cristo e il
suo Vangelo e neppure Dio. Sa che proprio
sulla strada della vita morale è aperta a
tutti la via della salvezza, come ha
chiaramente ricordato il Concilio Vaticano
II, che così scrive: «Quelli che senza colpa
ignorano il Vangelo di Cristo e la sua
Chiesa, e tuttavia cercano sinceramente Dio,
e sotto l'influsso della grazia si sforzano
di compiere con le opere la volontà di Dio,
conosciuta attraverso il dettame della
coscienza, possono conseguire la salvezza
eterna». Ed aggiunge: «Né la divina
Provvidenza nega gli aiuti necessari alla
salvezza a coloro che senza colpa da parte
loro non sono ancora arrivati a una
conoscenza esplicita di Dio, e si sforzano,
non senza la grazia divina, di condurre una
vita retta. Poiché tutto ciò che di buono e
di vero si trova in loro, è ritenuto dalla
Chiesa come una preparazione al Vangelo, e
come dato da Colui che illumina ogni uomo,
affinché abbia finalmente la vita».7
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L'oggetto della presente Enciclica
4. Sempre, ma soprattutto nel corso degli
ultimi due secoli, i Sommi Pontefici sia
personalmente che insieme al Collegio
episcopale hanno sviluppato e proposto un
insegnamento morale relativo ai molteplici e
differenti ambiti della vita umana.
In nome e con l'autorità di Gesù Cristo,
essi hanno esortato, denunciato, spiegato;
in fedeltà alla loro missione, nelle lotte
in favore dell'uomo, hanno confermato,
sostenuto, consolato; con la garanzia
dell'assistenza dello Spirito di verità
hanno contribuito ad una migliore
comprensione delle esigenze morali negli
ambiti della sessualità umana, della
famiglia, della vita sociale, economica e
politica. Il loro insegnamento costituisce,
all'interno della tradizione della Chiesa e
della storia dell'umanità, un continuo
approfondimento della conoscenza morale.8
Oggi, però, sembra necessario riflettere
sull'insieme dell'insegnamento morale della
Chiesa, con lo scopo preciso di
richiamare alcune verità fondamentali della
dottrina cattolica che nell'attuale contesto
rischiano di essere deformate o negate. Si è
determinata, infatti, una nuova
situazione entro la stessa comunità
cristiana, che ha conosciuto il
diffondersi di molteplici dubbi ed
obiezioni, di ordine umano e psicologico,
sociale e culturale, religioso ed anche
propriamente teologico, in merito agli
insegnamenti morali della Chiesa. Non si
tratta più di contestazioni parziali e
occasionali, ma di una messa in discussione
globale e sistematica del patrimonio morale,
basata su determinate concezioni
antropologiche ed etiche. Alla loro radice
sta l'influsso più o meno nascosto di
correnti di pensiero che finiscono per
sradicare la libertà umana dal suo
essenziale e costitutivo rapporto con la
verità. Così si respinge la dottrina
tradizionale sulla legge naturale,
sull'universalità e sulla permanente
validità dei suoi precetti; si considerano
semplicemente inaccettabili alcuni
insegnamenti morali della Chiesa; si ritiene
che lo stesso Magistero possa intervenire in
materia morale solo per «esortare le
coscienze» e per «proporre i valori», ai
quali ciascuno ispirerà poi autonomamente le
decisioni e le scelte della vita.
È da rilevare, in special modo, la
dissonanza tra la risposta tradizionale
della Chiesa e alcune posizioni teologiche,
diffuse anche in Seminari e Facoltà
teologiche, circa questioni della massima
importanza per la Chiesa e la vita di
fede dei cristiani, nonché per la stessa
convivenza umana. In particolare ci si
chiede: i comandamenti di Dio, che sono
scritti nel cuore dell'uomo e fanno parte
dell'Alleanza, hanno davvero la capacità di
illuminare le scelte quotidiane delle
singole persone e delle società intere? È
possibile obbedire a Dio e quindi amare Dio
e il prossimo, senza rispettare in tutte le
circostanze questi comandamenti? È anche
diffusa l'opinione che mette in dubbio il
nesso intrinseco e inscindibile che unisce
tra loro la fede e la morale, quasi che solo
in rapporto alla fede si debbano decidere
l'appartenenza alla Chiesa e la sua unità
interna, mentre si potrebbe tollerare
nell'ambito morale un pluralismo di opinioni
e di comportamenti, lasciati al giudizio
della coscienza soggettiva individuale o
alla diversità dei contesti sociali e
culturali.
5. In un tale contesto, tuttora attuale, è
maturata in me la decisione di scrivere —
come già annunciai nella Lettera apostolica
Spiritus Domini, pubblicata il 1o
agosto 1987 in occasione del secondo
centenario della morte di sant'Alfonso Maria
de' Liguori — un'Enciclica destinata a
trattare «più ampiamente e più profondamente
le questioni riguardanti i fondamenti stessi
della teologia morale»,9
fondamenti che vengono intaccati da alcune
tendenze odierne.
Mi rivolgo a voi, venerati Fratelli
nell'Episcopato, che condividete con me la
responsabilità di custodire la «sana
dottrina» (2 Tm 4,3), con
l'intenzione di precisare taluni aspetti
dottrinali che risultano decisivi per far
fronte a quella che è senza dubbio una vera
crisi, tanto gravi sono le difficoltà
che ne conseguono per la vita morale dei
fedeli e per la comunione nella Chiesa, come
pure per un'esistenza sociale giusta e
solidale.
Se questa Enciclica, da tanto tempo attesa,
viene pubblicata solo ora, lo è anche perché
è apparso conveniente farla precedere dal
Catechismo della Chiesa Cattolica, il
quale contiene un'esposizione completa e
sistematica della dottrina morale cristiana.
Il Catechismo presenta la vita morale dei
credenti nei suoi fondamenti e nei suoi
molteplici contenuti come vita dei «figli di
Dio»: «Riconoscendo nella fede la loro nuova
dignità, i cristiani sono chiamati a
comportarsi ormai "da cittadini degni del
Vangelo" (Fil 1,27). Mediante i
sacramenti e la preghiera, essi ricevono la
grazia di Cristo e i doni del suo Spirito,
che li rendono capaci di questa vita nuova».10
Nel rimandare pertanto al Catechismo «come
testo di riferimento sicuro ed autorevole
per l'insegnamento della dottrina
cattolica»,
11
l'Enciclica si limiterà ad affrontare
alcune questioni fondamentali
dell'insegnamento morale della Chiesa,
sotto forma di un necessario discernimento
su problemi controversi tra gli studiosi
dell'etica e della teologia morale. È questo
l'oggetto specifico della presente
Enciclica, che intende esporre, sui problemi
discussi, le ragioni di un insegnamento
morale fondato nella Sacra Scrittura e nella
viva Tradizione apostolica
12
mettendo in luce, nello stesso tempo, i
presupposti e le conseguenze delle
contestazioni di cui tale insegnamento è
fatto segno.
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I - «Maestro, che cosa devo fare di
buono...?» (MT 19,16) -
Cristo e la risposta alla domanda di
morale
«Un tale gli si avvicinò...» (Mt
19,16)
6. Il dialogo di Gesù con il giovane
ricco, riferito nel capitolo 19 del
Vangelo di san Matteo, può costituire
un'utile traccia per riascoltare in
modo vivo e incisivo il suo insegnamento
morale: «Ed ecco un tale gli si avvicinò
e gli disse: "Maestro, che cosa devo fare di
buono per ottenere la vita eterna?". Egli
rispose: "Perché mi interroghi su ciò che è
buono? Uno solo è buono. Se vuoi entrare
nella vita, osserva i comandamenti". Ed egli
chiese: "Quali?". Gesù rispose: "Non
uccidere, non commettere adulterio, non
rubare, non testimoniare il falso, onora il
padre e la madre, ama il prossimo tuo come
te stesso. Il giovane gli disse: "Ho sempre
osservato tutte queste cose; che mi manca
ancora?". Gli disse Gesù: "Se vuoi essere
perfetto, va', vendi quello che possiedi,
dallo ai poveri e avrai un tesoro nel cielo;
poi vieni e seguimi"«(Mt 19,16-21).13
7. «Ed ecco un tale...». Nel giovane,
che il Vangelo di Matteo non nomina,
possiamo riconoscere ogni uomo che,
coscientemente o no, si avvicina a
Cristo, Redentore dell'uomo, e gli pone la
domanda morale. Per il giovane, prima
che una domanda sulle regole da osservare, è
una domanda di pienezza di significato
per la vita. E, in effetti, è questa
l'aspirazione che sta al cuore di ogni
decisione e di ogni azione umana, la segreta
ricerca e l'intimo impulso che muove la
libertà. Questa domanda è ultimamente un
appello al Bene assoluto che ci attrae e ci
chiama a sé, è l'eco di una vocazione di
Dio, origine e fine della vita dell'uomo.
Proprio in questa prospettiva il Concilio
Vaticano II ha invitato a perfezionare la
teologia morale in modo che la sua
esposizione illustri l'altissima vocazione
che i fedeli hanno ricevuto in Cristo,
14
unica risposta che appaga pienamente il
desiderio del cuore umano.
Perché gli uomini possano realizzare
questo «incontro» con Cristo, Dio ha voluto
la sua Chiesa. Essa, infatti, «desidera
servire quest'unico fine: che ogni uomo
possa ritrovare Cristo, perché Cristo possa,
con ciascuno, percorrere la strada della
vita».15
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«Maestro, che cosa devo fare di buono
per ottenere la vita eterna?» (Mt
19,16)
8. Dalla profondità del cuore sorge la
domanda che il giovane ricco rivolge a Gesù
di Nazaret, una domanda essenziale e
ineludibile per la vita di ogni uomo:
essa riguarda, infatti, il bene morale da
praticare e la vita eterna. L'interlocutore
di Gesù intuisce che esiste una connessione
tra il bene morale e il pieno compimento del
proprio destino. Egli è un pio israelita,
cresciuto per così dire all'ombra della
Legge del Signore. Se pone questa domanda a
Gesù, possiamo immaginare che non lo faccia
perché ignora la risposta contenuta nella
Legge. È più probabile che il fascino della
persona di Gesù abbia fatto sorgere in lui
nuovi interrogativi intorno al bene morale.
Egli sente l'esigenza di confrontarsi con
Colui che aveva iniziato la sua predicazione
con questo nuovo e decisivo annuncio: «Il
tempo è compiuto e il Regno di Dio è vicino;
convertitevi e credete al Vangelo» (Mc
1,15).
Occorre che l'uomo di oggi si volga
nuovamente verso Cristo per avere da Lui la
risposta su ciò che è bene e ciò che è male.
Egli è il Maestro, il Risorto che ha in
sé la vita e che è sempre presente nella sua
Chiesa e nel mondo. È Lui che schiude ai
fedeli il libro delle Scritture e, rivelando
pienamente la volontà del Padre, insegna la
verità sull'agire morale. Alla sorgente e al
vertice dell'economia della salvezza, Alfa e
Omega della storia umana (cf Ap 1,8;
21,6; 22,13), Cristo rivela la condizione
dell'uomo e la sua vocazione integrale. Per
questo, «l'uomo che vuol comprendere se
stesso fino in fondo non soltanto secondo
immediati, parziali, spesso superficiali, e
perfino apparenti criteri e misure del
proprio essere deve, con la sua inquietudine
e incertezza ed anche con la sua debolezza e
peccaminosità, con la sua vita e morte,
avvicinarsi a Cristo. Egli deve, per così
dire, entrare in Lui con tutto se stesso,
deve "appropriarsi" ed assimilare tutta la
realtà dell'Incarnazione e della Redenzione
per ritrovare se stesso. Se in lui si attua
questo profondo processo, allora egli
produce frutti non soltanto di adorazione di
Dio, ma anche di profonda meraviglia di se
stesso».16
Se vogliamo dunque penetrare nel cuore della
morale evangelica e coglierne il contenuto
profondo e immutabile, dobbiamo ricercare
accuratamente il senso dell'interrogativo
posto dal giovane ricco del Vangelo e, più
ancora, il senso della risposta di Gesù,
lasciandoci guidare da Lui. Gesù, infatti,
con delicata attenzione pedagogica, risponde
conducendo il giovane quasi per mano, passo
dopo passo, verso la verità piena.
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«Uno solo è buono» (Mt
19,17)
9. Gesù dice: «Perché mi interroghi su ciò
che è buono? Uno solo è buono. Se vuoi
entrare nella vita, osserva i comandamenti»
(Mt 19, 17). Nella versione degli
evangelisti Marco e Luca la domanda viene
così formulata: «Perché mi chiami buono?
Nessuno è buono, se non Dio solo» (Mc
10,18; cf Lc 18,19).
Prima di rispondere alla domanda, Gesù vuole
che il giovane chiarisca a se stesso il
motivo per cui lo interroga. Il «Maestro
buono» indica al suo interlocutore — e a
tutti noi — che la risposta
all'interrogativo: «Che cosa devo fare di
buono per ottenere la vita eterna?», può
essere trovata soltanto rivolgendo la mente
e il cuore a Colui che «solo è buono»:
«Nessuno è buono, se non Dio solo» (Mc
10,18; cf Lc 18,19). Solo Dio
può rispondere alla domanda sul bene, perché
Egli è il Bene.
Interrogarsi sul bene, in effetti,
significa rivolgersi in ultima analisi verso
Dio, pienezza della bontà. Gesù mostra
che la domanda del giovane è in realtà una
domanda religiosa e che la bontà, che
attrae e al tempo stesso vincola l'uomo, ha
la sua fonte in Dio, anzi è Dio stesso,
Colui che solo è degno di essere amato «con
tutto il cuore, con tutta l'anima e con
tutta la mente» (Mt 22,37), Colui che
è la sorgente della felicità dell'uomo. Gesù
riporta la questione dell'azione moralmente
buona alle sue radici religiose, al
riconoscimento di Dio, unica bontà, pienezza
della vita, termine ultimo dell'agire umano,
felicità perfetta.
10. La Chiesa, istruita dalle parole del
Maestro, crede che l'uomo, fatto a immagine
del Creatore, redento con il sangue di
Cristo e santificato dalla presenza dello
Spirito Santo, ha come fine ultimo
della sua vita l'essere «a lode della
gloria» di Dio (cf Ef 1,12),
facendo sì che ognuna delle sue azioni ne
rifletta lo splendore. «Conosci dunque te
stessa, o anima bella: tu sei l'immagine
di Dio — scrive sant'Ambrogio —. Conosci
te stesso, o uomo: tu sei la gloria di
Dio (1 Cor 11,7). Ascolta in che
modo ne sei la gloria. Dice il profeta:
La tua scienza è divenuta mirabile
provenendo da me (Sal 1381,6),
cioè: nella mia opera la tua maestà è più
ammirabile, la tua sapienza viene esaltata
nella mente dell'uomo. Mentre considero me
stesso, che tu scruti nei segreti pensieri e
negli intimi sentimenti, io riconosco i
misteri della tua scienza. Conosci dunque te
stesso, o uomo, quanto grande tu sei e
vigila su di te...».17
Ciò che l'uomo è e deve fare si manifesta
nel momento in cui Dio rivela se stesso.
Il Decalogo, infatti, si fonda su queste
parole: «Io sono il Signore, tuo Dio, che ti
ho fatto uscire dal paese d'Egitto, dalla
condizione di schiavitù: non avrai altri dèi
di fronte a me» (Es 20,2-3). Nelle
«dieci parole» dell'Alleanza con Israele, e
in tutta la Legge, Dio si fa conoscere e
riconoscere come Colui che «solo è buono»;
come Colui che, nonostante il peccato
dell'uomo, continua a rimanere il «modello»
dell'agire morale, secondo la sua stessa
chiamata: «Siate santi, perché io, il
Signore, Dio vostro, sono santo» (Lv
19,2); come Colui che, fedele al suo amore
per l'uomo, gli dona la sua Legge (cf Es
19,9-24 e 20, 18-21), per ristabilire
l'originaria armonia col Creatore e con
tutto il creato, ed ancor più per introdurlo
nel suo amore: «Camminerò in mezzo a voi,
sarò il vostro Dio e voi sarete il mio
popolo» (Lv 26,12).
La vita morale si presenta come risposta
dovuta alle iniziative gratuite che
l'amore di Dio moltiplica nei confronti
dell'uomo. È una risposta d'amore,
secondo l'enunciato che del comandamento
fondamentale fa il Deuteronomio:
«Ascolta, Israele: il Signore è il nostro
Dio, il Signore è uno solo: Tu amerai il
Signore tuo Dio con tutto il cuore, con
tutta l'anima e con tutte le forze. Questi
precetti, che oggi ti do, ti stiano fissi
nel cuore; li ripeterai ai tuoi figli» (Dt
6,47). Così, la vita morale, coinvolta
nella gratuità dell'amore di Dio, è chiamata
a rifletterne la gloria: «Per chi ama Dio è
sufficiente piacere a Colui che egli ama:
poiché non deve ricercarsi nessun'altra
ricompensa maggiore dello stesso amore; la
carità, infatti, proviene da Dio in maniera
tale che Dio stesso è carità».18
11. L'affermazione che «uno solo è buono» ci
rimanda così alla «prima tavola» dei
comandamenti, che chiama a riconoscere Dio
come Signore unico e assoluto e a rendere
culto a Lui solo a motivo della sua infinita
santità (cf Es 20,2-11). Il bene è
appartenere a Dio, obbedire a Lui,
camminare umilmente con Lui praticando la
giustizia e amando la pietà (cf Mic
6,8). Riconoscere il Signore come Dio è
il nucleo fondamentale, il cuore della Legge,
da cui discendono e a cui sono ordinati i
precetti particolari. Mediante la morale dei
comandamenti si manifesta l'appartenenza del
popolo di Israele al Signore, perché Dio
solo è Colui che è buono. Questa è la
testimonianza della Sacra Scrittura, in ogni
sua pagina permeata dalla viva percezione
dell'assoluta santità di Dio: «Santo, santo,
santo è il Signore degli eserciti» (Is
6,3).
Ma se Dio solo è il Bene, nessuno sforzo
umano, neppure l'osservanza più rigorosa dei
comandamenti, riesce a «compiere» la Legge,
cioè a riconoscere il Signore come Dio e a
rendergli l'adorazione che a Lui solo è
dovuta (cf Mt 4,10). Il
«compimento» può venire solo da un dono di
Dio: è l'offerta di una partecipazione
alla Bontà divina che si rivela e si
comunica in Gesù, colui che il giovane ricco
chiama con le parole «Maestro buono» (Mc
10,17; Lc 18,18). Ciò che ora il
giovane riesce forse solo a intuire, verrà
alla fine pienamente rivelato da Gesù stesso
nell'invito: «Vieni e seguimi» (Mt
19,21).
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«Se vuoi entrare nella vita, osserva i
comandamenti» (Mt 19,17)
12. Solo Dio può rispondere alla domanda sul
bene, perché Egli è il Bene. Ma Dio ha già
dato risposta a questa domanda: lo ha fatto
creando l'uomo e ordinandolo con
sapienza e con amore al suo fine, mediante
la legge inscritta nel suo cuore (cf Rm
2,15), la «legge naturale». Questa
«altro non è che la luce dell'intelligenza
infusa in noi da Dio. Grazie ad essa
conosciamo ciò che si deve compiere e ciò
che si deve evitare. Questa luce e questa
legge Dio l'ha donata nella creazione».19
Lo ha fatto poi nella storia di Israele,
in particolare con le «dieci parole»,
ossia con i comandamenti del Sinai,
mediante i quali Egli ha fondato l'esistenza
del popolo dell'Alleanza (cf Es 24) e
l'ha chiamato ad essere la sua «proprietà
tra tutti i popoli», «una nazione santa» (Es
19,56), che facesse risplendere la sua
santità tra tutte le genti (cf Sap
18,4; Ez 20,41). Il dono del Decalogo
è promessa e segno dell'Alleanza Nuova,
quando la legge sarà nuovamente e
definitivamente scritta nel cuore dell'uomo
(cf Ger 31, 31-34), sostituendosi
alla legge del peccato, che quel cuore aveva
deturpato (cf Ger 17,1). Allora verrà
donato «un cuore nuovo» perché in esso
abiterà «uno spirito nuovo», lo Spirito di
Dio (cf Ez 36,24-28).20
Per questo, dopo l'importante precisazione:
«Uno solo è buono», Gesù risponde al
giovane: «Se vuoi entrare nella vita,
osserva i comandamenti» (Mt 19,17).
Viene in tal modo enunciato uno stretto
legame tra la vita eterna e l'obbedienza ai
comandamenti di Dio: sono i comandamenti
di Dio che indicano all'uomo la via della
vita e ad essa conducono. Dalla bocca stessa
di Gesù, nuovo Mosè, vengono ridonati agli
uomini i comandamenti del Decalogo; egli
stesso li conferma definitivamente e li
propone a noi come via e condizione di
salvezza. Il comandamento si lega a una
promessa: nella Alleanza Antica oggetto
della promessa era il possesso di una terra
in cui il popolo avrebbe potuto condurre
un'esistenza nella libertà e secondo
giustizia (cf Dt 6,20-25); nella
Alleanza Nuova oggetto della promessa è il
«Regno dei cieli», come Gesù afferma
all'inizio del «Discorso della Montagna» —
discorso che contiene la formulazione più
ampia e completa della Legge Nuova (cf Mt
5-7) —, in evidente connessione con il
Decalogo affidato da Dio a Mosè sul monte
Sinai. Alla medesima realtà del Regno fa
riferimento l'espressione «vita eterna», che
è partecipazione alla vita stessa di Dio:
essa si realizza nella sua perfezione solo
dopo la morte, ma nella fede è già fin d'ora
luce di verità, sorgente di senso per la
vita, incipiente partecipazione ad una
pienezza nella sequela di Cristo. Dice,
infatti, Gesù ai discepoli dopo l'incontro
con il giovane ricco: «Chiunque avrà
lasciato case, o fratelli, o sorelle, o
padre, o madre, o figli, o campi per il mio
nome, riceverà cento volte tanto e avrà in
eredità la vita eterna» (Mt 19,29).
13. La risposta di Gesù non basta al
giovane, che insiste interrogando il Maestro
circa i comandamenti da osservare: «Ed egli
chiese: "Quali?"«(Mt 19,18). Chiede
che cosa deve fare nella vita per rendere
manifesto il riconoscimento della santità di
Dio. Dopo aver orientato lo sguardo del
giovane verso Dio, Gesù gli ricorda i
comandamenti del Decalogo che riguardano il
prossimo: «Gesù rispose: "Non uccidere, non
commettere adulterio, non rubare, non
testimoniare il falso, onora il padre e la
madre, ama il prossimo tuo come te stesso» (Mt
19,18-19).
Dal contesto del colloquio e, specialmente,
dal confronto del testo di Matteo con i
passi paralleli di Marco e di Luca, risulta
che Gesù non intende elencare tutti e
singoli i comandamenti necessari per
«entrare nella vita», ma, piuttosto,
rimandare il giovane alla centralità del
Decalogo rispetto ad ogni altro
precetto, quale interpretazione di ciò che
per l'uomo significa «Io sono il Signore,
Dio tuo». Non può sfuggire, comunque, alla
nostra attenzione quali comandamenti della
Legge il Signore Gesù ricorda al giovane:
sono alcuni comandamenti che appartengono
alla cosiddetta «seconda tavola» del
Decalogo, di cui compendio (cf Rm
13,8-10) e fondamento è il comandamento
dell'amore del prossimo: «Ama il
prossimo tuo come te stesso» (Mt
19,19; cf Mc 12,31). In questo
comandamento si esprime precisamente la
singolare dignità della persona umana,
la quale è «la sola creatura che Dio abbia
voluto per se stessa».21
I diversi comandamenti del Decalogo non sono
in effetti che la rifrazione dell'unico
comandamento riguardante il bene della
persona, a livello dei molteplici beni che
connotano la sua identità di essere
spirituale e corporeo, in relazione con Dio,
col prossimo e col mondo delle cose. Come
leggiamo nel Catechismo della Chiesa
Cattolica, «i dieci comandamenti
appartengono alla rivelazione di Dio. Al
tempo stesso ci insegnano la vera umanità
dell'uomo. Mettono in luce i doveri
essenziali e, quindi, indirettamente, i
diritti fondamentali inerenti alla natura
della persona umana».22
I comandamenti, ricordati da Gesù al giovane
interlocutore, sono destinati a tutelare
il bene della persona, immagine di Dio,
mediante la protezione dei suoi beni.
«Non uccidere, non commettere adulterio, non
rubare, non testimoniare il falso» sono
regole morali formulate in termini di
divieto. I precetti negativi esprimono con
particolare forza l'esigenza insopprimibile
di proteggere la vita umana, la comunione
delle persone nel matrimonio, la proprietà
privata, la veridicità e la buona fama.
I comandamenti rappresentano, quindi, la
condizione di base per l'amore del prossimo;
essi ne sono al contempo la verifica. Sono
la prima tappa necessaria nel cammino
verso la libertà, il suo inizio: «La
prima libertà — scrive sant'Agostino —
consiste nell'essere esenti da crimini...
come sarebbero l'omicidio, l'adulterio, la
fornicazione, il furto, la frode, il
sacrilegio e così via. Quando uno comincia a
non avere questi crimini (e nessun cristiano
deve averli), comincia a levare il capo
verso la libertà, ma questo non è che
l'inizio della libertà, non la libertà
perfetta...».23
14. Ciò non significa, certo, che Gesù
intenda dare la precedenza all'amore del
prossimo o addirittura separarlo dall'amore
di Dio. Lo testimonia il suo dialogo col
dottore della Legge: questi, che pone una
domanda molto simile a quella del giovane,
si sente rimandato da Gesù ai due
comandamenti dell'amore di Dio e dell'amore
del prossimo (cf Lc 10, 25-27) e
invitato a ricordare che solo la loro
osservanza conduce alla vita eterna: «Fa'
questo e vivrai» (Lc 10,28). È
comunque significativo che sia proprio il
secondo di questi comandamenti a suscitare
la curiosità e l'interrogativo del dottore
della Legge: «Chi è il mio prossimo?» (Lc
10,29). Il Maestro risponde con la
parabola del buon Samaritano, la
parabola-chiave per la piena comprensione
del comandamento dell'amore del prossimo (cf
Lc 10,30-37).
I due comandamenti, dai quali «dipende tutta
la Legge e i Profeti» (Mt 22,40),
sono profondamente uniti tra loro e si
compenetrano reciprocamente. La loro
unità inscindibile è testimoniata da
Gesù con le parole e con la vita: la sua
missione culmina nella Croce che redime (cf
Gv 3,14-15), segno del suo
indivisibile amore al Padre e all'umanità
(cf Gv 13,1).
Sia l'Antico che il Nuovo Testamento sono
espliciti nell'affermare che senza
l'amore per il prossimo, che si
concretizza nell'osservanza dei
comandamenti, non è possibile l'autentico
amore per Dio. Lo scrive con vigore
straordinario san Giovanni: «Se uno dicesse:
"Io amo Dio", e odiasse il suo fratello, è
un mentitore. Chi, infatti, non ama il
proprio fratello che vede, non può amare Dio
che non vede» (1 Gv 4,20).
L'evangelista fa eco alla predicazione
morale di Cristo, espressa in modo mirabile
e inequivocabile nella parabola del buon
Samaritano (cf Lc 10, 19-37) e nel
«discorso» sul giudizio finale (cf Mt
25,31-46).
15. Nel «Discorso della Montagna», che
costituisce la magna charta della
morale evangelica,24
Gesù dice: «Non pensate che io sia venuto ad
abolire la Legge o i Profeti; non sono
venuto per abolire, ma per dare compimento»
(Mt 5,17). Cristo è la chiave delle
Scritture: «Voi scrutate le Scritture: esse
parlano di me» (cf Gv 5,39); è il
centro dell'economia della salvezza, la
ricapitolazione dell'Antico e del Nuovo
Testamento, delle promesse della Legge e del
loro compimento nel Vangelo; è il legame
vivente ed eterno tra l'Antica e la Nuova
Alleanza. Commentando l'affermazione di
Paolo «Il termine della legge è Cristo» (Rm
10,4), sant'Ambrogio scrive: «Fine non
in quanto mancanza, ma in quanto pienezza
della legge: questa si compie in Cristo (plenitudo
legis in Christo est), dal momento che
Egli è venuto non a dissolvere la legge, ma
a portarla a compimento. Allo stesso modo in
cui c'è un Testamento Antico, ma ogni verità
sta all'interno del Nuovo Testamento, così
avviene per la legge: quella che è stata
data per mezzo di Mosè è figura della vera
legge. Dunque, quella legge mosaica è copia
della verità».25
Gesù porta a compimento i comandamenti di
Dio, in particolare il comandamento
dell'amore del prossimo, interiorizzando
e radicalizzando le sue esigenze:
l'amore del prossimo scaturisce da un
cuore che ama, e che, proprio perché
ama, è disposto a vivere le esigenze più
alte. Gesù mostra che i comandamenti non
devono essere intesi come un limite minimo
da non oltrepassare, ma piuttosto come una
strada aperta per un cammino morale e
spirituale di perfezione, la cui anima è
l'amore (cf Col 3,14). Così il
comandamento «Non uccidere» diventa
l'appello ad un amore sollecito che tutela e
promuove la vita del prossimo; il precetto
che vieta l'adulterio diventa l'invito ad
uno sguardo puro, capace di rispettare il
significato sponsale del corpo: «Avete
inteso che fu detto agli antichi: Non
uccidere; chi avrà ucciso sarà
sottoposto a giudizio. Ma io vi dico:
chiunque si adira con il proprio fratello,
sarà sottoposto a giudizio... Avete inteso
che fu detto: Non commettere adulterio;
ma io vi dico: chiunque guarda ad una
donna per desiderarla, ha già commesso
adulterio con lei nel suo cuore» (Mt
5,21-22.27-28). È Gesù stesso il
«compimento» vivo della Legge in quanto
egli ne realizza il significato autentico
con il dono totale di sé: diventa Lui
stesso Legge vivente e personale, che
invita alla sua sequela, dà mediante lo
Spirito la grazia di condividere la sua
stessa vita e il suo stesso amore e offre
l'energia per testimoniarlo nelle scelte e
nelle opere (cf Gv 13,34-35).
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«Se vuoi essere perfetto» (Mt
19,21)
16. La risposta sui comandamenti non
soddisfa il giovane, che interroga Gesù: «Ho
sempre osservato tutte queste cose; che
cosa mi manca ancora?» (Mt
19,20). Non è facile dire con buona
coscienza: «ho sempre osservato tutte queste
cose», se appena si comprende l'effettiva
portata delle esigenze racchiuse nella Legge
di Dio. E tuttavia, se anche gli è possibile
dare una simile risposta, se anche ha
seguito l'ideale morale con serietà e
generosità fin dalla fanciullezza, il
giovane ricco sa di essere ancora lontano
dalla meta: davanti alla persona di Gesù
avverte che qualcosa ancora gli manca. È
alla consapevolezza di questa insufficienza
che si rivolge Gesù nella sua ultima
risposta: cogliendo la nostalgia per una
pienezza che superi l'interpretazione
legalistica dei comandamenti, il Maestro
buono invita il giovane ad entrare nella
strada della perfezione: «Se vuoi essere
perfetto, va', vendi quello che possiedi,
dallo ai poveri e avrai un tesoro nel cielo;
poi vieni e seguimi» (Mt 19,21).
Come già il precedente passo della risposta
di Gesù, così anche questo deve essere letto
e interpretato nel contesto di tutto il
messaggio morale del Vangelo e,
specialmente, nel contesto del Discorso
della Montagna, delle beatitudini (cf Mt
5,3-12), la prima delle quali è proprio
la beatitudine dei poveri, dei «poveri in
spirito», come precisa san Matteo (Mt
5,3), ossia degli umili. In tal senso si può
dire che anche le beatitudini rientrano
nello spazio aperto dalla risposta che Gesù
dà all'interrogativo del giovane: «Che cosa
devo fare di buono per ottenere la vita
eterna?». Infatti, ogni beatitudine
promette, secondo una particolare
prospettiva, proprio quel «bene» che apre
l'uomo alla vita eterna, anzi che è la
stessa vita eterna.
Le beatitudini non hanno propriamente
come oggetto delle norme particolari di
comportamento, ma parlano di atteggiamenti e
di disposizioni di fondo dell'esistenza e
quindi non coincidono esattamente con i
comandamenti. D'altra parte, non c'è
separazione o estraneità tra le
beatitudini e i comandamenti: ambedue si
riferiscono al bene, alla vita eterna. Il
Discorso della Montagna inizia con
l'annuncio delle beatitudini, ma contiene
anche il riferimento ai comandamenti (cf
Mt 5,20-48). Nello stesso tempo, tale
Discorso mostra l'apertura e l'orientamento
dei comandamenti alla prospettiva della
perfezione che è propria delle beatitudini.
Queste sono, anzitutto, promesse, da
cui derivano in forma indiretta anche
indicazioni normative per la vita
morale. Nella loro profondità originale sono
una specie di autoritratto di Cristo
e, proprio per questo, sono inviti alla
sua sequela e alla comunione di vita con Lui.26
17. Non sappiamo quanto il giovane del
Vangelo abbia compreso il profondo ed
esigente contenuto della prima risposta data
da Gesù: «Se vuoi entrare nella vita,
osserva i comandamenti»; è certo, però, che
l'impegno manifestato dal giovane nel
rispetto di tutte le esigenze morali dei
comandamenti costituisce l'indispensabile
terreno sul quale può germogliare e maturare
il desiderio della perfezione, cioè della
realizzazione del loro significato compiuto
nella sequela di Cristo. Il colloquio di
Gesù con il giovane ci aiuta a cogliere
le condizioni per la crescita morale
dell'uomo chiamato alla perfezione: il
giovane, che ha osservato tutti i
comandamenti, si dimostra incapace con le
sole sue forze di fare il passo successivo.
Per farlo occorrono una libertà umana
matura: «Se vuoi», e il dono divino della
grazia: «Vieni e seguimi».
La perfezione esige quella maturità nel
dono di sé, a cui è chiamata la libertà
dell'uomo. Gesù indica al giovane i
comandamenti come la prima condizione
irrinunciabile per avere la vita eterna;
l'abbandono di tutto ciò che il giovane
possiede e la sequela del Signore assumono
invece il carattere di una proposta: «Se
vuoi...». La parola di Gesù rivela la
particolare dinamica della crescita della
libertà verso la sua maturità e, nello
stesso tempo, attesta il fondamentale
rapporto della libertà con la legge divina.
La libertà dell'uomo e la legge di Dio
non si oppongono, ma, al contrario, si
richiamano a vicenda. Il discepolo di Cristo
sa che la sua è una vocazione alla libertà.
«Voi infatti, fratelli, siete stati chiamati
a libertà» (Gal 5,13), proclama con
gioia e fierezza l'apostolo Paolo. Subito
però precisa: «Purché questa libertà non
divenga pretesto per vivere secondo la
carne, ma mediante la carità siate a
servizio gli uni degli altri» (ibid.).
La fermezza con la quale l'Apostolo si
oppone a chi affida la propria
giustificazione alla Legge, non ha nulla da
spartire con la «liberazione» dell'uomo dai
precetti, i quali al contrario sono al
servizio della pratica dell'amore: «Perché
chi ama il suo simile ha adempiuto la legge.
Infatti il precetto: Non commettere
adulterio, non uccidere, non rubare, non
desiderare e qualsiasi altro
comandamento, si riassume in queste parole:
Amerai il prossimo tuo come te stesso»
(Rm 13,8-9). Lo stesso sant'Agostino,
dopo aver parlato dell'osservanza dei
comandamenti come della prima imperfetta
libertà, così prosegue: «Perché, domanderà
qualcuno, non ancora perfetta? Perché "sento
nelle mie membra un'altra legge in conflitto
con la legge della mia ragione"... Libertà
parziale, parziale schiavitù: non ancora
completa, non ancora pura, non ancora piena
è la libertà, perché ancora non siamo
nell'eternità. In parte conserviamo la
debolezza, e in parte abbiamo raggiunto la
libertà. Tutti i nostri peccati nel
battesimo sono stati distrutti, ma è forse
scomparsa la debolezza, dopo che è stata
distrutta l'iniquità? Se essa fosse
scomparsa, si vivrebbe in terra senza
peccato. Chi oserà affermare questo se non
chi è superbo, se non chi è indegno della
misericordia del liberatore?... Ora siccome
è rimasta in noi qualche debolezza, oso dire
che nella misura in cui serviamo Dio siamo
liberi, mentre nella misura in cui seguiamo
la legge del peccato siamo schiavi».27
18. Chi vive «secondo la carne» sente la
legge di Dio come un peso, anzi come una
negazione o comunque una restrizione della
propria libertà. Chi, invece, è animato
dall'amore e «cammi- na secondo lo Spirito»
(Gal 5,16) e desidera servire gli
altri trova nella legge di Dio la via
fondamentale e necessaria per praticare
l'amore liberamente scelto e vissuto. Anzi,
egli avverte l'urgenza interiore — una vera
e propria «necessità», e non già una
costrizione — di non fermarsi alle esigenze
minime della legge, ma di viverle nella loro
«pienezza». È un cammino ancora incerto e
fragile fin che siamo sulla terra, ma reso
possibile dalla grazia che ci dona di
possedere la piena libertà dei figli di Dio
(cf Rm 8, 21) e quindi di rispondere
nella vita morale alla sublime vocazione di
essere «figli nel Figlio».
Questa vocazione all'amore perfetto non è
riservata solo ad una cerchia di persone.
L'invito «va', vendi quello che
possiedi, dàllo ai poveri» con la promessa
«avrai un tesoro nel cielo»riguarda
tutti, perché è una radicalizzazione del
comandamento dell'amore del prossimo, come
il successivo invito «vieni e seguimi» è la
nuova forma concreta del comandamento
dell'amore di Dio. I comandamenti e l'invito
di Gesù al giovane ricco sono al servizio di
un'unica e indivisibile carità, che
spontaneamente tende alla perfezione, la cui
misura è Dio solo: «Siate voi dunque
perfetti, come è perfetto il Padre vostro
celeste» (Mt 5,48). Nel Vangelo di
Luca Gesù precisa ulteriormente il senso di
questa perfezione: «Siate misericordiosi,
come è misericordioso il Padre vostro» (Lc
6,36).
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«Vieni e seguimi» (Mt
19,21)
19. La via e, nello stesso tempo, il
contenuto di questa perfezione consiste
nella sequela Christi, nel seguire
Gesù, dopo aver rinunciato ai propri beni e
a se stessi. Proprio questa è la conclusione
del colloquio di Gesù con il giovane: «Poi
vieni e seguimi» (Mt 19,21). È un
invito la cui meravigliosa profondità sarà
pienamente percepita dai discepoli dopo la
risurrezione di Cristo, quando lo Spirito
Santo li guiderà alla verità tutta intera
(cf Gv 16,13).
È Gesù stesso che prende l'iniziativa e
chiama a seguirlo. L'appello è rivolto
innanzi tutto a coloro ai quali egli affida
una particolare missione, a cominciare dai
Dodici; ma appare anche chiaro che essere
discepoli di Cristo è la condizione di ogni
credente (cf At 6,1). Per questo,
seguire Cristo è il fondamento essenziale e
originale della morale cristiana: come
il popolo d'Israele seguiva Dio che lo
conduceva nel deserto verso la Terra
promessa (cf Es 13,21), così il
discepolo deve seguire Gesù, verso il quale
il Padre stesso lo attira (cf Gv
6,44).
Non si tratta qui soltanto di mettersi in
ascolto di un insegnamento e di accogliere
nell'obbedienza un comandamento. Si tratta,
più radicalmente, di aderire alla persona
stessa di Gesù, di condividere la sua
vita e il suo destino, di partecipare alla
sua obbedienza libera e amorosa alla volontà
del Padre. Seguendo, mediante la risposta
della fede, colui che è la Sapienza
incarnata, il discepolo di Gesù diventa
veramente discepolo di Dio (cf Gv
6,45). Gesù, infatti, è la luce del
mondo, la luce della vita (cf Gv
8,12); è il pastore che guida e nutre le
pecore (cf Gv 10,11-16), è la via, la
verità e la vita (cf Gv 14,6), è
colui che conduce al Padre, al punto che
vedere lui, il Figlio, è vedere il Padre (cf
Gv 14,6-10). Pertanto imitare il
Figlio, «l'immagine del Dio invisibile» (Col
1,15), significa imitare il Padre.
20. Gesù chiede di seguirlo e di imitarlo
sulla strada dell'amore, di un amore che si
dona totalmente ai fratelli per amore di
Dio: «Questo è il mio comandamento: che
vi amiate gli uni gli altri, come io
vi ho amati» (Gv 15,12). Questo
«come» esige l'imitazione di Gesù,
del suo amore di cui la lavanda dei piedi è
segno: «Se dunque io, il Signore e il
Maestro, ho lavato i vostri piedi, anche voi
dovete lavarvi i piedi gli uni gli altri. Vi
ho dato infatti l'esempio, perché come
ho fatto io, facciate anche voi» (Gv
13,14-15). L'agire di Gesù e la sua
parola, le sue azioni e i suoi precetti
costituiscono la regola morale della vita
cristiana. Infatti, queste sue azioni e, in
modo particolare, la passione e la morte in
croce, sono la viva rivelazione del suo
amore per il Padre e per gli uomini. Proprio
questo amore Gesù chiede che sia imitato da
quanti lo seguono. Esso è il comandamento
«nuovo»: «Vi do un comandamento nuovo:
che vi amiate gli uni gli altri; come
io vi ho amato, così amatevi anche voi gli
uni gli altri. Da questo tutti sapranno che
siete miei discepoli, se avrete amore gli
uni per gli altri» (Gv 13,34-35).
Questo «come» indica anche la misura
con la quale Gesù ha amato, e con la quale
devono amarsi tra loro i suoi discepoli.
Dopo aver detto: «Questo è il mio
comandamento: che vi amiate gli uni gli
altri, come io vi ho amati» (Gv
15,12), Gesù prosegue con le parole che
indicano il dono sacrificale della sua vita
sulla croce, quale testimonianza di un amore
«sino alla fine» (Gv 13,1): «Nessuno
ha un amore più grande di questo: dare la
vita per i propri amici» (Gv 15,13).
Chiamando il giovane a seguirlo sulla strada
della perfezione, Gesù gli chiede di essere
perfetto nel comandamento dell'amore, nel
«suo» comandamento: di inserirsi nel
movimento della sua donazione totale, di
imitare e di rivivere l'amore stesso del
Maestro «buono», di colui che ha amato «sino
alla fine». È quanto Gesù chiede ad ogni
uomo che vuole mettersi alla sua sequela:
«Se qualcuno vuol venire dietro a me,
rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi
segua» (Mt 16,24).
21. Seguire Cristo non è una
imitazione esteriore, perché tocca l'uomo
nella sua profonda interiorità. Essere
discepoli di Gesù significa essere resi
conformi a Lui, che si è fatto servo
fino al dono di sé sulla croce (cf Fil
2,5-8). Mediante la fede, Cristo abita
nel cuore del credente (cf Ef 3,17),
e così il discepolo è assimilato al suo
Signore e a Lui configurato. Questo è
frutto della grazia, della presenza
operante dello Spirito Santo in noi.
Inserito in Cristo, il cristiano diventa
membro del suo Corpo, che è la Chiesa (cf
1 Cor 12,13.27). Sotto l'impulso
dello Spirito, il Battesimo configura
radicalmente il fedele a Cristo nel mistero
pasquale della morte e risurrezione, lo
«riveste» di Cristo (cf Gal 3,27):
«Rallegriamoci e ringraziamo — esclama
sant'Agostino rivolgendosi ai battezzati —:
siamo diventati non solo cristiani, ma
Cristo (...). Stupite e gioite: Cristo siamo
diventati!».28
Morto al peccato, il battezzato riceve la
vita nuova (cf Rm 6,3-11): vivente
per Dio in Cristo Gesù, è chiamato a
camminare secondo lo Spirito e a
manifestarne nella vita i frutti (cf Gal
5,16-25). La partecipazione poi
all'Eucaristia, sacramento della Nuova
Alleanza (cf 1 Cor 11,23-29), è
vertice dell'assimilazione a Cristo, fonte
di «vita eterna» (cf Gv 6,51-58),
principio e forza del dono totale di sé, di
cui Gesù secondo la testimonianza tramandata
da Paolo comanda di far memoria nella
celebrazione e nella vita: «Ogni volta che
mangiate di questo pane e bevete di questo
calice, voi annunziate la morte del Signore
finché egli venga» (1 Cor 11,26).
|
«A Dio tutto è possibile» (Mt
19,26)
22. Amara è la conclusione del colloquio di
Gesù con il giovane ricco: «Udito questo, il
giovane se ne andò triste; poiché aveva
molte ricchezze» (Mt 19,22). Non solo
l'uomo ricco, ma anche gli stessi discepoli
sono spaventati dall'appello di Gesù alla
sequela, le cui esigenze superano le
aspirazioni e le forze umane: «A queste
parole i discepoli rimasero costernati e
chiesero: "Chi si potrà dunque salvare?"«(Mt
19,25). Ma il Maestro rimanda alla
potenza di Dio: «Questo è impossibile
agli uomini, ma a Dio tutto è possibile» (Mt
19,26).
Nel medesimo capitolo del Vangelo di Matteo
(19,3-10), Gesù, interpretando la Legge
mosaica sul matrimonio, rifiuta il diritto
al ripudio, richiamando ad un «principio»
più originario e più autorevole rispetto
alla Legge di Mosè: il disegno nativo di Dio
sull'uomo, un disegno al quale l'uomo dopo
il peccato è diventato inadeguato: «Per la
durezza del vostro cuore Mosè vi ha permesso
di ripudiare le vostre mogli, ma da
principio non fu così» (Mt 19,8). Il
richiamo al «principio» sgomenta i
discepoli, che commentano con queste parole:
«Se questa è la condizione dell'uomo
rispetto alla donna, non conviene sposarsi»
(Mt 19,10). E Gesù, riferendosi in
modo specifico al carisma del celibato «per
il Regno dei cieli» (Mt 19,12), ma
enunciando una regola generale, rimanda alla
nuova e sorprendente possibilità aperta
all'uomo dalla grazia di Dio: «Egli rispose
loro: "Non tutti possono capirlo, ma solo
coloro ai quali è stato concesso"«(Mt
19,11).
Imitare e rivivere l'amore di Cristo non è
possibile all'uomo con le sole sue forze.
Egli diventa capace di questo amore
soltanto in virtù di un dono ricevuto.
Come il Signore Gesù riceve l'amore del
Padre suo, così egli a sua volta lo comunica
gratuitamente ai discepoli: «Come il Padre
ha amato me, così anch'io ho amato voi.
Rimanete nel mio amore» (Gv 15,9).
Il dono di Cristo è il suo Spirito, il
cui primo «frutto» (cf Gal 5,22) è la
carità: «L'amore di Dio è stato riversato
nei nostri cuori per mezzo dello Spirito
Santo, che ci è stato dato» (Rm 5,5).
Sant'Agostino si chiede: «È l'amore che ci
fa osservare i comandamenti, oppure è
l'osservanza dei comandamenti che fa nascere
l'amore?». E risponde: «Ma chi può mettere
in dubbio che l'amore precede l'osservanza?
Chi infatti non ama è privo di motivazioni
per osservare i comandamenti».29
23. «La legge dello Spirito che dà vita in
Cristo Gesù ti ha liberato dalla legge del
peccato e della morte» (Rm 8,2). Con
queste parole l'apostolo Paolo ci introduce
a considerare nella prospettiva della storia
della Salvezza che si compie in Cristo il
rapporto tra la Legge (antica) e la
grazia (Legge nuova). Egli riconosce il
ruolo pedagogico della Legge, la quale,
permettendo all'uomo peccatore di misurare
la sua impotenza e togliendogli la
presunzione dell'autosufficienza, lo apre
all'invocazione e all'accoglienza della
«vita nello Spirito». Solo in questa vita
nuova è possibile la pratica dei
comandamenti di Dio. Infatti, è per la fede
in Cristo che noi siamo resi giusti (cf
Rm 3,28): la «giustizia» che la Legge
esige, ma non può dare a nessuno, ogni
credente la trova manifestata e concessa dal
Signore Gesù. Così mirabilmente ancora
sant'Agostino sintetizza la dialettica
paolina di legge e grazia: «La legge,
perciò, è stata data perché si invocasse la
grazia; la grazia è stata data perché si
osservasse la legge».30
L'amore e la vita secondo il Vangelo non
possono essere pensati prima di tutto nella
forma del precetto, perché ciò che essi
domandano va al di là delle forze dell'uomo:
essi sono possibili solo come frutto di un
dono di Dio, che risana e guarisce e
trasforma il cuore dell'uomo per mezzo della
sua grazia: «Perché la legge fu data per
mezzo di Mosè, la grazia e la verità vennero
per mezzo di Gesù Cristo» (Gv 1,17).
Per questo la promessa della vita eterna è
legata al dono della grazia, e il dono dello
Spirito che abbiamo ricevuto è già «caparra
della nostra eredità» (Ef 1,14).
24. Si rivela così il volto autentico e
originale del comandamento dell'amore e
della perfezione alla quale esso è ordinato:
si tratta di una possibilità aperta
all'uomo esclusivamente dalla grazia,
dal dono di Dio, dal suo amore. D'altra
parte, proprio la coscienza di aver ricevuto
il dono, di possedere in Gesù Cristo l'amore
di Dio, genera e sostiene la risposta
responsabile di un amore pieno verso Dio
e tra i fratelli, come con insistenza
ricorda l'apostolo Giovanni nella sua prima
Lettera: «Carissimi, amiamoci gli uni
gli altri, perché l'amore è da Dio: chiunque
ama è generato da Dio e conosce Dio. Chi non
ama non ha conosciuto Dio, perché Dio è
amore... Carissimi, se Dio ci ha amato,
anche noi dobbiamo amarci gli uni gli
altri... Noi amiamo, perché egli ci ha amati
per primo» (1 Gv 4,7-8.11.19).
Questa connessione inscindibile tra la
grazia del Signore e la libertà dell'uomo,
tra il dono e il compito, è stata espressa
in termini semplici e profondi da
sant'Agostino, che così prega: «Da quod
iubes et iube quod vis» (dona ciò che
comandi e comanda ciò che vuoi).31
Il dono non diminuisce, ma rafforza
l'esigenza morale dell'amore: «Questo è
il suo comandamento: che crediamo nel nome
del Figlio suo Gesù Cristo e ci amiamo gli
uni gli altri, secondo il precetto che ci ha
dato» (1 Gv 3,23). Si può «rimanere»
nell'amore solo a condizione di osservare i
comandamenti, come afferma Gesù: «Se
osserverete i miei comandamenti, rimarrete
nel mio amore, come io ho osservato i
comandamenti del Padre mio e rimango nel suo
amore» (Gv 15,10).
Raccogliendo quanto è al cuore del messaggio
morale di Gesù e della predicazione degli
Apostoli, e riproponendo in una sintesi
mirabile la grande tradizione dei Padri
d'Oriente e d'Occidente — in particolare di
sant'Agostino —
32
san Tommaso ha potuto scrivere che la
Legge Nuova è la grazia dello Spirito
Santo donata mediante la fede in Cristo.33
I precetti esterni, di cui pure il Vangelo
parla, dispongono a questa grazia o ne
dispiegano gli effetti nella vita. Infatti,
la Legge Nuova non si contenta di dire ciò
che si deve fare, ma dona anche la forza di
«fare la verità» (cf Gv 3,21). Nello
stesso tempo san Giovanni Crisostomo ha
osservato che la Legge Nuova fu promulgata
proprio quando lo Spirito Santo discese dal
cielo nel giorno di Pentecoste e che gli
Apostoli «non discesero dal monte portando,
come Mosè, delle tavole di pietra nelle loro
mani; ma se ne venivano portando lo Spirito
Santo nei loro cuori..., divenuti mediante
la sua grazia una legge viva, un libro
animato».34
|
«Ecco, io sono con voi tutti i giorni,
sino alla fine del mondo» (Mt
28,20)
25. Il colloquio di Gesù con il giovane
ricco continua, in un certo senso, in
ogni epoca della storia, anche oggi. La
domanda: «Maestro, che cosa devo fare di
buono per ottenere la vita eterna?» sboccia
nel cuore di ogni uomo, ed è sempre e solo
Cristo a offrire la risposta piena e
risolutiva. Il Maestro, che insegna i
comandamenti di Dio, che invita alla sequela
e dà la grazia per una vita nuova, è sempre
presente e operante in mezzo a noi, secondo
la promessa: «Ecco, io sono con voi tutti i
giorni, sino alla fine del mondo» (Mt
28,20). La contemporaneità di Cristo
all'uomo di ogni tempo si realizza nel suo
corpo, che è la Chiesa. Per questo il
Signore promise ai suoi discepoli lo Spirito
Santo, che avrebbe loro «ricordato» e fatto
comprendere i suoi comandamenti (cf Gv
14,26) e sarebbe stato il principio
sorgivo di una vita nuova nel mondo (cf
Gv 3,5-8; Rm 8,1-13).
Le prescrizioni morali, impartite da Dio
nell'Antica Alleanza e giunte alla loro
perfezione in quella Nuova ed Eterna nella
persona stessa del Figlio di Dio fatto uomo,
devono essere fedelmente custodite e
permanentemente attualizzate nelle
differenti culture lungo il corso della
storia. Il compito della loro
interpretazione è stato affidato da Gesù
agli Apostoli e ai loro successori, con
l'assistenza speciale dello Spirito di
verità: «Chi ascolta voi ascolta me» (Lc
10,16). Con la luce e la forza di questo
Spirito gli Apostoli hanno adempiuto la
missione di predicare il Vangelo e di
indicare la «via» del Signore (cf At
18,25), insegnando anzitutto la sequela e
l'imitazione di Cristo: «Per me il vivere è
Cristo» (Fil 1,21).
26. Nella catechesi morale degli
Apostoli, accanto ad esortazioni e ad
indicazioni legate al contesto storico e
culturale, c'è un insegnamento etico con
precise norme di comportamento. È quanto
emerge nelle loro Lettere, che
contengono l'interpretazione, guidata dallo
Spirito Santo, dei precetti del Signore da
vivere nelle diverse circostanze culturali (cf
Rm 12-15; 1 Cor 11-14; Gal
5-6; Ef 4-6; Col 3-4; 1
Pt e Gc). Incaricati di predicare
il Vangelo, gli Apostoli fin dalle origini
della Chiesa, in virtù della loro
responsabilità pastorale, hanno vegliato
sulla rettitudine della condotta dei
cristiani,
35
allo stesso modo in cui hanno vegliato sulla
purezza della fede e sulla trasmissione dei
doni divini mediante i Sacramenti.36
I primi cristiani, provenienti sia dal
popolo giudaico sia dalle nazioni,
differivano dai pagani non solo per la loro
fede e per la loro liturgia, ma anche per la
testimonianza della loro condotta morale,
ispirata alla Legge Nuova.37
La Chiesa, infatti, è insieme comunione di
fede e di vita; la sua norma è «la fede che
opera per mezzo della carità» (Gal
5,6).
Nessuna lacerazione deve attentare all'armonia
tra la fede e la vita: l'unità della Chiesa
è ferita non solo dai cristiani che
rifiutano o stravolgono le verità della
fede, ma anche da quelli che misconoscono
gli obblighi morali a cui li chiama il
Vangelo (cf 1 Cor 5,9-13). Con
decisione gli Apostoli hanno rifiutato ogni
dissociazione tra l'impegno del cuore e i
gesti che lo esprimono e verificano (cf 1
Gv 2,3-6). E fin dai tempi apostolici i
Pastori della Chiesa hanno denunciato con
chiarezza i modi di agire di coloro che
erano fautori di divisione con i loro
insegnamenti o con i loro comportamenti.38
27. Promuovere e custodire, nell'unità della
Chiesa, la fede e la vita morale è il
compito affidato da Gesù agli Apostoli (cf
Mt 28,19-20), che prosegue nel ministero
dei loro successori. È quanto si ritrova
nella viva Tradizione, mediante la
quale — come insegna il Concilio Vaticano II
— «la Chiesa, nella sua dottrina, nella sua
vita e nel suo culto, perpetua e trasmette a
tutte le generazioni tutto ciò che essa è,
tutto ciò che essa crede. Questa Tradizione,
che trae origine dagli Apostoli, progredisce
nella Chiesa sotto l'assistenza dello
Spirito Santo».39
Nello Spirito la Chiesa accoglie e trasmette
la Scrittura come testimonianza delle
«grandi cose» che Dio opera nella storia (cf
Lc 1,49), confessa per bocca dei
Padri e dei Dottori la verità del Verbo
fatto carne, ne mette in pratica i precetti
e la carità nella vita dei Santi e delle
Sante e nel sacrificio dei Martiri, ne
celebra la speranza nella Liturgia: mediante
la stessa Tradizione i cristiani ricevono
«la viva voce del Vangelo»,
40
come espressione fedele della sapienza e
della volontà divina.
All'interno della Tradizione si sviluppa,
con l'assistenza dello Spirito Santo,
l'interpretazione autentica della legge
del Signore. Lo stesso Spirito, che è
all'origine della Rivelazione dei
comandamenti e degli insegnamenti di Gesù,
garantisce che vengano santamente custoditi,
fedelmente esposti e correttamente applicati
nel variare dei tempi e delle circostanze.
Questa «attualizzazione» dei comandamenti è
segno e frutto di una più profonda
penetrazione della Rivelazione e di una
comprensione alla luce della fede delle
nuove situazioni storiche e culturali. Essa,
tuttavia, non può che confermare la
permanente validità della Rivelazione e
inserirsi nel solco dell'interpretazione che
ne dà la grande Tradizione di insegnamento e
di vita della Chiesa, di cui sono testimoni
la dottrina dei Padri, la vita dei Santi, la
liturgia della Chiesa e l'insegnamento del
Magistero.
In particolare, poi, come afferma il
Concilio, «l'ufficio d'interpretare
autenticamente la parola di Dio scritta o
trasmessa è stato affidato al solo Magistero
vivo della Chiesa, la cui autorità è
esercitata nel nome di Gesù Cristo».41
In tal modo la Chiesa, nella sua vita e nel
suo insegnamento, si presenta come «colonna
e sostegno della verità» (1 Tm 3,15),
anche della verità circa l'agire morale.
Infatti, «è compito della Chiesa annunziare
sempre e dovunque i principi morali anche
circa l'ordine sociale, e così pure
pronunciare il giudizio su qualsiasi realtà
umana, in quanto lo esigano i diritti
fondamentali della persona umana o la
salvezza delle anime».42
Proprio sulle domande che caratterizzano
oggi la discussione morale e intorno alle
quali si sono sviluppate nuove tendenze e
teorie, il Magistero, in fedeltà a Gesù
Cristo e in continuità con la tradizione
della Chiesa, sente più urgente il dovere di
offrire il proprio discernimento e
insegnamento, per aiutare l'uomo nel suo
cammino verso la verità e la libertà.
|
II - «Non conformatevi alla mentalità di
questo mondo» (Rm 12,2) -
La chiesa e il discernimento di alcune
tendenze della teologia morale odierna
Insegnare ciò che è secondo la sana
dottrina (cf Tt 2,1)
28. La meditazione del dialogo tra Gesù e il
giovane ricco ci ha permesso di raccogliere
i contenuti essenziali della Rivelazione
dell'Antico e del Nuovo Testamento circa
l'agire morale. Essi sono: la
subordinazione dell'uomo e del suo agire a
Dio, Colui che «solo è buono»; il
rapporto tra il bene morale degli atti
umani e la vita eterna; la sequela
di Cristo, che apre all'uomo la
prospettiva dell'amore perfetto; ed infine
il dono dello Spirito Santo, fonte e
risorsa della vita morale della «creatura
nuova» (cf 2 Cor 5,17).
Nella sua riflessione morale la Chiesa
ha sempre avuto presenti le parole che
Gesù ha rivolto al giovane ricco. La Sacra
Scrittura, infatti, rimane la sorgente viva
e feconda della dottrina morale della
Chiesa, come ha ricordato il Concilio
Vaticano II: «Il Vangelo 1... fonte di ogni
verità salutare e di ogni regola morale».43
Essa ha custodito fedelmente ciò che la
parola di Dio insegna, non solo circa le
verità da credere, ma anche circa l'agire
morale, cioè l'agire che piace a Dio (cf
1 Ts 4,1), realizzando uno sviluppo
dottrinale analogo a quello che si è
avuto nell'ambito delle verità della fede.
Assistita dallo Spirito Santo che la guida
alla verità tutta intera (cf Gv
16,13), la Chiesa non ha cessato, e non può
mai cessare, di scrutare il «mistero del
Verbo incarnato», nel quale «trova vera luce
il mistero dell'uomo».44
29. La riflessione morale della Chiesa,
operata sempre nella luce di Cristo, il
«Maestro buono», si è sviluppata anche nella
forma specifica della scienza teologica,
detta «teologia morale», una scienza
che accoglie e interroga la rivelazione
divina e insieme risponde alle esigenze
della ragione umana. La teologia morale è
una riflessione che riguarda la «moralità»,
ossia il bene e il male degli atti umani e
della persona che li compie, e in tal senso
è aperta a tutti gli uomini; ma è anche
«teologia», in quanto riconosce il principio
e il fine dell'agire morale in Colui che
«solo è buono» e che, donandosi all'uomo in
Cristo, gli offre la beatitudine della vita
divina.
Il Concilio Vaticano II ha invitato gli
studiosi a porre «speciale cura nel
perfezionare la teologia morale in modo
che la sua esposizione scientifica,
maggiormente fondata sulla Sacra Scrittura,
illustri l'altezza della vocazione dei
fedeli in Cristo e il loro obbligo di
apportare frutto nella carità per la vita
del mondo».45
Lo stesso Concilio ha invitato i teologi,
«nel rispetto dei metodi e delle esigenze
proprie della scienza teologica, a ricercare
modi sempre più adatti di comunicare
la dottrina agli uomini della loro epoca,
perché altro è il deposito o le verità della
fede, altro è il modo con cui vengono
enunciate, rimanendo pur sempre lo stesso il
significato e il senso profondo».46
Di qui l'ulteriore invito, esteso a tutti i
fedeli, ma rivolto in particolare ai
teologi: «I fedeli dunque vivano in
strettissima unione con gli uomini del loro
tempo, e si sforzino di penetrare
perfettamente il loro modo di pensare e di
sentire, di cui la cultura è espressione».47
Lo sforzo di molti teologi, sostenuti
dall'incoraggiamento del Concilio, ha già
dato i suoi frutti con interessanti e utili
riflessioni intorno alle verità della fede
da credere e da applicare nella vita,
presentate in forma più corrispondente alla
sensibilità e agli interrogativi degli
uomini del nostro tempo. La Chiesa e, in
particolare, i Vescovi, ai quali Gesù Cristo
ha affidato innanzitutto il servizio
dell'insegnamento, accolgono con gratitudine
tale sforzo ed incoraggiano i teologi a un
ulteriore lavoro, animato da un profondo e
autentico timore del Signore, che è il
principio della sapienza (cf Prv
1,7).
Nello stesso tempo, nell'ambito delle
discussioni teologiche postconciliari si
sono sviluppate però alcune
interpretazioni della morale cristiana che
non sono compatibili con la «sana dottrina»
(2 Tm 4,3). Certamente il
Magistero della Chiesa non intende imporre
ai fedeli nessun particolare sistema
teologico né tanto meno filosofico, ma, per
«custodire santamente ed esporre fedelmente»
la Parola di Dio,
48
esso ha il dovere di dichiarare
l'incompatibilità di certi orientamenti del
pensiero teologico o di talune affermazioni
filosofiche con la verità rivelata.49
30. Rivolgendomi con questa Enciclica a voi,
Confratelli nell'Episcopato, intendo
enunciare i principi necessari per il
discernimento di ciò che è contrario alla
«sana dottrina», richiamando quegli
elementi dell'insegnamento morale della
Chiesa che sembrano oggi particolarmente
esposti all'errore, all'ambiguità o alla
dimenticanza. Sono, peraltro, gli elementi
dai quali dipende «la risposta agli oscuri
enigmi della condizione umana che ieri come
oggi turbano profondamente il cuore
dell'uomo: la natura dell'uomo, il senso e
il fine della nostra vita, il bene e il
peccato, l'origine e il fine del dolore, la
via per raggiungere la vera felicità, la
morte, il giudizio e la sanzione dopo la
morte, infine l'ultimo e ineffabile mistero
che circonda la nostra esistenza, dal quale
noi traiamo origine e verso il quale
tendiamo».50
Questi e altri interrogativi, come: cosa è
la libertà e qual è la sua relazione con la
verità contenuta nella legge di Dio? qual è
il ruolo della coscienza nella formazione
del profilo morale dell'uomo? come
discernere, in conformità con la verità sul
bene, i diritti e i doveri concreti della
persona umana?, si possono riassumere nella
fondamentale domanda che il giovane
del Vangelo pose a Gesù: «Maestro, che cosa
devo fare di buono per ottenere la vita
eterna?». Inviata da Gesù a predicare il
Vangelo e ad «ammae- strare tutte le
nazioni..., insegnando loro ad osservare
tutto ciò» che egli ha comandato (cf Mt
28,19-20),la Chiesa ripropone, ancora
oggi, la risposta del Maestro: questa
possiede una luce e una forza capaci di
risolvere anche le questioni più discusse e
complesse. Questa stessa luce e forza
sollecitano la Chiesa a sviluppare
costantemente la riflessione non solo
dogmatica, ma anche morale in un ambito
interdisciplinare, così com'è necessario
specialmente per i nuovi problemi.51
È sempre in questa medesima luce e forza che
il Magistero della Chiesa compie la sua
opera di discernimento, accogliendo e
rivivendo il monito che l'apostolo Paolo
rivolgeva a Timoteo: «Ti scongiuro davanti a
Dio e a Cristo Gesù che verrà a giudicare i
vivi e i morti, per la sua manifestazione e
il suo regno: annunzia la parola, insisti in
ogni occasione opportuna e non opportuna,
ammonisci, rimprovera, esorta con ogni
magnanimità e dottrina. Verrà giorno,
infatti, in cui non si sopporterà più la
sana dottrina, ma, per il prurito di udire
qualcosa, gli uomini si circonderanno di
maestri secondo le proprie voglie,
rifiutando di dare ascolto alla verità per
volgersi alle favole. Tu però vigila
attentamente, sappi sopportare le
sofferenze, compi la tua opera di
annunziatore del Vangelo, adempi il tuo
ministero» (2 Tm 4,1-5; cf Tt
1,10.13-14).
|
«Conoscerete la verità e la verità vi
farà liberi» (Gv 8,32)
31. I problemi umani più dibattuti e
diversamente risolti nella riflessione
morale contemporanea si ricollegano, sia
pure in vari modi, ad un problema cruciale:
quello della libertà dell'uomo.
Non c' è dubbio che il nostro tempo ha
acquisito una percezione particolarmente
viva della libertà. «In questa nostra età
gli uomini diventano sempre più consapevoli
della dignità della persona umana», come
costatava già la dichiarazione conciliareDignitatis
humanae sulla libertà religiosa.52
Da qui l'esigenza che «gli uomini nell'agire
seguano la loro iniziativa e godano di una
libertà responsabile, non mossi da
coercizione bensì guidati dalla coscienza
del dovere».53
In particolare il diritto alla libertà
religiosa e al rispetto della coscienza nel
suo cammino verso la verità è sentito sempre
più come fondamento dei diritti della
persona, considerati nel loro insieme.54
Così, il senso più acuto della dignità della
persona umana e della sua unicità, come
anche del rispetto dovuto al cammino della
coscienza, costituisce certamente
un'acquisizione positiva della cultura
moderna. Questa percezione, in se stessa
autentica, ha trovato molteplici
espressioni, più o meno adeguate, di cui
alcune però si discostano dalla verità
sull'uomo come creatura e immagine di Dio ed
esigono pertanto di essere corrette o
purificate alla luce della fede.55
32. In alcune correnti del pensiero moderno
si è giunti adesaltare la libertà al
punto da farne un assoluto, che sarebbe la
sorgente dei valori. In questa direzione
si muovono le dottrine che perdono il senso
della trascendenza o quelle che sono
esplicitamente atee. Si sono attribuite alla
coscienza individuale le prerogative di
un'istanza suprema del giudizio morale, che
decide categoricamente e infallibilmente del
bene e del male. All'affermazione del dovere
di seguire la propria coscienza si è
indebitamente aggiunta l'affermazione che il
giudizio morale è vero per il fatto stesso
che proviene dalla coscienza. Ma, in tal
modo, l'imprescindibile esigenza di verità è
scomparsa, in favore di un criterio di
sincerità, di autenticità, di «accordo con
se stessi», tanto che si è giunti ad una
concezione radicalmente soggettivista del
giudizio morale.
Come si può immediatamente comprendere, non
è estranea a questa evoluzione la crisi
intorno alla verità. Persa l'idea di una
verità universale sul bene, conoscibile
dalla ragione umana, è inevitabilmente
cambiata anche la concezione della
coscienza: questa non è più considerata
nella sua realtà originaria, ossia un atto
dell'intelligenza della persona, cui spetta
di applicare la conoscenza universale del
bene in una determinata situazione e di
esprimere così un giudizio sulla condotta
giusta da scegliere qui e ora; ci si è
orientati a concedere alla coscienza
dell'individuo il privilegio di fissare, in
modo autonomo, i criteri del bene e del male
e agire di conseguenza. Tale visione fa
tutt'uno con un'etica individualista, per la
quale ciascuno si trova confrontato con la
sua verità, differente dalla verità
degli altri. Spinto alle estreme
conseguenze, l'individualismo sfocia nella
negazione dell'idea stessa di natura umana.
Queste differenti concezioni sono
all'origine degli orientamenti di pensiero
che sostengono l'antinomia tra legge morale
e coscienza, tra natura e libertà.
33. Parallelamente all'esaltazione
della libertà, e paradossalmente in
contrasto con essa, la cultura moderna
mette radicalmente in questione questa
medesima libertà. Un insieme di
discipline, raggruppate sotto il nome di
«scienze umane», hanno giustamente attirato
l'attenzione sui condizionamenti di ordine
psicologico e sociale, che pesano
sull'esercizio della libertà umana. La
conoscenza di tali condizionamenti e
l'attenzione che viene loro prestata sono
acquisizioni importanti, che hanno trovato
applicazione in diversi ambiti
dell'esistenza, come per esempio nella
pedagogia o nell'amministrazione della
giustizia. Ma alcuni, superando le
conclusioni che si possono legittimamente
trarre da queste osservazioni, sono arrivati
al punto di mettere in dubbio o di negare la
realtà stessa della libertà umana.
Si devono anche ricordare alcune
interpretazioni abusive dell'indagine
scientifica a livello antropologico. Traendo
argomento dalla grande varietà dei costumi,
delle abitudini e delle istituzioni presenti
nell'umanità, si conclude, se non sempre con
la negazione di valori umani universali,
almeno con una concezione relativistica
della morale.
34. «Maestro, che cosa devo fare di buono
per ottenere la vita eterna?». La domanda
morale, alla quale Cristo risponde,
non può prescindere dalla questione della
libertà, anzi la colloca al suo centro,
perché non si dà morale senza libertà:
«L'uomo può volgersi al bene soltanto nella
libertà».56
Ma quale libertà? Il Concilio, di
fronte ai nostri contemporanei che «tanto
tengono» alla libertà e che la «cercano
ardentemente» ma che «spesso la coltivano in
malo modo, quasi sia lecito tutto purché
piaccia, compreso il male», presenta la
«vera» libertà: «La vera libertà è
nell'uomo segno altissimo dell'immagine
divina. Dio volle, infatti, lasciare
l'uomo "in mano al suo consiglio" (cf Sir
15,14), così che esso cerchi
spontaneamente il suo Creatore, e giunga
liberamente, con la adesione a lui, alla
piena e beata perfezione».57
Se esiste il diritto di essere rispettati
nel proprio cammino di ricerca della verità,
esiste ancor prima l'obbligo morale grave
per ciascuno di cercare la verità e di
aderirvi una volta conosciuta.58
In tal senso il Card. J. H. Newman, eminente
assertore dei diritti della coscienza,
affermava con decisione: «La coscienza ha
dei diritti perché ha dei doveri».59
Alcune tendenze della teologia morale
odierna, sotto l'influsso delle correnti
soggettiviste ed individualiste ora
ricordate, interpretano in modo nuovo il
rapporto della libertà con la legge morale,
con la natura umana e con la coscienza, e
propongono criteri innovativi di valutazione
morale degli atti: sono tendenze che, pur
nella loro varietà, si ritrovano nel fatto
di indebolire o addirittura di negare la
dipendenza della libertà dalla verità.
Se vogliamo operare un discernimento critico
di queste tendenze, capace di riconoscere
quanto in esse vi è di legittimo, utile e
prezioso e di indicarne, al tempo stesso, le
ambiguità, i pericoli e gli errori, dobbiamo
esaminarle alla luce della fondamentale
dipendenza della libertà dalla verità,
dipendenza che è stata espressa nel modo più
limpido e autorevole dalle parole di Cristo:
«Conoscerete la verità, e la verità vi farà
liberi» (Gv 8,32).
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I. La libertà e la legge
«Dell'albero della conoscenza del bene
e del male non devi mangiare» (Gn
2,17)
35. Leggiamo nel libro della Genesi:
«Il Signore Dio diede questo comando
all'uomo: "Tu potrai mangiare di tutti gli
alberi del giardino, ma dell'albero della
conoscenza del bene e del male non devi
mangiare, perché, quando tu ne mangiassi,
certamente moriresti"«(Gn 2,16-17).
Con questa immagine, la Rivelazione insegna
che il potere di decidere del bene e del
male non appartiene all'uomo, ma a Dio solo.
L'uomo è certamente libero, dal momento
che può comprendere ed accogliere i comandi
di Dio. Ed è in possesso d'una libertà
quanto mai ampia, perché può mangiare «di
tutti gli alberi del giardino». Ma questa
libertà non è illimitata: deve arrestarsi di
fronte all'«albero della conoscenza del bene
e del male», essendo chiamata ad accettare
la legge morale che Dio dà all'uomo. In
realtà, proprio in questa accettazione la
libertà dell'uomo trova la sua vera e piena
realizzazione. Dio, che solo è buono,
conosce perfettamente ciò che è buono per
l'uomo, e in forza del suo stesso amore
glielo propone nei comandamenti.
La legge di Dio, dunque, non attenua né
tanto meno elimina la libertà dell'uomo, al
contrario la garantisce e la promuove. Ben
diversamente però, alcune tendenze culturali
odierne sono all'origine di non pochi
orientamenti etici che pongono al centro del
loro pensiero un presunto conflitto tra
la libertà e la legge. Tali sono le
dottrine che attribuiscono ai singoli
individui o ai gruppi sociali la facoltà di
decidere del bene e del male: la
libertà umana potrebbe «creare i valori» e
godrebbe di un primato sulla verità, al
punto che la verità stessa sarebbe
considerata una creazione della libertà.
Questa, dunque, rivendicherebbe una tale
autonomia morale che praticamente
significherebbe la sua sovranità
assoluta.
36. L'istanza moderna di autonomia non ha
mancato di esercitare un suo influsso
anche nell'ambito della teologia morale
cattolica. Se questa, certamente, non ha
mai inteso contrapporre la libertà umana
alla legge divina, né mettere in questione
l'esistenza di un fondamento religioso
ultimo delle norme morali, è stata però
provocata ad un profondo ripensamento del
ruolo della ragione e della fede
nell'individuazione delle norme morali che
si riferiscono a specifici comportamenti «intramondani»,
ossia verso se stessi, gli altri e il mondo
delle cose.
Si deve riconoscere che all'origine di
questo sforzo di ripensamento si ritrovano
alcune istanze positive, che peraltro
appartengono, in buona parte, alla miglior
tradizione del pensiero cattolico.
Sollecitati dal Concilio Vaticano II,
60
si è voluto favorire il dialogo con la
cultura moderna, mettendo in luce il
carattere razionale — quindi universalmente
comprensibile e comunicabile — delle norme
morali appartenenti all'ambito della legge
morale naturale.61
Si è inteso, inoltre, ribadire il carattere
interiore delle esigenze etiche che da essa
derivano e che non si impongono alla volontà
come un obbligo, se non in forza del
riconoscimento previo della ragione umana e,
in concreto, della coscienza personale.
Dimenticando però la dipendenza della
ragione umana dalla Sapienza divina e la
necessità, nel presente stato di natura
decaduta, nonché l'effettiva realtà della
divina rivelazione per la conoscenza di
verità morali anche di ordine naturale,
62
alcuni sono giunti a teorizzare una
completa sovranità della ragione
nell'ambito delle norme morali relative al
retto ordinamento della vita in questo
mondo: tali norme costituirebbero l'ambito
di una morale solamente «umana», sarebbero
cioè l'espressione di una legge che l'uomo
autonomamente dà a se stesso e che ha la sua
sorgente esclusivamente nella ragione umana.
Di questa legge Dio non potrebbe essere
considerato in nessun modo Autore, se non
nel senso che la ragione umana esercita la
sua autonomia legislativa in forza di un
originario e totale mandato di Dio all'uomo.
Ora queste tendenze di pensiero hanno
condotto a negare, contro la Sacra Scrittura
e la dottrina costante della Chiesa, che la
legge morale naturale abbia Dio come autore
e che l'uomo, mediante la sua ragione,
partecipi alla legge eterna, che non è lui a
stabilire.
37. Volendo però mantenere la vita morale in
un contesto cristiano, è stata introdotta da
alcuni teologi moralisti una netta
distinzione, contraria alla dottrina
cattolica,
63
tra un ordine etico, che avrebbe
origine umana e valore solo mondano,
e un ordine della salvezza, per il
quale avrebbero rilevanza solo alcune
intenzioni ed atteggiamenti interiori circa
Dio e il prossimo. Si è giunti
conseguentemente al punto di negare
l'esistenza, nella rivelazione divina, di un
contenuto morale specifico e determinato,
universalmente valido e permanente: la
Parola di Dio si limiterebbe a proporre
un'esortazione, una generica parenesi, che
poi solo la ragione autonoma avrebbe il
compito di riempire di determinazioni
normative veramente «oggettive», ossia
adeguate alla situazione storica concreta.
Naturalmente un'autonomia così concepita
comporta anche la negazione di una
competenza dottrinale specifica da parte
della Chiesa e del suo Magistero circa norme
morali determinate riguardanti il cosiddetto
«bene umano»: esse non apparterrebbero al
contenuto proprio della Rivelazione e non
sarebbero in se stesse rilevanti in ordine
alla salvezza.
Non vi è chi non veda che una simile
interpretazione dell'autonomia della ragione
umana comporta tesi incompatibili con la
dottrina cattolica.
In un tale contesto è assolutamente
necessario chiarire, alla luce della Parola
di Dio e della viva tradizione della Chiesa,
le fondamentali nozioni della libertà umana
e della legge morale, nonché i loro profondi
e interiori rapporti. Solo così sarà
possibile corrispondere alle giuste istanze
della razionalità umana, integrando gli
elementi validi di alcune correnti
dell'odierna teologia morale, senza
pregiudicare il patrimonio morale della
Chiesa con tesi derivanti da un erroneo
concetto di autonomia.
|
Dio volle lasciare l'uomo «in mano al
suo consiglio» (Sir 15,14)
38. Riprendendo le parole del Siracide, il
Concilio Vaticano II così spiega la «vera
libertà» che nell'uomo è «segno altissimo
dell'immagine divina»: «Dio volle lasciare
l'uomo "in mano al suo consiglio", così che
egli cerchi spontaneamente il suo Creatore,
e giunga liberamente, con l'adesione a Lui,
alla piena e beata perfezione».64
Queste parole indicano la meravigliosa
profondità della partecipazione alla
signoria divina, cui l'uomo è stato
chiamato: indicano che il dominio dell'uomo
si estende, in un certo senso, sull'uomo
stesso. È questo un aspetto costantemente
accentuato nella riflessione teologica sulla
libertà umana, interpretata nei termini di
una forma di regalità. Scrive, ad esempio,
san Gregorio Nisseno: «L'animo manifesta la
sua regalità ed eccellenza... nel suo essere
senza padrone e libero, governandosi
autocraticamente con il suo volere. Di chi
altro questo è proprio, se non del re?...
Così la natura umana, creata per essere
padrona delle altre creature, per la
somiglianza con il sovrano dell'universo fu
stabilita come una viva immagine, partecipe
della dignità e del nome dell'Archetipo».65
Già il
governare il mondo costituisce per
l'uomo un compito grande e colmo di
responsabilità, che impegna la sua libertà
in obbedienza al Creatore: «Riempite la
terra; soggiogatela» (Gn 1,28). Sotto
questo aspetto al singolo uomo, come pure
alla comunità umana, spetta una giusta
autonomia, alla quale la Costituzione
conciliare
Gaudium et spes
dedica una speciale attenzione. È
l'autonomia delle realtà terrene, che
significa che «le cose create e le stesse
società hanno leggi e valori propri, che
l'uomo gradatamente deve scoprire, usare e
ordinare».66
39. Non solo il mondo però, ma anche
l'uomo stesso è stato affidato alla sua
propria cura e responsabilità. Dio l'ha
lasciato «in mano al suo consiglio» (Sir
15,14), perché cercasse il suo Creatore
e giungesse liberamente alla perfezione.
Giungere significa edificare
personalmente in sé tale perfezione.
Infatti, come governando il mondo l'uomo lo
forma secondo la sua intelligenza e volontà,
così compiendo atti moralmente buoni l'uomo
conferma, sviluppa e consolida in se stesso
la somiglianza di Dio.
Il Concilio, tuttavia, chiede vigilanza di
fronte a un falso concetto dell'autonomia
delle realtà terrene, quello di ritenere che
«le cose create non dipendono da Dio, e che
l'uomo può adoperarle senza riferirle al
Creatore».67
Nei riguardi dell'uomo poi simile concetto
di autonomia produce effetti particolarmente
dannosi, assumendo in ultima istanza un
carattere ateo: «La creatura, infatti, senza
il Creatore svanisce... Anzi, l'oblio di Dio
priva di luce la creatura stessa».68
40. L'insegnamento del Concilio sottolinea,
da un lato, l'attività della ragione
umana nel rinvenimento e nella
applicazione della legge morale: la vita
morale esige la creatività e l'ingegnosità
proprie della persona, sorgente e causa dei
suoi atti deliberati. D'altro lato, la
ragione trae la sua verità e la sua autorità
dalla legge eterna, che non è altro che la
stessa sapienza divina.69
Alla base della vita morale sta dunque il
principio di una «giusta autonomia»
70
dell'uomo, soggetto personale dei suoi atti.
La legge morale proviene da Dio e trova
sempre in lui la sua sorgente: in forza
della ragione naturale, che deriva dalla
sapienza divina, essa è, al tempo stesso,
la legge propria dell'uomo. La legge
naturale infatti, come si è visto, «altro
non è che la luce dell'intelligenza infusa
in noi da Dio. Grazie ad essa conosciamo ciò
che si deve compiere e ciò che si deve
evitare. Questa luce e questa legge Dio l'ha
donata nella creazione».71
La giusta autonomia della ragione pratica
significa che l'uomo possiede in se stesso
la propria legge, ricevuta dal Creatore.
Tuttavia, l'autonomia della ragione non
può significare la creazione, da parte
della stessa ragione, dei valori e delle
norme morali.72
Se questa autonomia implicasse una negazione
della partecipazione della ragione pratica
alla sapienza del Creatore e Legislatore
divino, oppure se suggerisse una libertà
creatrice delle norme morali, a seconda
delle contingenze storiche o delle diverse
società e culture, una tale pretesa
autonomia contraddirebbe l'insegnamento
della Chiesa sulla verità dell'uomo.73
Sarebbe la morte della vera libertà: «Ma
dell'albero della conoscenza del bene e del
male non devi mangiare, perché, quando tu ne
mangiassi, certamente moriresti» (Gn
2,17).
41. La vera autonomia morale
dell'uomo non significa affatto il rifiuto,
bensì l'accoglienza della legge morale, del
comando di Dio: «Il Signore Dio diede questo
comando all'uomo...» (Gn 2,16). La
libertà dell'uomo e la legge di Dio
s'incontrano e sono chiamate a compenetrarsi
tra loro, nel senso della libera
obbedienza dell'uomo a Dio e della gratuita
benevolenza di Dio all'uomo. E pertanto
l'obbedienza a Dio non è, come taluni
credono, un'eteronomia, come se la
vita morale fosse sottomessa alla volontà di
un'onnipotenza assoluta, esterna all'uomo e
contraria all'affermazione della sua
libertà. In realtà, se eteronomia della
morale significasse negazione
dell'autodeterminazione dell'uomo o
imposizione di norme estranee al suo bene,
essa sarebbe in contraddizione con la
rivelazione dell'Alleanza e
dell'Incarnazione redentrice. Una simile
eteronomia non sarebbe che una forma di
alienazione, contraria alla sapienza divina
ed alla dignità della persona umana.
Alcuni parlano, a giusto titolo, di
teonomia, o di teonomia partecipata,
perché la libera obbedienza dell'uomo
alla legge di Dio implica effettivamente la
partecipazione della ragione e della volontà
umane alla sapienza e alla provvidenza di
Dio. Proibendo all'uomo di mangiare
«dell'albero della conoscenza del bene e del
male», Dio afferma che l'uomo non possiede
originariamente in proprio questa
«conoscenza», ma solamente vi partecipa
mediante la luce della ragione naturale e
della rivelazione divina, che gli
manifestano le esigenze e gli appelli della
sapienza eterna. La legge quindi deve dirsi
un'espressione della sapienza divina:
sottomettendosi ad essa, la libertà si
sottomette alla verità della creazione. Per
questo occorre riconoscere nella libertà
della persona umana l'immagine e la
vicinanza di Dio, che è «presente in tutti»
(cf Ef 4,6); allo stesso modo,
bisogna confessare la maestà del Dio
dell'universo e venerare la santità della
legge di Dio infinitamente trascendente.
Deus semper maior.74
|
Beato l'uomo che si compiace della
legge del Signore (cf Sal 1,1-2)
42. Modellata su quella di Dio, la libertà
dell'uomo non solo non è negata dalla sua
obbedienza alla legge divina, ma soltanto
mediante questa obbedienza essa permane
nella verità ed è conforme alla dignità
dell'uomo, come scrive apertamente il
Concilio: «La dignità dell'uomo richiede che
egli agisca secondo scelte consapevoli e
libere, mosso cioè e indotto da convinzioni
personali e non per un cieco impulso interno
e per mera coazione esterna. Ma tale dignità
l'uomo la ottiene quando, liberandosi da
ogni schiavitù di passioni, tende al suo
fine con scelta libera del bene, e si
procura da sé e con la sua diligente
iniziativa i mezzi convenienti».75
Nel suo tendere a Dio, a Colui che «solo è
buono», l'uomo deve liberamente compiere il
bene ed evitare il male. Ma per questo
l'uomo deve poter distinguere il bene dal
male. Ed è quanto avviene, anzitutto,
grazie alla luce della ragione naturale,
riflesso nell'uomo dello splendore del volto
di Dio. In questo senso, commentando un
versetto del Salmo 4, san Tommaso scrive:
«Dopo aver detto: Offrite sacrifici di
giustizia (Sal 4,6), come se alcuni
gli chiedessero quali sono le opere della
giustizia, il Salmista soggiunge: Molti
dicono: Chi ci farà vedere il bene? E,
rispondendo alla domanda, dice: La luce
del tuo volto, Signore, è stata impressa su
di noi. Come se volesse dire che la luce
della ragione naturale con la quale
distinguiamo il bene dal male — il che è di
competenza della legge naturale — non è
altro che un'impronta in noi della luce
divina».76
Da ciò segue anche per quale motivo questa
legge è chiamata legge naturale:
viene detta così non in rapporto alla natura
degli esseri irrazionali, ma perché la
ragione che la promulga è propria della
natura umana.77
43. Il Concilio Vaticano II ricorda che
«norma suprema della vita umana è la legge
divina, eterna, oggettiva e universale, per
mezzo della quale Dio con un disegno di
sapienza e di amore ordina, dirige e governa
tutto il mondo e le vie della comunità
umana. E Dio rende partecipe l'uomo della
sua legge, cosicché l'uomo, per soave
disposizione della provvidenza divina, possa
sempre più conoscere l'immutabile verità».78
Il Concilio rimanda alla dottrina classica
sulla legge eterna di Dio.
Sant'Agostino la definisce come «la ragione
o la volontà di Dio che comanda di
conservare l'ordine naturale e proibisce di
turbarlo»;
79
san Tommaso la identifica con «la ragione
della divina sapienza che muove tutto al
fine dovuto».80
E la sapienza di Dio è provvidenza, amore
che si prende cura. È Dio stesso, dunque, ad
amare e a prendersi cura, nel senso più
letterale e fondamentale, di tutta la
creazione (cf Sap 7,22; 8,11). Ma Dio
provvede agli uomini in modo diverso
rispetto agli esseri che non sono persone:
non «dall'esterno», attraverso le leggi
della natura fisica, ma «dal di dentro»,
mediante la ragione che, conoscendo col lume
naturale la legge eterna di Dio, è perciò
stesso in grado di indicare all'uomo la
giusta direzione del suo libero agire.81
In questo modo Dio chiama l'uomo a
partecipare alla sua provvidenza, volendo
per mezzo dell'uomo stesso, ossia attraverso
la sua ragionevole e responsabile cura,
guidare il mondo: non soltanto il mondo
della natura, ma anche quello delle persone
umane. In questo contesto, come espressione
umana della legge eterna di Dio, si pone la
legge naturale: «Rispetto alle altre
creature — scrive san Tommaso — la creatura
razionale è soggetta in un modo più
eccellente alla divina provvidenza, in
quanto anche essa diventa partecipe della
provvidenza, provvedendo a se stessa e agli
altri: perciò si ha in essa una
partecipazione della ragione eterna, grazie
alla quale ha una naturale inclinazione
all'atto ed al fine dovuti: tale
partecipazione della legge eterna nella
creatura razionale è chiamata legge
naturale».82
44. La Chiesa ha fatto spesso riferimento
alla dottrina tomistica di legge naturale,
assumendola nel proprio insegnamento morale.
Così il mio venerato predecessore Leone XIII
ha sottolineato l'essenziale
subordinazione della ragione e della legge
umana alla Sapienza di Dio e alla sua legge.
Dopo aver detto che «la legge naturale è
scritta e scolpita nell'animo di tutti e di
ciascun uomo, poiché essa non è altro che la
stessa ragione umana che ci comanda di fare
il bene e ci intima di non peccare», Leone
XIII rimanda alla «ragione più alta» del
Legislatore divino: «Ma tale prescrizione
della ragione umana non potrebbe aver forza
di legge, se non fosse la voce e
l'interprete di una ragione più alta, a cui
il nostro spirito e la nostra libertà devono
essere sottomessi». Infatti, la forza della
legge risiede nella sua autorità di imporre
dei doveri, di conferire dei diritti e di
dare la sanzione a certi comportamenti: «Ora
tutto ciò non potrebbe esistere nell'uomo,
se fosse egli stesso a darsi, quale
legislatore supremo, la norma delle sue
azioni». E conclude: «Ne consegue che la
legge naturale è la stessa legge eterna,
insita negli esseri dotati di ragione,
che li inclina all'atto e al fine che
loro convengono; essa è la stessa
ragione eterna del Creatore e governatore
dell'universo».83
L'uomo può riconoscere il bene e il male
grazie a quel discernimento del bene dal
male che egli stesso opera mediante la sua
ragione, in particolare mediante la sua
ragione illuminata dalla rivelazione divina
e dalla fede, in forza della legge che
Dio ha donato al popolo eletto, a cominciare
dai comandamenti del Sinai. Israele è stato
chiamato a ricevere e a vivere la legge
di Dio come particolare dono e segno
dell'elezione e dell'Alleanza divina, ed
insieme come garanzia della benedizione di
Dio. Così Mosè poteva rivolgersi ai figli di
Israele e chiedere loro: «Quale grande
nazione ha la divinità così vicina a sé,
come il Signore nostro Dio è vicino a noi
ogni volta che lo invochiamo? E quale grande
nazione ha leggi e norme giuste, come è
tutta questa legislazione che io oggi vi
espongo?» (Dt 4,7-8). È nei Salmi
che incontriamo i sentimenti di lode,
gratitudine e venerazione che il popolo
eletto è chiamato a nutrire verso la legge
di Dio, insieme all'esortazione a
conoscerla, meditarla e tradurla nella vita:
«Beato l'uomo che non segue il consiglio
degli empi, non indugia nella via dei
peccatori e non siede in compagnia degli
stolti; ma si compiace della legge del
Signore, la sua legge medita giorno e notte»
(Sal 1,1-2); «La legge del Signore è
perfetta, rinfranca l'anima; la
testimonianza del Signore è verace, rende
saggio il semplice. Gli ordini del Signore
sono giusti, fanno gioire il cuore; i
comandi del Signore sono limpidi, danno luce
agli occhi» (Sal 181,8-9).
45. La Chiesa accoglie con riconoscenza e
custodisce con amore l'intero deposito della
Rivelazione, trattandolo con religioso
rispetto e adempiendo alla sua missione di
interpretare la legge di Dio in modo
autentico alla luce del Vangelo. La Chiesa,
inoltre, riceve in dono la Legge nuova,
che è il «compimento» della legge di Dio
in Gesù Cristo e nel suo Spirito: è una
legge «interiore» (cf Ger 31,31-33),
«scritta non con inchiostro, ma con lo
Spirito del Dio vivente, non su tavole di
pietra, ma sulle tavole di carne dei vostri
cuori» (2 Cor 3,3); una legge di
perfezione e di libertà (cf 2 Cor
3,17); è «la legge dello Spirito che dà vita
in Cristo Gesù» (Rm 8,2). Di questa
legge scrive san Tommaso: «Questa può essere
detta legge in un duplice senso. In un primo
senso, legge dello spirito è lo Spirito
Santo... che, inabitante nell'anima, non
solo insegna che cosa è necessario compiere
illuminando l'intelletto sulle cose da
farsi, ma anche inclina ad agire con
rettitudine... In un secondo senso, legge
dello spirito può dirsi l'effetto proprio
dello Spirito Santo, e cioè la fede che
opera per mezzo della carità (Gal
5,6), la quale pertanto ammaestra
interiormente circa le cose da farsi... e
inclina l'affetto ad agire».84
Anche se nella riflessione teologico-morale
si è soliti distinguere la legge di Dio
positiva o rivelata da quella naturale, e
nell'economia della salvezza la legge
«antica» da quella «nuova», non si può
dimenticare che queste e altre utili
distinzioni si riferiscono sempre alla legge
il cui autore è lo stesso unico Dio, e il
cui destinatario è l'uomo. I diversi modi
secondo cui nella storia Dio ha cura del
mondo e dell'uomo, non solo non si escludono
tra loro, ma al contrario si sostengono e si
compenetrano a vicenda. Tutti scaturiscono e
concludono all'eterno disegno sapiente e
amoroso con il quale Dio predestina gli
uomini «ad essere conformi all'immagine del
Figlio suo» (Rm 8,29). In questo
disegno non c'è nessuna minaccia per la vera
libertà dell'uomo; al contrario
l'accoglienza di questo disegno è l'unica
via per l'affermazione della libertà.
|
«Quanto la legge esige è scritto nei
loro cuori» (Rm 2,15)
46. Il presunto conflitto tra la libertà e
la legge si ripropone oggi con una singolare
forza in rapporto alla legge naturale, e in
particolare in rapporto alla natura. In
realtà i dibattiti su natura e libertà
hanno sempre accompagnato la storia
della riflessione morale, assumendo toni
accesi con il Rinascimento e la Riforma,
come si può rilevare dagli insegnamenti del
Concilio di Trento.85
Di una tensione analoga resta segnata, anche
se in un senso differente, l'epoca
contemporanea: il gusto dell'osservazione
empirica, i procedimenti dell'oggettivazione
scientifica, il progresso tecnico, alcune
forme di liberalismo hanno portato a
contrapporre i due termini, come se la
dialettica — se non addirittura il conflitto
— tra libertà e natura fosse caratteristica
strutturale della storia umana. In altre
epoche, è sembrato che la «natura»
sottomettesse totalmente l'uomo ai suoi
dinamismi e persino ai suoi determinismi.
Ancor oggi le coordinate spazio-temporali
del mondo sensibile, le costanti
fisico-chimiche, i dinamismi corporei, le
pulsioni psichiche, i condizionamenti
sociali appaiono a molti come gli unici
fattori realmente decisivi delle realtà
umane. In questo contesto, anche i fatti
morali, a dispetto della loro specificità,
sono spesso trattati come se fossero dati
statisticamente accertabili, come
comportamenti osservabili o spiegabili solo
con le categorie dei meccanismi
psico-sociali. E così alcuni studiosi di
etica, tenuti per professione a
esaminare i fatti e i gesti dell'uomo,
possono essere tentati di misurare il loro
sapere, se non le loro prescrizioni, sulla
base di un riscontro statistico circa i
comportamenti umani concreti e le opinioni
morali della maggioranza.
Altri moralisti, invece, preoccupati
di educare ai valori, si mantengono
sensibili al prestigio della libertà, ma
spesso la concepiscono in opposizione, o in
contrasto, con la natura materiale e
biologica, sulla quale dovrebbe
progressivamente affermarsi. A questo
proposito differenti concezioni convergono
nel dimenticare la dimensione creaturale
della natura e nel misconoscere la sua
integralità. Per alcuni, la natura si
trova ridotta a materiale per l'agire umano
e per il suo potere: essa dovrebbe essere
profondamente trasformata, anzi superata
dalla libertà, dal momento che ne
costituirebbe un limite e una negazione.
Per altri, è nella promozione senza
misura del potere dell'uomo, o della sua
libertà, che si costituiscono i valori
economici, sociali, culturali ed anche
morali: la natura starebbe a significare
tutto ciò che nell'uomo e nel mondo si
colloca al di fuori della libertà. Tale
natura comprenderebbe in primo luogo il
corpo umano, la sua costituzione e i suoi
dinamismi: a questo dato fisico si
opporrebbe quanto è «costruito» cioè la
«cultura», quale opera e prodotto della
libertà. La natura umana, così intesa,
potrebbe essere ridotta e trattata come
materiale biologico o sociale sempre
disponibile. Ciò significa ultimamente
definire la libertà mediante se stessa e
farne un'istanza creatrice di sé e dei suoi
valori. È così che al limite l'uomo non
avrebbe neppure natura, e sarebbe per se
stesso il proprio progetto di esistenza.
L'uomo non sarebbe nient'altro che la sua
libertà!
47. In questo contesto sono sorte le
obiezioni di fisicismo e naturalismo
contro la concezione tradizionale della
legge naturale: questa presenterebbe
come leggi morali quelle che in se stesse
sarebbero solo leggi biologiche. Così,
troppo superficialmente, si sarebbe
attribuito ad alcuni comportamenti umani un
carattere permanente ed immutabile e, in
base ad esso, si sarebbe preteso di
formulare norme morali universalmente
valide. Secondo alcuni teologi, una simile
«argomen- tazione biologista o naturalista»
sarebbe presente anche in taluni documenti
del Magistero della Chiesa, specialmente in
quelli riguardanti l'ambito dell'etica
sessuale e matrimoniale. In base ad una
concezione naturalistica dell'atto sessuale,
sarebbero state condannate come moralmente
inammissibili la contraccezione, la
sterilizzazione diretta, l'autoerotismo, i
rapporti prematrimoniali, le relazioni
omosessuali, nonché la fecondazione
artificiale. Ora, secondo il parere di
questi teologi, la valutazione moralmente
negativa di tali atti non prenderebbe in
adeguata considerazione il carattere
razionale e libero dell'uomo, né il
condizionamento culturale di ogni norma
morale. Essi dicono che l'uomo, come essere
razionale, non solo può, ma addirittura
deve decidere liberamente il senso dei
suoi comportamenti. Questo «decidere il
senso» dovrà tener conto, ovviamente, dei
molteplici limiti dell'essere umano, che ha
una condizione corporea e storica. Dovrà,
inoltre, prendere in considerazione i
modelli comportamentali ed i significati che
questi assumono in una determinata cultura.
E, soprattutto, dovrà rispettare il
comandamento fondamentale dell'amore di Dio
e del prossimo. Dio però — asseriscono poi —
ha fatto l'uomo come essere razionalmente
libero, lo ha lasciato «in mano al suo
consiglio» e da lui attende una propria,
razionale formazione della sua vita. L'amore
del prossimo significherebbe soprattutto o
esclusivamente rispetto per il suo libero
decidere di se stesso. I meccanismi dei
comportamenti propri dell'uomo, nonché le
cosiddette «inclinazioni naturali»,
stabilirebbero al massimo — come dicono — un
orientamento generale del comportamento
corretto, ma non potrebbero determinare la
valutazione morale dei singoli atti umani,
tanto complessi dal punto di vista delle
situazioni.
48. Di fronte ad una tale interpretazione
occorre considerare con attenzione il retto
rapporto che esiste tra la libertà e la
natura umana, e in particolare il posto
che ha il corpo umano nelle questioni della
legge naturale.
Una libertà che pretende di essere assoluta
finisce per trattare il corpo umano come un
dato bruto, sprovvisto di significati e di
valori morali finché essa non l'abbia
investito del suo progetto. Di conseguenza,
la natura umana e il corpo appaiono come dei
presupposti o preliminari,
materialmente necessari alla scelta
della libertà, ma estrinseci alla
persona, al soggetto e all'atto umano. I
loro dinamismi non potrebbero costituire
punti di riferimento per la scelta morale,
dal momento che le finalità di queste
inclinazioni sarebbero solo beni
«fisici», detti da taluni «pre-morali».
Farvi riferimento, per cercarvi indicazioni
razionali circa l'ordine della moralità,
dovrebbe essere tacciato di fisicismo o di
biologismo. In un simile contesto la
tensione tra la libertà e una natura
concepita in senso riduttivo si risolve in
una divisione nell'uomo stesso.
Questa teoria morale non è conforme alla
verità sull'uomo e sulla sua libertà. Essa
contraddice agli insegnamenti della
Chiesa sull'unità dell'essere umano, la
cui anima razionale è per se et
essentialiter la forma del corpo.86
L'anima spirituale e immortale è il
principio di unità dell'essere umano, è ciò
per cui esso esiste come un tutto —
«corpore et anima unus»
87
— in quanto persona. Queste definizioni non
indicano solo che anche il corpo, al quale è
promessa la risurrezione, sarà partecipe
della gloria; esse ricordano altresì il
legame della ragione e della libera volontà
con tutte le facoltà corporee e sensibili.
La persona, incluso il corpo, è affidata
interamente a se stessa, ed è nell'unità
dell'anima e del corpo che essa è il
soggetto dei propri atti morali. La
persona, mediante la luce della ragione e il
sostegno della virtù, scopre nel suo corpo i
segni anticipatori, l'espressione e la
promessa del dono di sé, in conformità con
il sapiente disegno del Creatore. È alla
luce della dignità della persona umana — da
affermarsi per se stessa — che la ragione
coglie il valore morale specifico di alcuni
beni, cui la persona è naturalmente
inclinata. E dal momento che la persona
umana non è riducibile ad una libertà che si
autoprogetta, ma comporta una struttura
spirituale e corporea determinata,
l'esigenza morale originaria di amare e
rispettare la persona come un fine e mai
come un semplice mezzo, implica anche,
intrinsecamente, il rispetto di alcuni beni
fondamentali, senza del quale si cade nel
relativismo e nell'arbitrio.
49. Una dottrina che dissoci l'atto
morale dalle dimensioni corporee del suo
esercizio è contraria agli insegnamenti
della Sacra Scrittura e della Tradizione:
tale dottrina fa rivivere, sotto forme
nuove, alcuni vecchi errori sempre
combattuti dalla Chiesa, in quanto riducono
la persona umana a una libertà «spirituale»,
puramente formale. Questa riduzione
misconosce il significato morale del corpo e
dei comportamenti che ad esso si riferiscono
(cf 1 Cor 6,19). L'apostolo Paolo
dichiara esclusi dal Regno dei cieli
«immorali, idolatri, adulteri, effeminati,
sodomiti, ladri, avari, ubriaconi,
maldicenti e rapaci» (cf 1 Cor
6,9-10). Tale condanna — fatta propria dal
Concilio di Trento
88
— enumera come «peccati mortali», o
«pratiche infami», alcuni comportamenti
specifici la cui volontaria accettazione
impedisce ai credenti di avere parte
all'eredità promessa. Infatti, corpo e
anima sono indissociabili: nella
persona, nell'agente volontario e nell'atto
deliberato, essi stanno o si perdono
insieme.
50. Si può ora comprendere il vero
significato della legge naturale: essa si
riferisce alla natura propria e originale
dell'uomo, alla «natura della persona
umana»,89
che è la persona stessa nell'unità di
anima e di corpo, nell'unità delle sue
inclinazioni di ordine sia spirituale che
biologico e di tutte le altre
caratteristiche specifiche necessarie al
perseguimento del suo fine. «La legge morale
naturale esprime e prescrive le finalità, i
diritti e i doveri che si fondano sulla
natura corporale e spirituale della persona
umana. Pertanto essa non può essere
concepita come normatività semplicemente
biologica, ma deve essere definita come
l'ordine razionale secondo il quale l'uomo è
chiamato dal Creatore a dirigere e a
regolare la sua vita e i suoi atti e, in
particolare, a usare e disporre del proprio
corpo».90
Ad esempio, l'origine e il fondamento del
dovere di rispettare assolutamente la vita
umana sono da trovare nella dignità propria
della persona e non semplicemente
nell'inclinazione naturale a conservare la
propria vita fisica. Così la vita umana, pur
essendo un bene fondamentale dell'uomo,
acquista un significato morale in
riferimento al bene della persona che deve
essere sempre affermata per se stessa:
mentre è sempre moralmente illecito uccidere
un essere umano innocente, può essere
lecito, lodevole o persino doveroso dare la
propria vita (cf Gv 15, 13) per amore
del prossimo o per testimonianza verso la
verità. In realtà solo in riferimento alla
persona umana nella sua «totalità
unificata», cioè «anima che si esprime nel
corpo e corpo informato da uno spirito
immortale»,
91
si può leggere il significato specificamente
umano del corpo. In effetti le inclinazioni
naturali acquistano rilevanza morale solo in
quanto esse si riferiscono alla persona
umana e alla sua realizzazione autentica, la
quale d'altra parte può verificarsi sempre e
solo nella natura umana. Rifiutando le
manipolazioni della corporeità che ne
alterano il significato umano, la Chiesa
serve l'uomo e gli indica la via del vero
amore, sulla quale soltanto egli può trovare
il vero Dio.
La legge naturale così intesa non lascia
spazio alla divisione tra libertà e natura.
Queste, infatti, sono armonicamente
collegate tra loro e intimamente alleate
l'una con l'altra.
|
«Ma da principio non fu così» (Mt
19,8)
51. Il presunto conflitto tra la libertà e
la natura si ripercuote anche
sull'interpretazione di alcuni aspetti
specifici della legge naturale, soprattutto
sulla sua universalità e immutabilità.
«Dove dunque sono iscritte queste regole
— si chiedeva sant'Agostino — se non nel
libro di quella luce che si chiama verità?
Di qui, dunque, è dettata ogni legge giusta
e si trasferisce retta nel cuore dell'uomo
che opera la giustizia, non emigrando in
lui, ma quasi imprimendosi in lui, come
l'immagine passa dall'anello nella cera, ma
senza abbandonare l'anello».92
Proprio grazie a questa «verità» la legge
naturale implica l'universalità. Essa,
in quanto iscritta nella natura razionale
della persona, si impone ad ogni essere
dotato di ragione e vivente nella storia.
Per perfezionarsi nel suo ordine specifico,
la persona deve compiere il bene ed evitare
il male, vegliare alla trasmissione e alla
conservazione della vita, affinare e
sviluppare le ricchezze del mondo sensibile,
coltivare la vita sociale, cercare il vero,
praticare il bene, contemplare la bellezza.93
La scissione posta da alcuni tra la libertà
degli individui e la natura comune a tutti,
come emerge da alcune teorie filosofiche di
grande risonanza nella cultura
contemporanea, oscura la percezione
dell'universalità della legge morale da
parte della ragione. Ma, in quanto esprime
la dignità della persona umana e pone la
base dei suoi diritti e doveri fondamentali,
la legge naturale è universale nei suoi
precetti e la sua autorità si estende a
tutti gli uomini. Questa universalità non
prescinde dalla singolarità degli esseri
umani, né si oppone all'unicità e
all'irripetibilità di ciascuna persona: al
contrario, essa abbraccia in radice ciascuno
dei suoi atti liberi, che devono attestare
l'universalità del vero bene.
Sottomettendosi alla legge comune, i nostri
atti edificano la vera comunione delle
persone e, con la grazia di Dio, esercitano
la carità, «vincolo della perfezione» (Col
3,14). Quando invece misconoscono o
anche solo ignorano la legge, in maniera
imputabile o no, i nostri atti feriscono la
comunione delle persone, con pregiudizio di
ciascuno.
52. È giusto e buono, sempre e per tutti,
servire Dio, rendergli il culto dovuto ed
onorare secondo verità i genitori. Simili
precetti positivi, che prescrivono di
compiere talune azioni e di coltivare certi
atteggiamenti, obbligano universalmente;
essi sono immutabili;
94
uniscono nel medesimo bene comune tutti gli
uomini di ogni epoca della storia, creati
per «la stessa vocazione e lo stesso destino
divino».95
Queste leggi universali e permanenti
corrispondono a conoscenze della ragione
pratica e vengono applicate agli atti
particolari mediante il giudizio della
coscienza. Il soggetto che agisce assimila
personalmente la verità contenuta nella
legge: egli si appropria, fa sua questa
verità del suo essere mediante gli atti e le
relative virtù. I precetti negativi
della legge naturale sono universalmente
validi: essi obbligano tutti e ciascuno,
sempre e in ogni circostanza. Si tratta
infatti di proibizioni che vietano una
determinata azione semper et pro semper,
senza eccezioni, perché la scelta di un tale
comportamento non è in nessun caso
compatibile con la bontà della volontà della
persona che agisce, con la sua vocazione
alla vita con Dio e alla comunione col
prossimo. È proibito ad ognuno e sempre di
infrangere precetti che vincolano, tutti e a
qualunque costo, a non offendere in alcuno
e, prima di tutto, in se stessi la dignità
personale e comune a tutti.
D'altra parte, il fatto che solo i
comandamenti negativi obbligano sempre e in
ogni circostanza, non significa che nella
vita morale le proibizioni siano più
importanti dell'impegno a fare il bene
indicato dai comandamenti positivi. Il
motivo è piuttosto il seguente: il
comandamento dell'amore di Dio e del
prossimo non ha nella sua dinamica positiva
nessun limite superiore, bensì ha un limite
inferiore, scendendo sotto il quale si viola
il comandamento. Inoltre, ciò che si deve
fare in una determinata situazione dipende
dalle circostanze, che non si possono tutte
quante prevedere in anticipo; al contrario
ci sono comportamenti che non possono mai
essere, in nessuna situazione, una risposta
adeguata — ossia conforme alla dignità della
persona. Infine, è sempre possibile che
l'uomo, in seguito a costrizione o ad altre
circostanze, sia impedito di portare a
termine determinate buone azioni; mai però
può essere impedito di non fare determinate
azioni, soprattutto se egli è disposto a
morire piuttosto che a fare il male.
La Chiesa ha sempre insegnato che non si
devono mai scegliere comportamenti proibiti
dai comandamenti morali, espressi in forma
negativa nell'Antico e nel Nuovo Testamento.
Come si è visto, Gesù stesso ribadisce
l'inderogabilità di queste proibizioni: «Se
vuoi entrare nella vita, osserva i
comandamenti...: non uccidere, non
commettere adulterio, non rubare, non
testimoniare il falso» (Mt 19,17-18).
53. La grande sensibilità che l'uomo
contemporaneo testimonia per la storicità e
per la cultura conduce taluni a dubitare
dell'immutabilità della stessa
legge naturale, e quindi dell'esistenza
di «norme oggettive di moralità»
96
valide per tutti gli uomini del presente e
del futuro, come già per quelli del passato:
è mai possibile affermare come valide
universalmente per tutti e sempre permanenti
certe determinazioni razionali stabilite nel
passato, quando si ignorava il progresso che
l'umanità avrebbe fatto successivamente?
Non si può negare che l'uomo si dà sempre in
una cultura particolare, ma pure non si può
negare che l'uomo non si esaurisce in questa
stessa cultura. Del resto, il progresso
stesso delle culture dimostra che nell'uomo
esiste qualcosa che trascende le culture.
Questo «qualcosa» è precisamente la
natura dell'uomo: proprio questa natura
è la misura della cultura ed è la condizione
perché l'uomo non sia prigioniero di nessuna
delle sue culture, ma affermi la sua dignità
personale nel vivere conformemente alla
verità profonda del suo essere. Mettere in
discussione gli elementi strutturali
permanenti dell'uomo, connessi anche con la
stessa dimensione corporea, non solo sarebbe
in conflitto con l'esperienza comune, ma
renderebbe incomprensibile il riferimento
che Gesù ha fatto al «principio»,
proprio là dove il contesto sociale e
culturale del tempo aveva deformato il senso
originario e il ruolo di alcune norme morali
(cf Mt 19,1-9). In tal senso «la
Chiesa afferma che al di sotto di tutti i
mutamenti ci sono molte cose che non
cambiano; esse trovano il loro ultimo
fondamento in Cristo, che è sempre lo
stesso: ieri, oggi e nei secoli».97
È lui il «Principio» che, avendo assunto la
natura umana, la illumina definitivamente
nei suoi elementi costitutivi e nel suo
dinamismo di carità verso Dio e il prossimo.98
Certamente occorre cercare e trovare delle
norme morali universali e permanenti la
formulazione più adeguata ai diversi
contesti culturali, più capace di esprimerne
incessantemente l'attualità storica, di
farne comprendere e interpretare
autenticamente la verità. Questa verità
della legge morale — come quella del
«deposito della fede» — si dispiega
attraverso i secoli: le norme che la
esprimono restano valide nella loro
sostanza, ma devono essere precisate e
determinate «eodem sensu eademque
sententia»
99
secondo le circostanze storiche dal
Magistero della Chiesa, la cui decisione è
preceduta e accompagnata dallo sforzo di
lettura e di formulazione proprio della
ragione dei credenti e della riflessione
teologica.100
|
II. La coscienza e la verità
Il sacrario dell'uomo
54. Il rapporto che esiste tra la libertà
dell'uomo e la legge di Dio ha la sua sede
viva nel «cuore» della persona, ossia nella
sua coscienza morale: «Nell'intimo
della coscienza — scrive il Concilio
Vaticano II — l'uomo scopre una legge che
non è lui a darsi, ma alla quale invece deve
obbedire e la cui voce che lo chiama sempre
ad amare e a fare il bene e a fuggire il
male, quando occorre, chiaramente dice alle
orecchie del cuore: fa' questo, fuggi
quest'altro. L'uomo ha in realtà una legge
scritta da Dio dentro il suo cuore: obbedire
ad essa è la dignità stessa dell'uomo, e
secondo questa egli sarà giudicato (cf Rm
2, 14-16)».101
Per questo il modo secondo cui si concepisce
il rapporto tra la libertà e la legge si
collega intimamente con l'interpretazione
che viene riservata alla coscienza morale.
In tal senso le tendenze culturali sopra
ricordate, che contrappongono e separano tra
loro la libertà e la legge ed esaltano in
modo idolatrico la libertà, conducono ad un'interpretazione
«creativa» della coscienza morale, che
si allontana dalla posizione della
tradizione della Chiesa e del suo Magistero.
55. Secondo l'opinione di diversi teologi la
funzione della coscienza sarebbe stata
ricondotta, almeno in un certo passato, ad
una semplice applicazione di norme morali
generali ai singoli casi di vita della
persona. Ma simili norme — dicono — non
possono essere in grado di accogliere e di
rispettare l'intera irrepetibile specificità
di tutti i singoli atti concreti delle
persone; possono anche, in qualche modo,
aiutare a una giustavalutazione della
situazione, ma non possono sostituire le
persone nel prendere una decisione
personale su come comportarsi nei
determinati casi particolari. Anzi, la
predetta critica alla tradizionale
interpretazione della natura umana e della
sua importanza per la vita morale induce
alcuni autori ad affermare che queste norme
non sono tanto un criterio oggettivo
vincolante per i giudizi della coscienza,
quanto piuttosto una prospettiva generale
che aiuta in prima approssimazione
l'uomo nel dare un'ordinata sistemazione
alla sua vita personale e sociale. Essi,
inoltre, rilevano la complessità
tipica del fenomeno della coscienza: questa
si rapporta profondamente con tutta la sfera
psicologica ed affettiva e con i molteplici
influssi dell'ambiente sociale e culturale
della persona. D'altra parte, viene esaltato
al massimo il valore della coscienza, che il
Concilio stesso ha definito «il sacrario
dell'uomo, dove egli si trova solo con Dio,
la cui voce risuona nell'intimità propria».102
Tale voce — si dice — induce l'uomo non
tanto a una meticolosa osservanza delle
norme universali, quanto a una creativa e
responsabile assunzione dei compiti
personali che Dio gli affida.
Volendo mettere in risalto il carattere
«creativo» della coscienza, alcuni autori
chiamano i suoi atti, non più con il nome di
«giudizi», ma con quello di «decisioni»:
solo prendendo «auto- nomamente» queste
decisioni l'uomo potrebbe raggiungere la sua
maturità morale. Né manca chi ritiene che
questo processo di maturazione sarebbe
ostacolato dalla posizione troppo categorica
che, in molte questioni morali, assume il
Magistero della Chiesa, i cui interventi
sarebbero causa, presso i fedeli,
dell'insorgere di inutili conflitti di
coscienza.
56. Per giustificare simili posizioni,
alcuni hanno proposto una sorta di duplice
statuto della verità morale. Oltre al
livello dottrinale e astratto, occorrerebbe
riconoscere l'originalità di una certa
considerazione esistenziale più concreta.
Questa, tenendo conto delle circostanze e
della situazione, potrebbe legittimamente
fondare delle eccezioni alla regola
generale e permettere così di compiere
praticamente, con buona coscienza, ciò che è
qualificato come intrinsecamente cattivo
dalla legge morale. In tal modo si instaura
in alcuni casi una separazione, o anche
un'opposizione, tra la dottrina del precetto
valido in generale e la norma della singola
coscienza, che deciderebbe di fatto, in
ultima istanza, del bene e del male. Su
questa base si pretende di fondare la
legittimità di soluzioni cosiddette
«pastorali» contrarie agli insegnamenti del
Magistero e di giustificare un'ermeneutica
«creatrice», secondo la quale la coscienza
morale non sarebbe affatto obbligata, in
tutti i casi, da un precetto negativo
particolare.
Non vi è chi non colga che con queste
impostazioni si trova messa in questione
l'identità stessa della coscienza morale
di fronte alla libertà dell'uomo e alla
legge di Dio. Solo la chiarificazione
precedentemente fatta sul rapporto tra
libertà e legge fondato sulla verità rende
possibile il discernimento circa
questa interpretazione «creativa» della
coscienza.
|
Il giudizio della coscienza
57. Lo stesso testo della Lettera ai
Romani, che ci ha fatto cogliere
l'essenza della legge naturale, indica anche
il senso biblico della coscienza,
specialmente nel suo specifico legame con
la legge: «Quando i pagani, che non
hanno la legge, per natura agiscono secondo
la legge, essi, pur non avendo legge, sono
legge a se stessi; essi dimostrano che
quanto la legge esige è scritto nei loro
cuori come risulta dalla testimonianza della
loro coscienza e dai loro stessi
ragionamenti, che ora li accusano ora li
difendono» (Rm 2,14-15).
Secondo le parole di san Paolo, la
coscienza, in un certo senso, pone l'uomo di
fronte alla legge, diventando essa stessa
«testimo- ne» per l'uomo: testimone
della sua fedeltà o infedeltà nei riguardi
della legge, ossia della sua essenziale
rettitudine o malvagità morale. La coscienza
è l'unico testimone: ciò che avviene
nell'intimo della persona è coperto agli
occhi di chiunque dall'esterno. Essa rivolge
la sua testimonianza soltanto verso la
persona stessa. E, a sua volta, soltanto la
persona conosce la propria risposta alla
voce della coscienza.
58. Non si apprezzerà mai adeguatamente
l'importanza di questo intimo dialogo
dell'uomo con se stesso. Ma, in realtà,
questo è il dialogo dell'uomo con Dio,
autore della legge, primo modello e fine
ultimo dell'uomo. «La coscienza — scrive san
Bonaventura — è come l'araldo di Dio e il
messaggero, e ciò che dice non lo comanda da
se stessa, ma lo comanda come proveniente da
Dio, alla maniera di un araldo quando
proclama l'editto del re. E da ciò deriva il
fatto che la coscienza ha la forza di
obbligare».103
Si può dire, dunque, che la coscienza dà la
testimonianza della rettitudine o della
malvagità dell'uomo all'uomo stesso, ma
insieme, anzi prima ancora, essa è
testimonianza di Dio stesso, la cui voce
e il cui giudizio penetrano l'intimo
dell'uomo fino alle radici della sua anima,
chiamandolo fortiter et suaviter
all'obbedienza: «La coscienza morale non
chiude l'uomo dentro una invalicabile e
impenetrabile solitudine, ma lo apre alla
chiamata, alla voce di Dio. In questo, non
in altro, sta tutto il mistero e la dignità
della coscienza morale: nell'essere cioè il
luogo, lo spazio santo nel quale Dio parla
all'uomo».104
59. San Paolo non si limita a riconoscere
che la coscienza fa da «testimone», ma
rivela anche il modo con cui essa compie una
simile funzione. Si tratta di
«ragionamenti», che accusano o difendono i
pagani in rapporto ai loro comportamenti (cf
Rm 2,15). Il termine «ragionamenti»
mette in luce il carattere proprio della
coscienza, quello di essere un giudizio
morale sull'uomo e sui suoi atti: è un
giudizio di assoluzione o di condanna
secondo che gli atti umani sono conformi o
difformi dalla legge di Dio scritta nel
cuore. E proprio del giudizio degli atti e,
allo stesso tempo, del loro autore e del
momento del suo definitivo compimento parla
l'apostolo Paolo nello stesso testo: «Così
avverrà nel giorno in cui Dio giudicherà i
segreti degli uomini per mezzo di Gesù
Cristo, secondo il mio Vangelo» (Rm
2,16).
Il giudizio della coscienza è un giudizio
pratico, ossia un giudizio che intima
che cosa l'uomo deve fare o non fare, oppure
che valuta un atto da lui ormai compiuto. È
un giudizio che applica a una situazione
concreta la convinzione razionale che si
deve amare e fare il bene ed evitare il
male. Questo primo principio della ragione
pratica appartiene alla legge naturale, anzi
ne costituisce il fondamento stesso, in
quanto esprime quella luce originaria sul
bene e sul male, riflesso della sapienza
creatrice di Dio, che, come una scintilla
indistruttibile (scintilla animae),
brilla nel cuore di ogni uomo. Mentre però
la legge naturale mette in luce le esigenze
oggettive e universali del bene morale, la
coscienza è l'applicazione della legge al
caso particolare, la quale diventa così per
l'uomo un interiore dettame, una chiamata a
compiere nella concretezza della situazione
il bene. La coscienza formula così
l'obbligo morale alla luce dalla legge
naturale: è l'obbligo di fare ciò che
l'uomo, mediante l'atto della sua coscienza,
conosce come un bene che gli è assegnato
qui e ora. Il carattere universale della
legge e dell'obbligazione non è cancellato,
ma piuttosto riconosciuto, quando la ragione
ne determina le applicazioni nell'attualità
concreta. Il giudizio della coscienza
afferma «ultimamente» la conformità di un
certo comportamento concreto rispetto alla
legge; esso formula la norma prossima della
moralità di un atto volontario, realizzando
«l'appli- cazione della legge oggettiva a un
caso particolare».105
60. Come la stessa legge naturale e ogni
conoscenza pratica, anche il giudizio della
coscienza ha carattere imperativo: l'uomo
deve agire in conformità ad esso. Se
l'uomo agisce contro tale giudizio, oppure,
anche in mancanza di certezza circa la
correttezza e la bontà di un determinato
atto, lo compie, egli è condannato dalla sua
stessa coscienza, norma prossima della
moralità personale. La dignità di questa
istanza razionale e l'autorità della sua
voce e dei suoi giudizi derivano dalla
verità sul bene e sul male morale, che
essa è chiamata ad ascoltare e ad esprimere.
Questa verità è indicata dalla «legge
divina», norma universale e oggettiva
della moralità. Il giudizio della
coscienza non stabilisce la legge, ma
attesta l'autorità della legge naturale e
della ragione pratica in riferimento al bene
supremo, di cui la persona umana accetta
l'attrattiva e accoglie i comandamenti: «La
coscienza non è una fonte autonoma ed
esclusiva per decidere ciò che è buono e ciò
che è cattivo; invece, in essa è inscritto
profondamente un principio di obbedienza nei
riguardi della norma oggettiva, che fonda e
condiziona la corrispondenza delle sue
decisioni con i comandi e i divieti che sono
alla base del comportamento umano».106
61. La verità circa il bene morale,
dichiarata nella legge della ragione, è
riconosciuta praticamente e concretamente
dal giudizio della coscienza, il quale porta
ad assumere la responsabilità del bene
compiuto e del male commesso: se l'uomo
commette il male, il giusto giudizio della
sua coscienza rimane in lui testimone della
verità universale del bene, come della
malizia della sua scelta particolare. Ma il
verdetto della coscienza permane in lui
anche come un pegno di speranza e di
misericordia: mentre attesta il male
commesso, ricorda anche il perdono da
chiedere, il bene da praticare e la virtù da
coltivare sempre, con la grazia di Dio.
Così nel giudizio pratico della
coscienza, che impone alla persona
l'obbligo di compiere un determinato atto,
si rivela il vincolo della libertà con la
verità. Proprio per questo la coscienza
si esprime con atti di «giudizio» che
riflettono la verità sul bene, e non come
«decisioni» arbitrarie. E la maturità e la
responsabilità di questi giudizi — e, in
definitiva, dell'uomo, che ne è il soggetto
— si misurano non con la liberazione della
coscienza dalla verità oggettiva, in favore
di una presunta autonomia delle proprie
decisioni, ma, al contrario, con una
pressante ricerca della verità e con il
farsi guidare da essa nell'agire.
|
Cercare la verità e il bene
62. La coscienza, come giudizio di un atto,
non è esente dalla possibilità di errore.
«Succede non di rado — scrive il Concilio —
che la coscienza sia erronea per ignoranza
invincibile, senza che per questo essa perda
la sua dignità. Ma ciò non si può dire
quando l'uomo poco si cura di cercare la
verità e il bene, e quando la coscienza
diventa quasi cieca in seguito all'abitudine
del peccato».107
Con queste brevi parole il Concilio offre
una sintesi della dottrina che la Chiesa nel
corso dei secoli ha elaborato sulla
coscienza erronea.
Certamente, per avere una «buona coscienza»
(1 Tm 1,5), l'uomo deve cercare la
verità e deve giudicare secondo questa
stessa verità. Come dice l'apostolo Paolo,
la coscienza deve essere illuminata dallo
Spirito Santo (cf Rm 9,1), deve
essere «pura» (2 Tm 1,3), non deve
con astuzia falsare la parola di Dio ma
manifestare chiaramente la verità (cf 2
Cor 4,2). D'altra parte, lo stesso
Apostolo ammonisce i cristiani dicendo: «Non
conformatevi alla mentalità di questo mondo,
ma trasformatevi rinnovando la vostra mente,
per poter discernere la volontà di Dio, ciò
che è buono, a lui gradito e perfetto» (Rm
12,2).
Il monito di Paolo ci sollecita alla
vigilanza, avvertendoci che nei giudizi
della nostra coscienza si annida sempre la
possibilità dell'errore. Essa non è un
giudice infallibile: può errare.
Nondimeno l'errore della coscienza può
essere il frutto di una ignoranza
invincibile, cioè di un'ignoranza di cui
il soggetto non è consapevole e da cui non
può uscire da solo.
Nel caso in cui tale ignoranza invincibile
non sia colpevole, ci ricorda il Concilio,
la coscienza non perde la sua dignità,
perché essa, pur orientandoci di fatto in
modo difforme dall'ordine morale oggettivo,
non cessa di parlare in nome di quella
verità sul bene che il soggetto è chiamato a
ricercare sinceramente.
63. È comunque sempre dalla verità che
deriva la dignità della coscienza: nel caso
della coscienza retta si tratta della veritàoggettiva
accolta dall'uomo; in quello della
coscienza erronea si tratta di ciò che
l'uomo sbagliando ritiene soggettivamente
vero. Non è mai accettabile confondere un
errore «soggettivo» sul bene morale
con la verità «oggettiva», razionalmente
proposta all'uomo in virtù del suo fine, né
equiparare il valore morale dell'atto
compiuto con coscienza vera e retta con
quello compiuto seguendo il giudizio di una
coscienza erronea.108
Il male commesso a causa di una ignoranza
invincibile, o di un errore di giudizio non
colpevole, può non essere imputabile alla
persona che lo compie; ma anche in tal caso
esso non cessa di essere un male, un
disordine in relazione alla verità sul bene.
Inoltre, il bene non riconosciuto non
contribuisce alla crescita morale della
persona che lo compie: esso non la
perfeziona e non giova a disporla al bene
supremo. Così, prima di sentirci facilmente
giustificati in nome della nostra coscienza,
dovremmo meditare sulla parola del Salmo:
«Le inavvertenze chi le discerne? Assolvimi
dalle colpe che non vedo» (Sal
181,13). Ci sono colpe che non riusciamo a
vedere e che nondimeno rimangono colpe,
perché ci siamo rifiutati di andare verso la
luce (cf Gv 9,39-41).
La coscienza, come giudizio ultimo concreto,
compromette la sua dignità quando è
colpevolmente erronea, ossia «quando
l'uomo non si cura di cercare la verità e il
bene, e quando la coscienza diventa quasi
cieca in seguito all'abitudine al peccato».109
Ai pericoli della deformazione della
coscienza allude Gesù, quando ammonisce: «La
lucerna del corpo è l'occhio; se dunque il
tuo occhio è chiaro, tutto il tuo corpo sarà
nella luce; ma se il tuo occhio è malato,
tutto il tuo corpo sarà tenebroso. Se dunque
la luce che è in te è tenebra, quanto grande
sarà la tua tenebra!» (Mt 6,22-23).
64. Nelle parole di Gesù sopra riferite
troviamo anche l'appello a formare la
coscienza, a renderla oggetto di
continua conversione alla verità e al bene.
Analoga è l'esortazione dell'Apostolo a non
conformarsi alla mentalità di questo mondo,
ma a trasformarsi rinnovando la propria
mente (cf Rm 12,2). È, in realtà, il
«cuore» convertito al Signore e all'amore
del bene la sorgente dei giudizi veri
della coscienza. Infatti, «per poter
discernere la volontà di Dio, ciò che è
buono, a lui gradito e perfetto» (Rm
12,2) è sì necessaria la conoscenza della
legge di Dio in generale, ma questa non è
sufficiente: è indispensabile una sorta di
«connaturalità» tra l'uomo e il vero bene.110
Una simile connaturalità si radica e si
sviluppa negli atteggiamenti virtuosi
dell'uomo stesso: la prudenza e le altre
virtù cardinali, e prima ancora le virtù
teologali della fede, della speranza e della
carità. In tal senso Gesù ha detto: «Chi
opera la verità viene alla luce» (Gv
3,21).
Un grande aiuto per la formazione
della coscienza i cristiani l'hanno nella
Chiesa e nel suo Magistero, come afferma
il Concilio: «I cristiani... nella
formazione della loro coscienza devono
considerare diligentemente la dottrina sacra
e certa della Chiesa. Infatti per volontà di
Cristo la Chiesa cattolica è maestra di
verità, e il suo compito è di annunziare e
di insegnare in modo autentico la verità che
è Cristo, e nello stesso tempo di dichiarare
e di confermare con la sua autorità i
principi dell'ordine morale che scaturiscono
dalla stessa natura umana».111
Pertanto l'autorità della Chiesa, che si
pronuncia sulle questioni morali, non
intacca in nessun modo la libertà di
coscienza dei cristiani: non solo perché la
libertà della coscienza non è mai libertà
«dalla» verità, ma sempre e solo «nella»
verità; ma anche perché il Magistero non
porta alla coscienza cristiana verità ad
essa estranee, bensì manifesta le verità che
dovrebbe già possedere sviluppandole a
partire dall'atto originario della fede. La
Chiesa si pone solo e sempre al servizio
della coscienza, aiutandola a non essere
portata qua e là da qualsiasi vento di
dottrina secondo l'inganno degli uomini (cf
Ef 4,14), a non sviarsi dalla verità
circa il bene dell'uomo, ma, specialmente
nelle questioni più difficili, a raggiungere
con sicurezza la verità e a rimanere in
essa.
|
III. La scelta fondamentale e i
componenti concreti
«Purché questa libertà non divenga
pretestoper vivere secondo la carne» (Gal
5,13)
65. L'interesse, oggi particolarmente acuto,
per la libertà induce molti cultori di
scienze sia umane che teologiche a
sviluppare un'analisi più penetrante della
sua natura e dei suoi dinamismi. Giustamente
si rileva che la libertà non è solo la
scelta per questa o per quest'altra azione
particolare; ma è anche, dentro una simile
scelta, decisione su di sé e
disposizione della propria vita pro o contro
il Bene, pro o contro la Verità, in ultima
istanza pro o contro Dio. Giustamente si
sottolinea l'importanza eminente di alcune
scelte, che danno «forma» a tutta la vita
morale di un uomo, configurandosi come
l'alveo entro cui potranno trovare spazio e
sviluppo anche altre scelte quotidiane
particolari.
Alcuni autori, tuttavia, propongono una
revisione ben più radicale del rapporto
tra persona e atti. Essi parlano di una
«libertà fondamentale», più profonda e
diversa dalla libertà di scelta, senza la
cui considerazione non si potrebbero né
comprendere né valutare correttamente gli
atti umani. Secondo tali autori, il ruolo
chiave nella vita morale sarebbe da
attribuire ad una «opzione fondamentale»,
attuata da quella libertà fondamentale
mediante la quale la persona decide
globalmente di se stessa, non attraverso una
scelta determinata e consapevole a livello
riflesso, ma in forma «trascen- dentale» e
«atematica». Gli atti particolari
derivanti da questa opzione costituirebbero
soltanto dei tentativi parziali e mai
risolutivi per esprimerla, sarebbero
solamente «segni» o sintomi di essa. Oggetto
immediato di questi atti — si dice — non è
il Bene assoluto (di fronte al quale si
esprimerebbe a livello trascendentale la
libertà della persona), ma sono i beni
particolari (detti anche «cate- goriali»).
Ora, secondo l'opinione di alcuni teologi,
nessuno di questi beni, per loro natura
parziali, potrebbe determinare la libertà
dell'uomo come persona nella sua totalità,
anche se solamente mediante la loro
realizzazione o il loro rifiuto l'uomo
potrebbe esprimere la propria opzione
fondamentale.
Si giunge così ad introdurre una
distinzione tra l'opzione fondamentale e le
scelte deliberate di un comportamento
concreto, una distinzione che in alcuni
autori assume la forma di una
dissociazione, allorché essi riservano
espressamente il «bene» e il «male» morale
alla dimensione trascendentale propria
dell'opzione fondamentale, qualificando come
«giuste» o «sbagliate» le scelte di
particolari comportamenti «intramondani»,
riguardanti cioè le relazioni dell'uomo con
se stesso, con gli altri e con il mondo
delle cose. Sembra così delinearsi
all'interno dell'agire umano una scissione
tra due livelli di moralità: l'ordine del
bene e del male, dipendente dalla volontà,
da una parte, e i comportamenti determinati,
dall'altra, i quali vengono giudicati come
moralmente giusti o sbagliati solo in
dipendenza da un calcolo tecnico della
proporzione tra beni e mali «premorali» o
«fisici», che effettivamente seguono
all'azione. E ciò fino al punto che un
comportamento concreto, anche liberamente
scelto, viene considerato come un processo
semplicemente fisico, e non secondo i
criteri propri di un atto umano. L'esito al
quale si giunge è di riservare la qualifica
propriamente morale della persona
all'opzione fondamentale, sottraendola in
tutto o in parte alla scelta degli atti
particolari, dei comportamenti concreti.
66. Non c'è dubbio che la dottrina morale
cristiana, nelle sue stesse radici bibliche,
riconosce la specifica importanza di una
scelta fondamentale che qualifica la vita
morale e che impegna la libertà a livello
radicale di fronte a Dio. Si tratta della
scelta della fede, dell'obbedienza
della fede (cf Rm 16,26), «con la
quale l'uomo si abbandona tutto a Dio
liberamente, prestando "il pieno ossequio
dell'intelletto e della volontà"«.112
Questa fede, che «opera mediante la carità»
(Gal 5,6), proviene dal centro
dell'uomo, dal suo «cuore» (cf Rm
10,10), e da qui è chiamata a fruttificare
nelle opere (cf Mt 12,33-35; Lc
6,43-45; Rm 8,5-8; Gal 5,
22). Nel Decalogo si trova, in capo ai
diversi comandamenti, la clausola
fondamentale: «Io sono il Signore, tuo
Dio...» (Es 20,2) che, imprimendo il
senso originale alle molteplici e varie
prescrizioni particolari, assicura alla
morale dell'Alleanza una fisionomia di
globalità, di unità e di profondità. La
scelta fondamentale di Israele riguarda
allora il comandamento fondamentale (cf
Gs 24,14-25; Es 19,3-8; Mic
6,8). Anche la morale della Nuova
Alleanza è dominata dall'appello
fondamentale di Gesù alla sua «sequela» —
così anche al giovane egli dice: «Se vuoi
essere perfetto... vieni e seguimi» (Mt
19,21) —: a tale appello il discepolo
risponde con una decisione e scelta
radicale. Le parabole evangeliche del tesoro
e della perla preziosa, per la quale si
vende tutto ciò che si possiede, sono
immagini eloquenti ed efficaci del carattere
radicale e incondizionato della scelta che
il Regno di Dio esige. La radicalità della
scelta di seguire Gesù è meravigliosamente
espressa nelle sue parole: «Chi vorrà
salvare la propria vita, la perderà; ma chi
perderà la propria vita per causa mia e del
vangelo, la salverà» (Mc 8,35).
L'appello di Gesù «vieni e seguimi» segna la
massima esaltazione possibile della libertà
dell'uomo e, nello stesso tempo, attesta la
verità e l'obbligazione di atti di fede e di
decisioni che si possono dire di opzione
fondamentale. Analoga esaltazione della
libertà umana troviamo nelle parole di san
Paolo: «Voi, fratelli, siete stati chiamati
a libertà» (Gal 5, 13). Ma l'Apostolo
immediatamente aggiunge un grave monito:
«Purché questa libertà non divenga un
pretesto per vivere secondo la carne». In
questo monito riecheggiano le sue precedenti
parole: «Cristo ci ha liberati perché
restassimo liberi; state dunque saldi e non
lasciatevi imporre di nuovo il giogo della
schiavitù» (Gal 5,1). L'apostolo
Paolo ci invita alla vigilanza: la libertà è
sempre insidiata dalla schiavitù. Ed è
proprio questo il caso di un atto di fede —
nel senso di un'opzione fondamentale — che
viene dissociato dalla scelta degli atti
particolari, secondo le tendenze sopra
ricordate.
67. Queste tendenze sono dunque contrarie
allo stesso insegnamento biblico che
concepisce l'opzione fondamentale come una
vera e propria scelta della libertà e
collega profondamente tale scelta con gli
atti particolari. Mediante la scelta
fondamentale l'uomo è capace di orientare la
sua vita e di tendere, con l'aiuto della
grazia, verso il suo fine, seguendo
l'appello divino. Ma questa capacità si
esercita di fatto nelle scelte particolari
di atti determinati, mediante i quali l'uomo
si conforma deliberatamente alla volontà,
alla sapienza e alla legge di Dio. Va
pertanto affermato che la cosiddetta
opzione fondamentale, nella misura in cui si
differenzia da un'intenzione generica e
quindi non ancora determinatasi in una forma
impegnativa della libertà, si attua
sempre mediante scelte consapevoli e libere.
Proprio per questo, essa viene
revocata quando l'uomo impegna la sua
libertà in scelte consapevoli di senso
contrario, relative a materia morale grave.
Separare l'opzione fondamentale dai
comportamenti concreti significa contraddire
l'integrità sostanziale o l'unità personale
dell'agente morale nel suo corpo e nella sua
anima. Un'opzione fondamentale, intesa senza
considerare esplicitamente le potenzialità
che mette in atto e le determinazioni che la
esprimono, non rende giustizia alla finalità
razionale immanente all'agire dell'uomo e a
ciascuna delle sue scelte deliberate. In
realtà, la moralità degli atti umani non si
evince solo dall'intenzione,
dall'orientazione o opzione fondamentale,
interpretata nel senso di un'intenzione
vuota di contenuti impegnativi ben
determinati o di un'intenzione alla quale
non corrisponde uno sforzo fattivo nei
diversi obblighi della vita morale. La
moralità non può essere giudicata se si
prescinde dalla conformità o dalla
contrarietà della scelta deliberata di un
comportamento concreto rispetto alla dignità
e alla vocazione integrale della persona
umana. Ogni scelta implica sempre un
riferimento della volontà deliberata ai beni
e ai mali, indicati dalla legge naturale
come beni da perseguire e mali da evitare.
Nel caso dei precetti morali positivi, la
prudenza ha sempre il compito di verificarne
la pertinenza in una determinata situazione,
per esempio tenendo conto di altri doveri
forse più importanti o urgenti. Ma i
precetti morali negativi, cioè quelli che
proibiscono alcuni atti o comportamenti
concreti come intrinsecamente cattivi, non
ammettono alcuna legittima eccezione; essi
non lasciano alcuno spazio moralmente
accettabile per la «creatività» di una
qualche determinazione contraria. Una volta
riconosciuta in concreto la specie morale di
un'azione proibita da una regola universale,
il solo atto moralmente buono è quello di
obbedire alla legge morale e di astenersi
dall'azione che essa proibisce.
68. Occorre aggiungere una importante
considerazione pastorale. Nella logica delle
posizioni sopra accennate, l'uomo potrebbe,
in virtù di un'opzione fondamentale, restare
fedele a Dio, indipendentemente dalla
conformità o meno di alcune sue scelte e dei
suoi atti determinati alle norme o regole
morali specifiche. In ragione di un'opzione
originaria per la carità, l'uomo potrebbe
mantenersi moralmente buono, perseverare
nella grazia di Dio, raggiungere la propria
salvezza, anche se alcuni dei suoi
comportamenti concreti fossero
deliberatamente e gravemente contrari ai
comandamenti di Dio, riproposti dalla
Chiesa.
In realtà, l'uomo non si perde solo per
l'infedeltà a quella opzione fondamentale,
mediante la quale si è consegnato «tutto a
Dio liberamente».113
Egli, con ogni peccato mortale commesso
deliberatamente, offende Dio che ha donato
la legge e pertanto si rende colpevole verso
tutta la legge (cf Gc 2,8-11); pur
conservandosi nella fede, egli perde la
«grazia santificante», la «carità» e la
«beatitudine eterna».114
«La grazia della giustificazione — insegna
il Concilio di Trento —, una volta ricevuta,
può essere perduta non solo per l'infedeltà,
che fa perdere la stessa fede, ma anche per
qualsiasi altro peccato mortale».115
|
Peccato mortale e veniale
69. Le considerazioni intorno all'opzione
fondamentale hanno indotto, come abbiamo ora
notato, alcuni teologi a sottoporre a
profonda revisione anche la distinzione
tradizionale tra i peccati mortali e
i peccati veniali. Essi sottolineano
che l'opposizione alla legge di Dio, che
causa la perdita della grazia santificante —
e, nel caso di morte in un simile stato di
peccato, l'eterna condanna —, può essere
soltanto il frutto di un atto che coinvolge
la persona nella sua totalità, cioè un atto
di opzione fondamentale. Secondo questi
teologi il peccato mortale, che separa
l'uomo da Dio, si verificherebbe soltanto
nel rifiuto di Dio, compiuto ad un livello
della libertà non identificabile con un atto
di scelta né attingibile con consapevolezza
riflessa. In questo senso — aggiungono — è
difficile, almeno psicologicamente,
accettare il fatto che un cristiano, che
vuole rimanere unito a Gesù Cristo e alla
sua Chiesa, possa così facilmente e
ripetutamente commettere peccati mortali,
come indicherebbe, a volte, la «materia»
stessa dei suoi atti. Parimenti sarebbe
difficile accettare che l'uomo sia capace,
in un breve lasso di tempo, di spezzare
radicalmente il legame di comunione con Dio
e, successivamente, di convertirsi a lui
mediante la sincera penitenza. Occorre
dunque — si dice — misurare la gravità del
peccato piuttosto dal grado di impegno della
libertà della persona che compie un atto che
non dalla materia di tale atto.
70. L'Esortazione apostolica post-sinodale
Reconciliatio et paenitentia ha
ribadito l'importanza e la permanente
attualità della distinzione tra peccati
mortali e veniali, secondo la tradizione
della Chiesa. E il Sinodo dei Vescovi del
1983, da cui è scaturita tale Esortazione,
«non soltanto ha riaffermato quanto è stato
proclamato dal Concilio Tridentino
sull'esistenza e la natura dei peccati
mortali e veniali, ma ha voluto
ricordare che è peccato mortale
quello che ha per oggetto una materia grave
e che, inoltre, viene commesso con piena
consapevolezza e deliberato consenso».116
Il pronunciamento del Concilio di Trento non
considera soltanto la «materia grave» del
peccato mortale, ma ricorda anche, come sua
necessaria condizione, «la piena avvertenza
e il deliberato consenso». Del resto, sia
nella teologia morale che nella pratica
pastorale, sono ben conosciuti i casi nei
quali un atto grave, a motivo della sua
materia, non costituisce peccato mortale a
motivo della non piena avvertenza o del non
deliberato consenso di colui che lo compie.
D'altra parte, «si dovrà evitare di ridurre
il peccato mortale ad un atto di "opzione
fondamentale" — come oggi si suol dire —
contro Dio», concepito sia come esplicito e
formale disprezzo di Dio e del prossimo sia
come implicito e non riflesso rifiuto
dell'amore. «Si ha, infatti, peccato mortale
anche quando l'uomo, sapendo e volendo, per
qualsiasi ragione sceglie qualcosa di
gravemente disordinato. In effetti, in una
tale scelta è già contenuto un disprezzo del
precetto divino, un rifiuto dell'amore di
Dio verso l'umanità e tutta la creazione:
l'uomo allontana se stesso da Dio e perde la
carità. L'orientamento fondamentale,
quindi, può essere radicalmente
modificato da atti particolari. Senza
dubbio si possono dare situazioni molto
complesse e oscure sotto l'aspetto
psicologico, che influiscono sulla
imputabilità soggettiva del peccatore. Ma
dalla considerazione della sfera psicologica
non si può passare alla costituzione di una
categoria teologica, quale appunto l'
"opzione fondamentale", intendendola in modo
tale che, sul piano oggettivo, cambi o metta
in dubbio la concezione tradizionale di
peccato mortale».117
In tal modo la dissociazione tra opzione
fondamentale e scelte deliberate di
comportamenti determinati — disordinati in
se stessi o nelle circostanze — che non la
metterebbero in causa, comporta il
misconoscimento della dottrina cattolica sul
peccato mortale: «Con tutta la tradizione
della Chiesa noi chiamiamo peccato
mortale questo atto, per il quale un
uomo, con libertà e consapevolezza, rifiuta
Dio, la sua legge, l'alleanza di amore che
Dio gli propone, preferendo volgersi a se
stesso, a qualche realtà creata e finita, a
qualcosa di contrario al volere divino (conversio
ad creaturam). Il che può avvenire in
modo diretto e formale, come nei peccati di
idolatria, di apostasia, di ateismo; o in
modo equivalente, come in tutte le
disubbidienze ai comandamenti di Dio in
materia grave».118
|
IV. L'atto morale
Teleologia e teleologismo
71. Il rapporto tra la libertà dell'uomo e
la legge di Dio, che trova la sua sede
intima e viva nella coscienza morale, si
manifesta e si realizza negli atti umani.
È proprio mediante i suoi atti che
l'uomo si perfeziona come uomo, come uomo
chiamato a cercare spontaneamente il suo
Creatore e a giungere liberamente, con
l'adesione a lui, alla piena e beata
perfezione.119
Gli atti umani sono atti morali,
perché esprimono e decidono della bontà o
malizia dell'uomo stesso che compie quegli
atti.120
Essi non producono solo un mutamento dello
stato di cose esterne all'uomo, ma, in
quanto scelte deliberate, qualificano
moralmente la persona stessa che li compie e
ne determinano la fisionomia spirituale
profonda, come rileva suggestivamente
san Gregorio Nisseno: «Tutti gli esseri
soggetti al divenire non restano mai
identici a se stessi, ma passano
continuamente da uno stato ad un altro
mediante un cambiamento che opera sempre, in
bene o in male... Ora, essere soggetto a
cambiamento è nascere continuamente... Ma
qui la nascita non avviene per un intervento
estraneo, com'è il caso degli esseri
corporei... Essa è il risultato di una
scelta libera e noi siamo così, in
certo modo, i nostri stessi genitori,
creandoci come vogliamo, e con la nostra
scelta dandoci la forma che vogliamo».121
72. La moralità degli atti è definita
dal rapporto della libertà dell'uomo col
bene autentico. Tale bene è stabilito, come
legge eterna, dalla Sapienza di Dio che
ordina ogni essere al suo fine: questa legge
eterna è conosciuta tanto attraverso la
ragione naturale dell'uomo (e così è «legge
naturale»), quanto — in modo integrale e
perfetto — attraverso la rivelazione
soprannaturale di Dio (e così è chiamata
«legge divina»). L'agire è moralmente buono
quando le scelte della libertà sono
conformi al vero bene dell'uomo ed
esprimono così l'ordinazione volontaria
della persona verso il suo fine ultimo, cioè
Dio stesso: il bene supremo nel quale l'uomo
trova la sua piena e perfetta felicità. La
domanda iniziale del colloquio del giovane
con Gesù: «Che cosa devo fare di buono per
ottenere la vita eterna?» (Mt 19,16)
mette immediatamente in luce l'essenziale
legame tra il valore morale di un atto e il
fine ultimo dell'uomo. Gesù, nella sua
risposta, conferma la convinzione del suo
interlocutore: il compimento di atti buoni,
comandati da Colui che «solo è buono»,
costituisce la condizione indispensabile e
la via per la beatitudine eterna: «Se vuoi
entrare nella vita, osserva i comandamenti»
(Mt 19,17). La risposta di Gesù e il
rimando ai comandamenti manifestano anche
che la via al fine è segnata dal rispetto
delle leggi divine che tutelano il bene
umano. Solo l'atto conforme al bene può
essere via che conduce alla vita.
L'ordinazione razionale dell'atto umano al
bene nella sua verità e il perseguimento
volontario di questo bene, conosciuto dalla
ragione, costituiscono la moralità.
Pertanto, l'agire umano non può essere
valutato moralmente buono solo perché
funzionale a raggiungere questo o quello
scopo, che persegue, o semplicemente perché
l'intenzione del soggetto è buona.122
L'agire è moralmente buono quando attesta ed
esprime l'ordinazione volontaria della
persona al fine ultimo e la conformità
dell'azione concreta con il bene umano come
viene riconosciuto nella sua verità dalla
ragione. Se l'oggetto dell'azione concreta
non è in sintonia con il bene vero della
persona, la scelta di tale azione rende la
nostra volontà e noi stessi moralmente
cattivi e, quindi, ci mette in contrasto con
il nostro fine ultimo, il bene supremo, cioè
Dio stesso.
73. Il cristiano, grazie alla rivelazione di
Dio e alla fede, conosce la «novità» da cui
è segnata la moralità dei suoi atti; questi
sono chiamati ad esprimere la coerenza o
meno con quella dignità e vocazione che gli
sono state donate dalla grazia: in Gesù
Cristo e nel suo Spirito, il cristiano è
«creatura nuova», figlio di Dio, e mediante
i suoi atti manifesta la sua conformità o
difformità con l'immagine del Figlio che è
il primogenito tra molti fratelli (cf Rm
8,29), vive la sua fedeltà o infedeltà
al dono dello Spirito e si apre o si chiude
alla vita eterna, alla comunione di visione,
di amore e di beatitudine con Dio Padre,
Figlio e Spirito Santo.123
Cristo «ci forma secondo la sua immagine —
scrive san Cirillo Alessandrino —, in modo
che i lineamenti della sua divina natura
risplendano in noi attraverso la
santificazione e la giustizia e la vita
buona e conforme a virtù... La bellezza di
questa immagine risplende in noi che siamo
in Cristo, quando ci mostriamo uomini buoni
nelle opere».124
In questo senso la vita morale possiede un
essenziale carattere «teleologico»,
perché consiste nella deliberata ordinazione
degli atti umani a Dio, sommo bene e fine (telos)
ultimo dell'uomo. Lo attesta, ancora una
volta, la domanda del giovane a Gesù: «Che
cosa devo fare di buono per ottenere la vita
eterna?». Ma questa ordinazione al fine
ultimo non è una dimensione soggettivistica
che dipende solo dall'intenzione. Essa
presuppone che tali atti siano in se stessi
ordinabili a questo fine, in quanto conformi
all'autentico bene morale dell'uomo,
tutelato dai comandamenti. È ciò che ricorda
Gesù stesso nella risposta al giovane: «Se
vuoi entrare nella vita, osserva i
comandamenti» (Mt 19,17).
Evidentemente dev'essere un'ordinazione
razionale e libera, cosciente e deliberata,
in forza della quale l'uomo è «responsabile»
dei suoi atti ed è soggetto al giudizio di
Dio, giudice giusto e buono che premia il
bene e castiga il male, come ci ricorda
l'apostolo Paolo: «Tutti infatti dobbiamo
comparire davanti al tribunale di Cristo,
ciascuno per ricevere la ricompensa delle
opere compiute finché era nel corpo, sia in
bene che in male» (2 Cor 5,10).
74. Ma da che cosa dipende la qualificazione
morale dell'agire libero dell'uomo? Da che
cosa è assicurata questa ordinazione a
Dio degli atti umani? Dall'intenzione
del soggetto che agisce, dalle
circostanze — e in particolare dalle
conseguenze — del suo agire, dall'oggetto
stesso del suo atto?
È questo il problema tradizionalmente
chiamato delle «fonti della moralità».
Proprio a riguardo di tale problema, in
questi decenni si sono manifestate nuove — o
ripristinate — tendenze culturali e
teologiche che esigono un accurato
discernimento da parte del Magistero della
Chiesa.
Alcune teorie etiche, denominate
«teleologiche», si presentano attente
alla conformità degli atti umani con i fini
perseguiti dall'agente e con i valori da lui
intesi. I criteri per valutare la giustezza
morale di un'azione sono ricavati dalla
ponderazione dei beni non-morali o
pre-morali da conseguire e dei
rispettivi valori non-morali o pre-morali da
rispettare. Per taluni il comportamento
concreto sarebbe giusto, o sbagliato, a
seconda che possa, o non possa, produrre uno
stato di cose migliore per tutte le persone
interessate: sarebbe giusto il comportamento
in grado di «massimizzare» i beni e di
«minimizzare» i mali.
Molti dei moralisti cattolici, che seguono
questo orientamento, intendono prendere le
distanze dall'utilitarismo e dal
pragmatismo, per cui la moralità degli atti
umani sarebbe giudicata senza far
riferimento al vero fine ultimo dell'uomo.
Essi giustamente si rendono conto della
necessità di trovare argomentazioni
razionali, sempre più consistenti, per
giustificare le esigenze e fondare le norme
della vita morale. E tale ricerca è
legittima e necessaria, dal momento che
l'ordine morale, stabilito dalla legge
naturale, è in linea di principio
accessibile alla ragione umana. È ricerca,
del resto, che corrisponde alle esigenze del
dialogo e della collaborazione con i
non-cattolici e i non-credenti,
particolarmente nelle società pluralistiche.
75. Ma all'interno dello sforzo di elaborare
una simile morale razionale — talvolta
chiamata a questo titolo «morale autonoma»
—, esistono false soluzioni, legate in
particolare ad una inadeguata comprensione
dell'oggetto dell'agire morale. Alcuni
non tengono in sufficiente considerazione il
fatto che la volontà è coinvolta nelle
scelte concrete che essa opera: queste sono
condizione della sua bontà morale e della
sua ordinazione al fine ultimo della
persona. Altri poi si ispirano ad una
concezione della libertà che prescinde dalle
condizioni effettive del suo esercizio, dal
suo riferimento oggettivo alla verità sul
bene, dalla sua determinazione mediante
scelte di comportamenti concreti. Così,
secondo queste teorie, la volontà libera non
sarebbe né moralmente sottomessa a
obbligazioni determinate, né informata dalle
sue scelte, pur rimanendo responsabile dei
propri atti e delle loro conseguenze. Questo
«teleologismo», come metodo di
rinvenimento della norma morale, può allora
— secondo terminologie e approcci mutuati da
differenti correnti di pensiero — chiamarsi
«consequenzialismo» o
«proporzionalismo». Il primo pretende di
ricavare i criteri della giustezza di un
determinato agire solo dal calcolo delle
conseguenze che si prevedono derivare
dall'esecuzione di una scelta. Il secondo,
ponderando tra loro valori e beni
perseguiti, si focalizza piuttosto sulla
proporzione riconosciuta tra gli effetti
buoni e cattivi, in vista del «più grande
bene» o del «minor male» effettivamente
possibili in una situazione particolare.
Le teorie etiche teleologiche
(proporzionalismo, consequenzialismo),
pur riconoscendo che i valori morali sono
indicati dalla ragione e dalla Rivelazione,
ritengono che non si possa mai formulare una
proibizione assoluta di determinati
comportamenti, che sarebbero contrastanti,
in ogni circostanza e in ogni cultura, con
quei valori. Il soggetto che agisce sarebbe
sì responsabile del raggiungimento dei
valori perseguiti, ma secondo un duplice
aspetto: infatti, i valori o beni coinvolti
in un atto umano sarebbero, per un aspetto,
di ordine morale (in rapporto a
valori propriamente morali, come l'amore di
Dio, la benevolenza verso il prossimo, la
giustizia, ecc.) e, per un altro aspetto,
di ordine pre-morale, detto anche
non-morale o fisico o ontico (in rapporto ai
vantaggi e svantaggi recati sia a colui che
agisce che ad altre persone, prima o poi
coinvolte, come, ad esempio, la salute o la
sua lesione, l'integrità fisica, la vita, la
morte, la perdita di beni materiali, ecc.).
In un mondo in cui il bene sarebbe sempre
mescolato al male ed ogni effetto buono
legato ad altri effetti cattivi, la moralità
dell'atto si giudicherebbe in modo
differenziato: la sua «bontà» morale sulla
base dell'intenzione del soggetto riferita
ai beni morali e la sua «giustezza» sulla
base della considerazione degli effetti o
conseguenze prevedibili e della loro
proporzione. Di conseguenza, i comportamenti
concreti sarebbero da qualificarsi come
«giusti» o «sbagliati», senza che per questo
sia possibile valutare come moralmente
«buona» o «cattiva» la volontà della persona
che li sceglie. In questo modo, un atto, che
ponendosi in contraddizione con una norma
universale negativa viola direttamente beni
considerati come pre-morali, potrebbe essere
qualificato come moralmente ammissibile, se
l'intenzione del soggetto si concentra,
secondo una «responsabile» ponderazione dei
beni coinvolti nell'azione concreta, sul
valore morale giudicato decisivo nella
circostanza.
La valutazione delle conseguenze
dell'azione, in base alla proporzione
dell'atto con i suoi effetti e degli effetti
tra di loro, riguarderebbe l'ordine solo
pre-morale. Sulla specificità morale degli
atti, ossia sulla loro bontà o malizia,
deciderebbe esclusivamente la fedeltà della
persona ai valori più alti della carità e
della prudenza, senza che questa fedeltà sia
necessariamente incompatibile con scelte
contrarie a certi precetti morali
particolari. Anche in materia grave, questi
ultimi dovrebbero essere considerati come
norme operative sempre relative e
suscettibili di eccezioni.
In questa prospettiva il consenso deliberato
a certi comportamenti dichiarati illeciti
dalla morale tradizionale non implicherebbe
una malizia morale oggettiva.
|
L'oggetto dell'atto deliberato
76. Queste teorie possono acquistare una
certa forza persuasiva dalla loro affinità
con la mentalità scientifica, giustamente
preoccupata di ordinare le attività tecniche
ed economiche in base al calcolo delle
risorse e dei profitti, dei procedimenti e
degli effetti. Esse vogliono liberare dalle
costrizioni di una morale dell'obbligazione,
volontarista e arbitraria, che si
rivelerebbe disumana.
Siffatte teorie non sono però fedeli alla
dottrina della Chiesa, allorché credono di
poter giustificare, come moralmente buone,
scelte deliberate di comportamenti contrari
ai comandamenti della legge divina e
naturale. Queste teorie non possono
richiamarsi alla tradizione morale
cattolica: se è vero che in quest'ultima si
è sviluppata una casistica attenta a
ponderare in alcune situazioni concrete le
possibilità maggiori di bene, è altrettanto
vero che ciò riguardava solo i casi in cui
la legge era incerta e, pertanto, non
metteva in discussione la validità assoluta
dei precetti morali negativi che obbliga
senza eccezione. I fedeli sono tenuti a
riconoscere e a rispettare i precetti morali
specifici, dichiarati e insegnati dalla
Chiesa in nome di Dio, Creatore e Signore.125
Quando l'apostolo Paolo ricapitola nel
precetto di amare il prossimo come se stessi
il compimento della legge (cf Rm
13,8-10), non attenua i comandamenti, ma
piuttosto li conferma, dal momento che ne
rivela le esigenze e la gravità. L'amore
di Dio e l'amore del prossimo sono
inseparabili dall'osservanza dei
comandamenti dell'Alleanza, rinnovata
nel sangue di Gesù Cristo e nel dono dello
Spirito. È onore proprio dei cristiani
obbedire a Dio piuttosto che agli uomini (cf
At 4,19; 5,29) ed accettare per
questo anche il martirio, come hanno fatto i
santi e le sante dell'Antico e del Nuovo
Testamento, riconosciuti tali per aver dato
la loro vita piuttosto che compiere questo o
quel gesto particolare contrario alla fede o
alla virtù.
77. Per offrire i criteri razionali di una
giusta decisione morale, le accennate teorie
tengono conto dell'intenzione e delle
conseguenze dell'azione umana. Sono
certamente da prendere in grande
considerazione sia l'intenzione — come
insiste con una forza particolare Gesù in
aperta contrapposizione agli scribi e
farisei, che minuziosamente prescrivevano
certe opere esteriori senza badare al cuore
(cf Mc 7,20-21; Mt 15,19) —,
sia i beni ottenuti e i mali evitati, a
seguito di un atto particolare. Si tratta di
un'esigenza di responsabilità. Ma la
considerazione di queste conseguenze —
nonché delle intenzioni — non è sufficiente
a valutare la qualità morale di una scelta
concreta. La ponderazione dei beni e dei
mali, prevedibili in conseguenza di
un'azione, non è un metodo adeguato per
determinare se la scelta di quel
comportamento concreto è «secondo la sua
specie», o «in se stessa», moralmente buona
o cattiva, lecita o illecita. Le conseguenze
prevedibili appartengono a quelle
circostanze dell'atto, che, se possono
modificare la gravità di un atto cattivo,
non possono però cambiarne la specie morale.
Ciascuno, del resto, conosce le difficoltà —
o meglio l'impossibilità — di valutare tutte
le conseguenze e tutti gli effetti buoni o
cattivi — definiti pre-morali — dei propri
atti: un calcolo razionale esaustivo non è
possibile. Come fare allora per stabilire
delle proporzioni che dipendono da una
valutazione, i cui criteri restano oscuri?
In che modo potrebbe giustificarsi un
obbligo assoluto su calcoli tanto
discutibili?
78. La moralità dell'atto umano dipende
anzitutto e fondamentalmente dall'oggetto
ragionevolmente scelto dalla volontà
deliberata, come prova anche la
penetrante analisi, tuttora valida, di san
Tommaso.126
Per poter cogliere l'oggetto di un atto che
lo specifica moralmente occorre quindi
collocarsi nella prospettiva della
persona che agisce. Infatti, l'oggetto
dell'atto del volere è un comportamento
liberamente scelto. In quanto conforme
all'ordine della ragione, esso è causa della
bontà della volontà, ci perfeziona
moralmente e ci dispone a riconoscere il
nostro fine ultimo nel bene perfetto,
l'amore originario. Per oggetto di un
determinato atto morale non si può, dunque,
intendere un processo o un evento di ordine
solamente fisico, da valutare in quanto
provoca un determinato stato di cose nel
mondo esteriore. Esso è il fine prossimo di
una scelta deliberata, che determina l'atto
del volere della persona che agisce. In tal
senso, come insegna il Catechismo della
Chiesa Cattolica, «vi sono comportamenti
concreti che è sempre sbagliato scegliere,
perché la loro scelta comporta un disordine
della volontà, cioè un male morale».127
«Spesso infatti — scrive l'Aquinate —
qualcuno agisce con buona intenzione, ma
inutilmente, in quanto manca la buona
volontà: come nel caso di uno che rubi per
nutrire un povero, c'è sì la retta
intenzione, manca tuttavia la rettitudine
della debita volontà. Di conseguenza, nessun
male compiuto con buona intenzione può
essere scusato: "Come coloro che dicono:
Facciamo il male perché venga il bene; la
condanna dei quali è giusta" (Rm
3,8)».128
La ragione per cui non basta la buona
intenzione ma occorre anche la retta scelta
delle opere, sta nel fatto che l'atto umano
dipende dal suo oggetto, ossia se questo è
ordinabile o meno a Dio, a Colui che
«solo è buono», e così realizza la
perfezione della persona. L'atto è buono,
quindi, se il suo oggetto è conforme al bene
della persona nel rispetto dei beni per essa
moralmente rilevanti. L'etica cristiana, che
privilegia l'attenzione all'oggetto morale,
non rifiuta di considerare l'interiore
«teleologia» dell'agire, in quanto volto a
promuovere il vero bene della persona, ma
riconosce che esso viene realmente
perseguito solo quando si rispettano gli
elementi essenziali della natura umana.
L'atto umano, buono secondo il suo oggetto,
è anche ordinabile al fine ultimo. Lo
stesso atto raggiunge poi la sua perfezione
ultima e decisiva quando la volontà lo
ordina effettivamente a Dio mediante la
carità. In tal senso, il Patrono dei
moralisti e dei confessori insegna: «Non
basta fare opere buone, ma bisogna farle
bene. Acciocché le opere nostre siano buone
e perfette, è necessario farle col puro fine
di piacere a Dio».129
|
Il «male intrinseco»: non è lecito
fare il male a scopo di bene (cf Rm
3,8)
79. È da respingere quindi la tesi,
propria delle teorie teleologiche e
proporzionaliste, secondo cui sarebbe
impossibile qualificare come moralmente
cattiva secondo la sua specie — il suo
«oggetto» — la scelta deliberata di
alcuni comportamenti o atti determinati
prescindendo dall'intenzione per cui la
scelta viene fatta o dalla totalità delle
conseguenze prevedibili di quell'atto per
tutte le persone interessate.
L'elemento primario e decisivo per il
giudizio morale è l'oggetto dell'atto umano,
il quale decide sulla sua ordinabilità al
bene e al fine ultimo, che è Dio. Tale
ordinabilità viene colta dalla ragione
nell'essere stesso dell'uomo, considerato
nella sua verità integrale, dunque nelle sue
inclinazioni naturali, nei suoi dinamismi e
nelle sue finalità che hanno sempre anche
una dimensione spirituale: sono esattamente
questi i contenuti della legge naturale, e
quindi il complesso ordinato dei «beni per
la persona» che si pongono al servizio del
«bene della persona», di quel bene che è
essa stessa e la sua perfezione. Sono questi
i beni tutelati dai comandamenti, i quali,
secondo san Tommaso, contengono tutta la
legge naturale.130
80. Ora la ragione attesta che si danno
degli oggetti dell'atto umano che si
configurano come «non-ordinabili» a Dio,
perché contraddicono radicalmente il bene
della persona, fatta a sua immagine. Sono
gli atti che, nella tradizione morale della
Chiesa, sono stati denominati
«intrinsecamente cattivi» (intrinsece
malum): lo sono sempre e per sé, ossia
per il loro stesso oggetto,
indipendentemente dalle ulteriori intenzioni
di chi agisce e dalle circostanze. Per
questo, senza minimamente negare l'influsso
che sulla moralità hanno le circostanze e
soprattutto le intenzioni, la Chiesa insegna
che «esistono atti che, per se stessi e in
se stessi, indipendentemente dalle
circostanze, sono sempre gravemente
illeciti, in ragione del loro oggetto».131
Lo stesso Concilio Vaticano II, nel contesto
del dovuto rispetto della persona umana,
offre un'ampia esemplificazione di tali
atti: «Tutto ciò che è contro la vita
stessa, come ogni specie di omicidio, il
genocidio, l'aborto, l'eutanasia e lo stesso
suicidio volontario; tutto ciò che viola
l'integrità della persona umana, come le
mutilazioni, le torture inflitte al corpo e
alla mente, gli sforzi per violentare
l'intimo dello spirito; tutto ciò che
offende la dignità umana, come le condizioni
infraumane di vita, le incarcerazioni
arbitrarie, le deportazioni, la schiavitù,
la prostituzione, il mercato delle donne e
dei giovani, o ancora le ignominiose
condizioni del lavoro con le quali i
lavoratori sono trattati come semplici
strumenti di guadagno, e non come persone
libere e responsabili; tutte queste cose, e
altre simili, sono certamente vergognose e,
mentre guastano la civiltà umana, ancor più
inquinano coloro che così si comportano, che
non quelli che le subiscono, e ledono
grandemente l'onore del Creatore».132
Sugli atti intrinsecamente cattivi, e in
riferimento alle pratiche contraccettive
mediante le quali l'atto coniugale è reso
intenzionalmente infecondo, Paolo VI
insegna: «In verità, se è lecito, talvolta,
tollerare un minor male morale al fine di
evitare un male maggiore o di promuovere un
bene più grande, non è lecito, neppure per
ragioni gravissime, fare il male, affinché
ne venga il bene (cf Rm 3,8), cioè
fare oggetto di un atto positivo di volontà
ciò che è intrinsecamente disordine e quindi
indegno della persona umana, anche se
nell'intento di salvaguardare o promuovere
beni individuali, familiari o sociali».133
81. Insegnando l'esistenza di atti
intrinsecamente cattivi, la Chiesa accoglie
la dottrina della Sacra Scrittura.
L'apostolo Paolo afferma in modo categorico:
«Non illudetevi: né immorali, né idolatri,
né adulteri, né effeminati, né sodomiti, né
ladri, né ubriaconi, né maldicenti, né
rapaci erediteranno il Regno di Dio» (1
Cor 6,9-10).
Se gli atti sono intrinsecamente cattivi,
un'intenzione buona o circostanze
particolari possono attenuarne la malizia,
ma non possono sopprimerla: sono atti
«irrimediabilmente» cattivi, per se stessi e
in se stessi non sono ordinabili a Dio e al
bene della persona: «Quanto agli atti che
sono per se stessi dei peccati (cum iam
opera ipsa peccata sunt) — scrive
sant'Agostino —, come il furto, la
fornicazione, la bestemmia, o altri atti
simili, chi oserebbe affermare che,
compiendoli per buoni motivi (causis
bonis), non sarebbero più peccati o,
conclusione ancora più assurda, che
sarebbero peccati giustificati?».134
Per questo, le circostanze o le intenzioni
non potranno mai trasformare un atto
intrinsecamente disonesto per il suo oggetto
in un atto «soggettivamente» onesto o
difendibile come scelta.
82. Del resto, l'intenzione è buona quando
mira al vero bene della persona in vista del
suo fine ultimo. Ma gli atti, il cui oggetto
è «non-ordinabile» a Dio e «indegno della
persona umana», si oppongono sempre e in
ogni caso a questo bene. In tal senso il
rispetto delle norme che proibiscono tali
atti e che obbligano semper et pro
semper, ossia senza alcuna eccezione,
non solo non limita la buona intenzione, ma
costituisce addirittura la sua espressione
fondamentale.
La dottrina dell'oggetto, quale fonte della
moralità, costituisce un'esplicitazione
autentica della morale biblica dell'Alleanza
e dei comandamenti, della carità e delle
virtù. La qualità morale dell'agire umano
dipende da questa fedeltà ai comandamenti,
espressione di obbedienza e di amore. È per
questo — lo ripetiamo — che è da respingere
come erronea l'opinione che ritiene
impossibile qualificare moralmente come
cattiva secondo la sua specie la scelta
deliberata di alcuni comportamenti o atti
determinati, prescindendo dall'intenzione
per cui la scelta viene fatta o dalla
totalità delle conseguenze prevedibili di
quell'atto per tutte le persone interessate.
Senza questa determinazione razionale
della moralità dell'agire umano, sarebbe
impossibile affermare un «ordine morale
oggettivo»
135
e stabilire una qualsiasi norma determinata
dal punto di vista del contenuto, che
obblighi senza eccezioni; e ciò a scapito
della fraternità umana e della verità sul
bene, e a detrimento altresì della comunione
ecclesiale.
83. Come si vede, nella questione della
moralità degli atti umani, e in particolare
in quella dell'esistenza degli atti
intrinsecamente cattivi, si concentra in un
certo senso la questione stessa
dell'uomo, della sua verità e
delle conseguenze morali che ne derivano.
Riconoscendo e insegnando l'esistenza del
male intrinseco in determinati atti umani,
la Chiesa rimane fedele alla verità
integrale dell'uomo, e quindi lo rispetta e
lo promuove nella sua dignità e vocazione.
Essa, di conseguenza, deve respingere le
teorie sopra esposte che si pongono in
contrasto con questa verità.
Bisogna però che noi, Fratelli
nell'Episcopato, non ci fermiamo solo ad
ammonire i fedeli circa gli errori e i
pericoli di alcune teorie etiche. Dobbiamo,
prima di tutto, mostrare l'affascinante
splendore di quella verità che è Gesù Cristo
stesso. In Lui, che è la Verità (cf Gv
14,6), l'uomo può comprendere pienamente
e vivere perfettamente, mediante gli atti
buoni, la sua vocazione alla libertà
nell'obbedienza alla legge divina, che si
compendia nel comandamento dell'amore di Dio
e del prossimo. Ed è quanto avviene con il
dono dello Spirito Santo, Spirito di verità,
di libertà e di amore: in Lui ci è dato di
interiorizzare la legge e di percepirla e
viverla come il dinamismo della vera libertà
personale: «la legge perfetta, la legge
della libertà» (Gc 1,25).
|
III - «Perché non venga resa vana la
Croce di Cristo» (1 Cor 1,17) -
Il bene morale per la vita della chiesa e
del mondo
«Cristo ci ha liberati perché
restassimo liberi» (Gal 5,1)
84. La questione fondamentale che le
teorie morali sopra ricordate pongono con
particolare forza è quella del rapporto tra
la libertà dell'uomo e la legge di Dio,
ultimamente è la questione del rapporto
tra la libertà e la verità.
Secondo la fede cristiana e la dottrina
della Chiesa, «solamente la libertà che si
sottomette alla Verità conduce la persona
umana al suo vero bene. Il bene della
persona è di essere nella Verità e di
fare la Verità».136
Il confronto tra la posizione della Chiesa e
la situazione sociale e culturale d'oggi
mette immediatamente in luce l'urgenza che
proprio su tale questione fondamentale
si sviluppi un'intensa opera
pastorale da parte della Chiesa stessa:
«Questo essenziale legame di
Verità-Bene-Libertà è stato smarrito in
larga parte dalla cultura contemporanea e,
pertanto, ricondurre l'uomo a riscoprirlo è
oggi una delle esigenze proprie della
missione della Chiesa, per la salvezza del
mondo. La domanda di Pilato: "Che cosa è la
verità?" emerge anche dalla sconsolata
perplessità di un uomo che spesso non sa più
chi è, donde viene e dove va.
E così assistiamo non di rado al pauroso
precipitare della persona umana in
situazioni di autodistruzione progressiva. A
voler ascoltare certe voci, sembra di non
doversi più riconoscere l'indistruttibile
assolutezza di alcun valore morale. Sono
sotto gli occhi di tutti il disprezzo della
vita umana già concepita e non ancora nata;
la violazione permanente di fondamentali
diritti della persona; l'iniqua distruzione
dei beni necessari per una vita
semplicemente umana. Anzi, qualcosa di più
grave è accaduto: l'uomo non è più convinto
che solo nella verità può trovare la
salvezza. La forza salvifica del vero è
contestata, affidando alla sola libertà,
sradicata da ogni obiettività, il compito di
decidere autonomamente ciò che è bene e ciò
che è male. Questo relativismo diviene, nel
campo teologico, sfiducia nella sapienza di
Dio, che guida l'uomo con la legge morale. A
ciò che la legge morale prescrive si
contrappongono le cosiddette situazioni
concrete, non ritenendo più, in fondo, che
la legge di Dio sia sempre l'unico
vero bene dell'uomo».137
85. L'opera di discernimento di queste
teorie etiche da parte della Chiesa non si
restringe alla loro denuncia e al loro
rifiuto, ma mira positivamente a sostenere
con grande amore tutti i fedeli nella
formazione d'una coscienza morale che
giudichi e conduca a decisioni secondo
verità, come esorta l'apostolo Paolo: «Non
conformatevi alla mentalità di questo
secolo, ma trasformatevi rinnovando la
vostra mente, per poter discernere la
volontà di Dio, ciò che è buono, a lui
gradito e perfetto» (Rm 12, 2).
Quest'opera della Chiesa trova il suo punto
di forza — il suo «segreto» formativo — non
tanto negli enunciati dottrinali e negli
appelli pastorali alla vigilanza, quanto nel
tenere lo sguardo fisso sul Signore Gesù.
La Chiesa ogni giorno guarda con
instancabile amore a Cristo, pienamente
consapevole che solo in lui sta la risposta
vera e definitiva al problema morale.
In particolare, in Gesù crocifisso
essa trova la risposta alla questione
che tormenta oggi tanti uomini: come può
l'obbedienza alle norme morali universali e
immutabili rispettare l'unicità e
l'irripetibilità della persona e non
attentare alla sua libertà e dignità? La
Chiesa fa sua la coscienza che l'apostolo
Paolo aveva della missione ricevuta:
«Cristo... mi ha mandato... a predicare il
vangelo; non però con un discorso sapiente,
perché non venga resa vana la croce di
Cristo... Noi predichiamo Cristo crocifisso,
scandalo per i Giudei, stoltezza per i
pagani; ma per coloro che sono chiamati, sia
Giudei che Greci, predichiamo Cristo potenza
di Dio e sapienza di Dio» (1 Cor
1,17.23-24).Cristo crocifisso rivela il
senso autentico della libertà, lo vive in
pienezza nel dono totale di sé e chiama
i discepoli a prendere parte alla sua stessa
libertà.
86. La riflessione razionale e l'esperienza
quotidiana dimostrano la debolezza, da cui è
segnata la libertà dell'uomo. È libertà
reale, ma finita: non ha il suo punto di
partenza assoluto e incondizionato in se
stessa, ma nell'esistenza dentro cui si
trova e che rappresenta per essa, nello
stesso tempo, un limite e una possibilità. È
la libertà di una creatura, ossia una
libertà donata, da accogliere come un germe
e da far maturare con responsabilità. È
parte costitutiva di quell'immagine
creaturale, che fonda la dignità della
persona: in essa risuona la vocazione
originaria con cui il Creatore chiama l'uomo
al vero Bene, e ancora di più, con la
rivelazione di Cristo, a entrare in amicizia
con lui, partecipando alla stessa vita
divina. È insieme inalienabile autopossesso
e apertura universale ad ogni esistente,
nell'uscita da sé verso la conoscenza e
l'amore dell'altro.138
La libertà si radica dunque nella verità
dell'uomo ed è finalizzata alla comunione.
Ragione ed esperienza dicono non solo la
debolezza della libertà umana, ma anche il
suo dramma. L'uomo scopre che la sua libertà
è misteriosamente inclinata a tradire questa
apertura al Vero e al Bene e che troppo
spesso, di fatto, egli preferisce scegliere
beni finiti, limitati ed effimeri. Ancor
più, dentro gli errori e le scelte negative,
l'uomo avverte l'origine di una ribellione
radicale, che lo porta a rifiutare la Verità
e il Bene per erigersi a principio assoluto
di se stesso: «Voi diventerete come Dio» (Gn
3,5). La libertà, quindi, ha
bisogno di essere liberata. Cristo ne è il
liberatore: egli «ci ha liberati perché
restassimo liberi» (Gal 5,1).
87. Cristo rivela, anzitutto, che il
riconoscimento onesto e aperto della
verità è condizione di autentica
libertà: «Conoscerete la verità e la verità
vi farà liberi» (Gv 8,32).139
È la verità che rende liberi davanti al
potere e dà la forza del martirio. Così è di
Gesù davanti a Pilato: «Per questo io sono
nato e per questo sono venuto nel mondo: per
rendere testimonianza alla verità» (Gv
18,37). Così i veri adoratori di Dio
devono adorarlo «in spirito e verità» (Gv
4,23): in questa adorazione diventano
liberi. Il legame con la verità e
l'adorazione di Dio si manifestano in Gesù
Cristo come la più intima radice della
libertà.
Gesù rivela, inoltre, con la sua stessa
esistenza e non solo con le parole, che la
libertà si realizza nell'amore, cioè
neldono di sé. Lui che dice: «Nessuno
ha un amore più grande di questo: dare la
vita per i propri amici» (Gv 15,13),
va incontro liberamente alla Passione (cf
Mt 26,46) e nella sua obbedienza al
Padre sulla Croce dà la vita per tutti gli
uomini (cf Fil 2, 6-11). In tal modo
la contemplazione di Gesù crocifisso è la
via maestra sulla quale la Chiesa deve
camminare ogni giorno se vuole comprendere
l'intero senso della libertà: il dono di sé
nel servizio a Dio e ai fratelli. La
comunione poi con il Signore crocifisso e
risorto è la sorgente inesauribile alla
quale la Chiesa attinge senza sosta per
vivere nella libertà, donarsi e servire.
Commentando il versetto del Salmo 99 (100)
«Servite il Signore nella gioia»,
sant'Agostino dice: «Nella casa del Signore
libera è la schiavitù. Libera, poiché il
servizio non l'impone la necessità, ma la
carità... La carità ti renda servo, come la
verità ti ha fatto libero... Allo stesso
tempo tu sei servo e libero: servo, perché
ci diventasti; libero, perché sei amato da
Dio, tuo creatore; anzi, libero anche perché
ti è dato di amare il tuo creatore... Sei
servo del Signore e sei libero del Signore.
Non cercare una liberazione che ti porti
lontano dalla casa del tuo liberatore!».140
In tal modo la Chiesa, e ciascun cristiano
in essa, è chiamata a partecipare al
munus regale di Cristo in croce (cf
Gv 12,32), alla grazia e alla
responsabilità del Figlio dell'uomo, che
«non è venuto per essere servito, ma per
servire e dare la sua vita in riscatto per
molti» (Mt 20,28).141
Gesù, dunque, è la sintesi viva e personale
della perfetta libertà nell'obbedienza
totale alla volontà di Dio. La sua carne
crocifissa è la piena Rivelazione del
vincolo indissolubile tra libertà e verità,
così come la sua risurrezione da morte è
l'esaltazione suprema della fecondità e
della forza salvifica di una libertà vissuta
nella verità.
|
Camminare nella luce (cf 1 Gv
1,7)
88. La contrapposizione, anzi la radicale
dissociazione tra libertà e verità è
conseguenza, manifestazione e compimento di
un'altra più grave e deleteria dicotomia,
quella che separa la fede dalla morale.
Questa separazione costituisce una delle più
acute preoccupazioni pastorali della Chiesa
nell'attuale processo di secolarismo, nel
quale tanti, troppi uomini pensano e vivono
«come se Dio non esistesse». Siamo di fronte
ad una mentalità che coinvolge, spesso in
modo profondo, vasto e capillare, gli
atteggiamenti e i comportamenti degli stessi
cristiani, la cui fede viene svigorita e
perde la propria originalità di nuovo
criterio interpretativo e operativo per
l'esistenza personale, familiare e sociale.
In realtà, i criteri di giudizio e di scelta
assunti dagli stessi credenti si presentano
spesso, nel contesto di una cultura
ampiamente scristianizzata, estranei o
persino contrapposti a quelli del Vangelo.
Urge allora che i cristiani riscoprano la
novità della loro fede e la sua forza di
giudizio di fronte alla cultura
dominante e invadente: «Se un tempo eravate
tenebra — ci ammonisce l'apostolo Paolo —,
ora siete luce nel Signore. Comportatevi
perciò come i figli della luce; il frutto
della luce consiste in ogni bontà, giustizia
e verità. Cercate ciò che è gradito al
Signore, e non partecipate alle opere
infruttuose delle tenebre, ma piuttosto
condannatele apertamente... Vigilate dunque
attentamente sulla vostra condotta,
comportandovi non da stolti, ma da uomini
saggi; profittando del tempo presente,
perché i giorni sono cattivi» (Ef 5,
8-11.15-16; cf 1 Ts 5,4-8).
Urge ricuperare e riproporre il vero volto
della fede cristiana, che non è
semplicemente un insieme di proposizioni da
accogliere e ratificare con la mente. È
invece una conoscenza vissuta di Cristo, una
memoria vivente dei suoi comandamenti, una
verità da vivere. Del resto, una parola
non è veramente accolta se non quando passa
negli atti, se non quando viene messa in
pratica. La fede è una decisione che impegna
tutta l'esistenza. È incontro, dialogo,
comunione di amore e di vita del credente
con Gesù Cristo, Via, Verità e Vita (cf
Gv 14,6). Comporta un atto di confidenza
e di abbandono a Cristo, e ci dona di vivere
come lui ha vissuto (cf Gal 2,20),
ossia nel più grande amore a Dio e ai
fratelli.
89. La fede possiede anche un contenuto
morale: origina ed esige un impegno coerente
di vita, comporta e perfeziona l'accoglienza
e l'osservanza dei comandamenti divini. Come
scrive l'evangelista Giovanni, «Dio è luce e
in lui non ci sono tenebre. Se diciamo che
siamo in comunione con lui e camminiamo
nelle tenebre, mentiamo e non mettiamo in
pratica la verità... Da questo sappiamo
d'averlo conosciuto: se osserviamo i suoi
comandamenti. Chi dice: "Lo conosco" e non
osserva i suoi comandamenti, è bugiardo e la
verità non è in lui; ma chi osserva la sua
parola, in lui l'amore di Dio è veramente
perfetto. Da questo conosciamo di essere in
lui. Chi dice di dimorare in Cristo, deve
comportarsi come lui si è comportato» (1
Gv 1,5-6; 2,3-6).
Mediante la vita morale la fede diventa
«confessione», non solo davanti a Dio, ma
anche davanti agli uomini: si fa
testimonianza. «Voi siete la luce del
mondo — ha detto Gesù —; non può restare
nascosta una città collocata sopra un monte,
né si accende una lucerna per metterla sotto
il moggio, ma sopra il lucerniere perché
faccia luce a tutti quelli che sono nella
casa. Così risplenda la vostra luce davanti
agli uomini, perché vedano le vostre opere
buone e rendano gloria al Padre vostro che è
nei cieli» (Mt 5,14-16). Queste opere
sono soprattutto quelle della carità (cf
Mt 25,31-46) e dell'autentica libertà
che si manifesta e vive nel dono di sé.
Sino al dono totale di sé, come ha fatto
Gesù che sulla croce «ha amato la Chiesa e
ha dato se stesso per lei» (Ef 5,25).
La testimonianza di Cristo è fonte,
paradigma e risorsa per la testimonianza del
discepolo, chiamato a porsi sulla stessa
strada: «Se qualcuno vuole venire dietro a
me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce
ogni giorno e mi segua» (Lc 9,23). La
carità, secondo le esigenze del radicalismo
evangelico, può portare il credente alla
testimonianza suprema del martirio.
Sempre sull'esempio di Gesù che muore in
croce: «Fatevi dunque imitatori di Dio,
quali figli carissimi, — scrive Paolo ai
cristiani di Efeso — e camminate nella
carità, nel modo che anche Cristo ci ha
amato e ha dato se stesso per noi,
offrendosi a Dio in sacrificio di soave
odore» (Ef 5,1-2).
|
Il martirio, esaltazione della santità
inviolabile della legge di Dio
90. Il rapporto tra fede e morale splende in
tutto il suo fulgore nel rispetto
incondizionato che si deve alle esigenze
insopprimibili della dignità personale di
ogni uomo, a quelle esigenze difese
dalle norme morali che proibiscono senza
eccezioni gli atti intrinsecamente cattivi.
L'universalità e l'immutabilità della norma
morale manifestano e, nello stesso tempo, si
pongono a tutela della dignità personale,
ossia dell'inviolabilità dell'uomo, sul cui
volto brilla lo splendore di Dio (cf Gn
9,5-6).
L'inaccettabilità delle teorie etiche
«teleologiche», «consequenzia- liste» e
«proporzionaliste», che negano l'esistenza
di norme morali negative riguardanti
comportamenti determinati e valide senza
eccezioni, trova una conferma
particolarmente eloquente nel fatto del
martirio cristiano, che ha sempre
accompagnato e accompagna tuttora la vita
della Chiesa.
91. Già nell'Antica Alleanza incontriamo
ammirevoli testimonianze di una fedeltà alla
legge santa di Dio spinta fino alla
volontaria accettazione della morte.
Emblematica è la storia di Susanna:
ai due giudici ingiusti, che minacciavano di
farla morire se si fosse rifiutata di cedere
alla loro passione impura, così rispose:
«Sono alle strette da ogni parte. Se cedo, è
la morte per me, se rifiuto, non potrò
scampare dalle vostre mani. Meglio però per
me cadere innocente nelle vostre mani che
peccare davanti al Signore!» (Dn
13,22-23). Susanna, preferendo «cadere
innocente» nelle mani dei giudici,
testimonia non solo la sua fede e fiducia in
Dio, ma anche la sua obbedienza alla verità
e all'assolutezza dell'ordine morale: con la
sua disponibilità al martirio, proclama che
non è giusto fare ciò che la legge di Dio
qualifica come male per trarre da esso un
qualche bene. Essa sceglie per sé la «parte
migliore»: una limpidissima testimonianza,
senza nessun compromesso, alla verità circa
il bene e al Dio di Israele; manifesta così,
nei suoi atti, la santità di Dio.
Alle soglie del Nuovo Testamento Giovanni
Battista, rifiutandosi di tacere la
legge del Signore e di venire a compromesso
col male, «immolò la sua vita per la verità
e la giustizia»
142
e fu così precursore del Messia anche nel
martirio (cf Mc 6,17-29). Per questo,
«fu rinchiuso nell'oscurità del carcere
colui che venne a rendere testimonianza alla
luce e che dalla stessa luce, che è Cristo,
meritò di essere chiamato lampada che arde e
illumina... E fu battezzato nel proprio
sangue colui al quale era stato concesso di
battezzare il Redentore del mondo».143
Nella Nuova Alleanza si incontrano numerose
testimonianze di seguaci di Cristo —
a cominciare dal diacono Stefano (cf At
6,8–7,60) e dall'apostolo Giacomo (cf At
12,1-2) — che sono morti martiri per
confessare la loro fede e il loro amore al
Maestro e per non rinnegarlo. In ciò essi
hanno seguito il Signore Gesù, che davanti a
Caifa e a Pilato «ha dato la sua bella
testimonianza» (1 Tm 6,13),
confermando la verità del suo messaggio con
il dono della vita. Innumerevoli altri
martiri accettarono le persecuzioni e la
morte piuttosto che porre il gesto
idolatrico di bruciare l'incenso davanti
alla statua dell'Imperatore (cf Ap
13, 7-10). Rifiutarono persino di simulare
un simile culto, dando così l'esempio del
dovere di astenersi anche da un solo
comportamento concreto contrario all'amore
di Dio e alla testimonianza della fede.
Nell'obbedienza, essi affidarono e
consegnarono, come Cristo stesso, la loro
vita al Padre, a colui che poteva liberarli
dalla morte (cf Eb 5,7).
La Chiesa propone l'esempio di numerosi
santi e sante, che hanno testimoniato e
difeso la verità morale fino al martirio o
hanno preferito la morte ad un solo peccato
mortale. Elevandoli all'onore degli altari,
la Chiesa ha canonizzato la loro
testimonianza e dichiarato vero il loro
giudizio, secondo cui l'amore di Dio implica
obbligatoriamente il rispetto dei suoi
comandamenti, anche nelle circostanze più
gravi, e il rifiuto di tradirli, anche con
l'intenzione di salvare la propria vita.
92. Nel martirio come affermazione
dell'inviolabilità dell'ordine morale
risplendono la santità della legge di Dio e
insieme l'intangibilità della dignità
personale dell'uomo, creato a immagine e
somiglianza di Dio: è una dignità che non è
mai permesso di svilire o di contrastare,
sia pure con buone intenzioni, qualunque
siano le difficoltà. Gesù ci ammonisce con
la massima severità: «Che giova all'uomo
guadagnare il mondo intero, se poi perde la
propria anima?» (Mc 8,36).
Il martirio sconfessa come illusorio e falso
ogni «significato umano» che si pretendesse
di attribuire, pur in condizioni
«eccezionali», all'atto in se stesso
moralmente cattivo; ancor più ne rivela
apertamente il vero volto: quello di una
violazione dell'«umanità» dell'uomo,
prima ancora in chi lo compie che non in chi
lo subisce.144
Il martirio è quindi anche esaltazione della
perfetta «umanità» e della vera «vita» della
persona, come testimonia sant'Ignazio di
Antiochia rivolgendosi ai cristiani di Roma,
luogo del suo martirio: «Abbiate compassione
di me, fratelli: non impeditemi di vivere,
non vogliate che io muoia... Lasciate che io
raggiunga la pura luce; giunto là, sarò
veramente uomo. Lasciate che io imiti la
passione del mio Dio».145
93. Il martirio è infine un segno
preclaro della santità della Chiesa: la
fedeltà alla legge santa di Dio,
testimoniata con la morte, è annuncio
solenne e impegno missionario usque ad
sanguinem perché lo splendore della
verità morale non sia offuscato nel costume
e nella mentalità delle persone e della
società. Una simile testimonianza offre un
contributo di straordinario valore perché,
non solo nella società civile ma anche
all'interno delle stesse comunità
ecclesiali, non si precipiti nella crisi più
pericolosa che può affliggere l'uomo: la
confusione del bene e del male, che
rende impossibile costruire e conservare
l'ordine morale dei singoli e delle
comunità. I martiri, e più ampiamente tutti
i santi nella Chiesa, con l'esempio
eloquente e affascinante di una vita
totalmente trasfigurata dallo splendore
della verità morale, illuminano ogni epoca
della storia risvegliandone il senso morale.
Dando piena testimonianza al bene, essi sono
un vivente rimprovero a quanti
trasgrediscono la legge (cf Sap 2,
12) e fanno risuonare con permanente
attualità le parole del profeta: «Guai a
coloro che chiamano bene il male e male il
bene, che cambiano le tenebre in luce e la
luce in tenebre, che cambiano l'amaro in
dolce e il dolce in amaro» (Is 5,20).
Se il martirio rappresenta il vertice della
testimonianza alla verità morale, a cui
relativamente pochi possono essere chiamati,
vi è nondimento una coerente testimonianza
che tutti i cristiani devono esser pronti a
dare ogni giorno anche a costo di sofferenze
e di gravi sacrifici. Infatti di fronte alle
molteplici difficoltà che anche nelle
circostanze più ordinarie la fedeltà
all'ordine morale può esigere, il cristiano
è chiamato, con la grazia di Dio invocata
nella preghiera, ad un impegno talvolta
eroico, sostenuto dalla virtù della
fortezza, mediante la quale — come insegna
san Gregorio Magno — egli può perfino «amare
le difficoltà di questo mondo in vista del
premio eterno».146
94. In questa testimonianza all'assolutezza
del bene morale i cristiani non sono
soli: essi trovano conferme nel senso
morale dei popoli e nelle grandi tradizioni
religiose e sapienziali dell'Occidente e
dell'Oriente, non senza un'interiore e
misteriosa azione dello Spirito di Dio.
Valga per tutti l'espressione del poeta
latino Giovenale: «Considera il più grande
dei crimini preferire la sopravvivenza
all'onore e, per amore della vita fisica,
perdere le ragioni del vivere».147
La voce della coscienza ha sempre richiamato
senza ambiguità che ci sono verità e valori
morali per i quali si deve essere disposti
anche a dare la vita. Nella parola e
soprattutto nel sacrificio della vita per il
valore morale la Chiesa riconosce la
medesima testimonianza a quella verità che,
già presente nella creazione, risplende
pienamente sul volto di Cristo: «Sappiamo —
scrive san Giustino — che i seguaci delle
dottrine degli stoici sono stati odiati ed
uccisi quando hanno dato prova di saggezza
nel loro discorso morale ... a motivo del
seme del Verbo insito in tutto il genere
umano».148
|
Le norme morali universali e
immutabili al servizio della persona e della
società
95. La dottrina della Chiesa e in
particolare la sua fermezza nel difendere la
validità universale e permanente dei
precetti che proibiscono gli atti
intrinsecamente cattivi è giudicata non
poche volte come il segno di
un'intransigenza intollerabile, soprattutto
nelle situazioni enormemente complesse e
conflittuali della vita morale dell'uomo e
della società d'oggi: un'intransigenza che
contrasterebbe col senso materno della
Chiesa. Questa, si dice, manca di
comprensione e di compassione. Ma, in
realtà, la maternità della Chiesa non può
mai essere separata dalla sua missione di
insegnamento, che essa deve compiere sempre
come Sposa fedele di Cristo, la Verità in
persona: «Come Maestra, essa non si stanca
di proclamare la norma morale... Di tale
norma la Chiesa non è affatto né l'autrice
né l'arbitra. In obbedienza alla verità, che
è Cristo, la cui immagine si riflette nella
natura e nella dignità della persona umana,
la Chiesa interpreta la norma morale e la
propone a tutti gli uomini di buona volontà,
senza nasconderne le esigenze di radicalità
e di perfezione».149
In realtà, la vera comprensione e la genuina
compassione devono significare amore alla
persona, al suo vero bene, alla sua libertà
autentica. E questo non avviene, certo,
nascondendo o indebolendo la verità morale,
bensì proponendola nel suo intimo
significato di irradiazione della Sapienza
eterna di Dio, giunta a noi in Cristo, e di
servizio all'uomo, alla crescita della sua
libertà e al perseguimento della sua
felicità.150
Nello stesso tempo la presentazione limpida
e vigorosa della verità morale non può mai
prescindere da un profondo e sincero
rispetto, animato da amore paziente e
fiducioso, di cui ha sempre bisogno l'uomo
nel suo cammino morale, spesso reso faticoso
da difficoltà, debolezze e situazioni
dolorose. La Chiesa che non può mai
rinunciare al «principio della verità e
della coerenza, per cui non accetta di
chiamare bene il male e male il bene»,
151
deve essere sempre attenta a non spezzare la
canna incrinata e a non spegnere il
lucignolo che fumiga ancora (cf Is
42,3). Paolo VI ha scritto: «Non sminuire in
nulla la salutare dottrina di Cristo è
eminente forma di carità verso le anime. Ma
ciò deve sempre accompagnarsi con la
pazienza e la bontà di cui il Signore stesso
ha dato l'esempio nel trattare con gli
uomini. Venuto non per giudicare ma per
salvare (cf Gv 3,17), Egli fu certo
intransigente con il male, ma misericordioso
verso le persone».152
96. La fermezza della Chiesa, nel difendere
le norme morali universali e immutabili, non
ha nulla di mortificante. È solo al servizio
della vera libertà dell'uomo: dal momento
che non c'è libertà al di fuori o contro la
verità, la difesa categorica, ossia senza
cedimenti e compromessi, delle esigenze
assolutamente irrinunciabili della dignità
personale dell'uomo, deve dirsi via e
condizione per l'esistere stesso della
libertà.
Questo servizio è rivolto a ogni uomo,
considerato nell'unicità e
nell'irripetibilità del suo essere ed
esistere: solo nell'obbedienza alle norme
morali universali l'uomo trova piena
conferma della sua unicità di persona e
possibilità di vera crescita morale. E,
proprio per questo, tale servizio è rivolto
a tutti gli uomini: non solo ai
singoli, ma anche alla comunità, alla
società come tale. Queste norme
costituiscono, infatti, il fondamento
incrollabile e la solida garanzia di una
giusta e pacifica convivenza umana, e quindi
di una vera democrazia, che può nascere e
crescere solo sull'uguaglianza di tutti i
suoi membri, accomunati nei diritti e
doveri. Di fronte alle norme morali che
proibiscono il male intrinseco non ci sono
privilegi né eccezioni per nessuno.
Essere il padrone del mondo o l'ultimo
«miserabile» sulla faccia della terra non fa
alcuna differenza: davanti alle esigenze
morali siamo tutti assolutamente uguali.
97. Così le norme morali, e in primo luogo
quelle negative che proibiscono il male,
manifestano il loro significato e la
loro forza insieme personale e sociale:
proteggendo l'inviolabile dignità
personale di ogni uomo, esse servono alla
conservazione stessa del tessuto sociale
umano e al suo retto e fecondo sviluppo. In
particolare, i comandamenti della seconda
tavola del Decalogo, ricordati anche da Gesù
al giovane del Vangelo (cf Mt 19,18),
costituiscono le regole primordiali di ogni
vita sociale.
Questi comandamenti sono formulati in
termini generali. Ma, il fatto che
«principio, soggetto e fine di tutte le
istituzioni sociali è e deve essere la
persona umana»,
153
permette di precisarli e di esplicitarli in
un codice di comportamento più dettagliato.
In tal senso le regole morali fondamentali
della vita sociale comportano delle
esigenze determinate alle quali devono
attenersi sia i poteri pubblici sia i
cittadini. Al di là delle intenzioni,
talvolta buone, e delle circostanze, spesso
difficili, le autorità civili e i soggetti
particolari non sono mai autorizzati a
trasgredire i diritti fondamentali e
inalienabili della persona umana. Così, solo
una morale che riconosce delle norme valide
sempre e per tutti, senza alcuna eccezione,
può garantire il fondamento etico della
convivenza sociale, sia nazionale che
internazionale.
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La morale e il rinnovamento della vita
sociale e politica
98. Di fronte alle gravi forme di
ingiustizia sociale ed economica e di
corruzione politica di cui sono investiti
interi popoli e nazioni, cresce l'indignata
reazione di moltissime persone calpestate e
umiliate nei loro fondamentali diritti umani
e si fa sempre più diffuso e acuto il
bisogno di un radicale rinnovamento
personale e sociale capace di assicurare
giustizia, solidarietà, onestà, trasparenza.
Certamente lunga e faticosa è la strada da
percorrere; numerosi e ingenti sono gli
sforzi da compiere perché si possa attuare
un simile rinnovamento, anche per la
molteplicità e la gravità delle cause che
generano e alimentano le situazioni di
ingiustizia oggi presenti nel mondo. Ma,
come la storia e l'esperienza di ciascuno
insegnano, non è difficile ritrovare alla
base di queste situazioni cause propriamente
«culturali», collegate cioè con determinate
visioni dell'uomo, della società e del
mondo. In realtà, al cuore della
questione culturale sta il senso
morale, che a sua volta si fonda e si
compie nel senso religioso.154
99. Solo Dio, il Bene supremo, costituisce
la base irremovibile e la condizione
insostituibile della moralità, dunque dei
comandamenti, in particolare di quelli
negativi che proibiscono sempre e in ogni
caso il comportamento e gli atti
incompatibili con la dignità personale di
ogni uomo. Così il Bene supremo e il bene
morale si incontrano nella verità: la
verità di Dio Creatore e Redentore e la
verità dell'uomo da Lui creato e redento.
Solo su questa verità è possibile costruire
una società rinnovata e risolvere i
complessi e pesanti problemi che la
scuotono, primo fra tutti quello di vincere
le più diverse forme di totalitarismo
per aprire la via all'autentica libertà
della persona. «Il totalitarismo nasce
dalla negazione della verità in senso
oggettivo: se non esiste una verità
trascendente, obbedendo alla quale l'uomo
acquista la sua piena identità, allora non
esiste nessun principio sicuro che
garantisca giusti rapporti tra gli uomini.
Il loro interesse di classe, di gruppo, di
Nazione li oppone inevitabilmente gli uni
agli altri. Se non si riconosce la verità
trascendente, allora trionfa la forza del
potere, e ciascuno tende a realizzare fino
in fondo i mezzi di cui dispone per imporre
il proprio interesse o la propria opinione,
senza riguardo ai diritti dell'altro... La
radice del moderno totalitarismo, dunque, è
da individuare nella negazione della
trascendente dignità della persona umana,
immagine visibile del Dio invisibile e,
proprio per questo, per sua natura stessa,
soggetto di diritti che nessuno può violare:
né l'individuo, né il gruppo, né la classe,
né la Nazione o lo Stato. Non può farlo
nemmeno la maggioranza di un corpo sociale,
ponendosi contro la minoranza,
emarginandola, opprimendola, sfruttandola o
tentando di annientarla».155
Per questo la connessione inscindibile tra
verità e libertà — che esprime il vincolo
essenziale tra la sapienza e la volontà di
Dio — possiede un significato d'estrema
importanza per la vita delle persone
nell'ambito socio-economico e
socio-politico, come emerge dalla dottrina
sociale della Chiesa — la quale
«appartiene... al campo della teologia e,
specialmente, della teologia morale»,
156
— e dalla sua presentazione di comandamenti
che regolano, in riferimento non solo ad
atteggiamenti generali ma anche a precisi e
determinati comportamenti e atti concreti,
la vita sociale, economica e politica.
100. Così il Catechismo della Chiesa
Cattolica, dopo aver affermato che «in
materia economica, il rispetto della dignità
umana esige la pratica della virtù della
temperanza, per moderare l'attaccamento
ai beni di questo mondo; della virtù della
giustizia, per rispettare i diritti del
prossimo e dargli ciò che gli è dovuto; e
della solidarietà, seguendo la regola
aurea e secondo la liberalità del Signore,
il quale "da ricco che era, si è fatto
povero" per noi, perché noi diventassimo
"ricchi per mezzo della sua povertà" (2
Cor 8,9)»,
157
presenta una serie di comportamenti e di
atti che contrastano la dignità umana: il
furto, il tenere deliberatamente cose avute
in prestito o oggetti smarriti, la frode nel
commercio (cf Dt 25, 13-16), i salari
ingiusti (cf Dt 24,14-15; Gc
5,4), il rialzo dei prezzi speculando
sull'ignoranza e sul bisogno altrui (cf
Am 8,4-6), l'appropriazione e l'uso
privato dei beni sociali di un'impresa, i
lavori eseguiti male, la frode fiscale, la
contraffazione di assegni e di fatture, le
spese eccessive, lo sperpero, ecc.158
Ed ancora: «Il settimo comandamento
proibisce gli atti o le iniziative che, per
qualsiasi ragione, egoistica o ideologica,
mercantile o totalitaria, portano all'asservimento
di esseri umani, a misconoscere la loro
dignità personale, ad acquistarli, a
venderli e a scambiarli come fossero merci.
Ridurre le persone, con la violenza, ad un
valore d'uso oppure ad una fonte di
guadagno, è un peccato contro la loro
dignità e i loro diritti fondamentali. San
Paolo ordinava ad un padrone cristiano di
trattare il suo schiavo cristiano "non più
come uno schiavo, ma... come un fratello...
come uomo..., nel Signore" (Fm 16)».159
101. Nell'ambito politico si deve rilevare
che la veridicità nei rapporti tra
governanti e governati, la trasparenza nella
pubblica amministrazione, l'imparzialità nel
servizio della cosa pubblica, il rispetto
dei diritti degli avversari politici, la
tutela dei diritti degli accusati contro
processi e condanne sommarie, l'uso giusto e
onesto del pubblico denaro, il rifiuto di
mezzi equivoci o illeciti per conquistare,
mantenere e aumentare ad ogni costo il
potere, sono principi che trovano la loro
radice prima — come pure la loro singolare
urgenza — nel valore trascendente della
persona e nelle esigenze morali oggettive di
funzionamento degli Stati.160
Quando essi non vengono osservati, viene
meno il fondamento stesso della convivenza
politica e tutta la vita sociale ne risulta
progressivamente compromessa, minacciata e
votata alla sua dissoluzione (cf Sal
131, 3-4; Ap 18,2-3. 9-24). Dopo la
caduta, in molti Paesi, delle ideologie che
legavano la politica ad una concezione
totalitaria del mondo — e prima fra esse il
marxismo —, si profila oggi un rischio non
meno grave per la negazione dei fondamentali
diritti della persona umana e per il
riassorbimento nella politica della stessa
domanda religiosa che abita nel cuore di
ogni essere umano: è il rischio
dell'alleanza fra democrazia e relativismo
etico, che toglie alla convivenza civile
ogni sicuro punto di riferimento morale e la
priva, più radicalmente, del riconoscimento
della verità. Infatti, «se non esiste
nessuna verità ultima la quale guida e
orienta l'azione politica, allora le idee e
le convinzioni possono esser facilmente
strumentalizzate per fini di potere. Una
democrazia senza valori si converte
facilmente in un totalitarismo aperto oppure
subdolo, come dimostra la storia».161
Così in ogni campo della vita personale,
familiare, sociale e politica, la morale —
che si fonda sulla verità e che nella verità
si apre all'autentica libertà — rende un
servizio originale, insostituibile e di
enorme valore non solo per la singola
persona e per la sua crescita nel bene, ma
anche per la società e per il suo vero
sviluppo.
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Grazia e obbedienza alla legge di Dio
102. Anche nelle situazioni più difficili
l'uomo deve osservare la norma morale per
essere obbediente al santo comandamento di
Dio e coerente con la propria dignità
personale. Certamente l'armonia tra libertà
e verità domanda, alcune volte, sacrifici
non comuni e va conquistata ad alto prezzo:
può comportare anche il martirio. Ma, come
l'esperienza universale e quotidiana mostra,
l'uomo è tentato di rompere tale armonia:
«Non quello che voglio io faccio, ma quello
che detesto... Io non compio il bene che
voglio, ma il male che non voglio» (Rm
7, 15.19).
Donde deriva, ultimamente, questa scissione
interiore dell'uomo? Egli incomincia la sua
storia di peccato quando non riconosce più
il Signore come suo Creatore, e vuole essere
lui stesso a decidere, in totale
indipendenza, ciò che è bene e ciò che è
male. «Voi diventerete come Dio, conoscendo
il bene e il male» (Gn 3,5): questa è
la prima tentazione, a cui fanno eco tutte
le altre tentazioni, alle quali l'uomo è più
facilmente inclinato a cedere per le ferite
della caduta originale.
Ma le tentazioni si possono vincere, i
peccati si possono evitare, perché con i
comandamenti il Signore ci dona la
possibilità di osservarli: «I suoi occhi su
coloro che lo temono, egli conosce ogni
azione degli uomini. Egli non ha comandato a
nessuno di essere empio e non ha dato a
nessuno il permesso di peccare» (Sir
15,19-20). L'osservanza della legge di Dio,
in determinate situazioni, può essere
difficile, difficilissima: non è mai però
impossibile. È questo un insegnamento
costante della tradizione della Chiesa, così
espresso dal Concilio di Trento: «Nessuno
poi, benché giustificato, deve ritenersi
libero dall'osservanza dei comandamenti;
nessuno deve far propria quell'espressione
temeraria e condannata con la scomunica dei
Padri, secondo la quale è impossibile
all'uomo giustificato osservare i
comandamenti di Dio. Dio infatti non comanda
ciò che è impossibile, ma nel comandare ti
esorta a fare tutto quello che puoi, a
chiedere ciò che non puoi e ti aiuta perché
tu possa; infatti "i comandamenti di Dio non
sono gravosi" (cf 1 Gv 5,3) e "il suo
giogo è soave e il suo peso è leggero" (cf
Mt 11,30)».162
103. All'uomo è sempre aperto lo spazio
spirituale della speranza, con l'aiuto
della grazia divina e con la
collaborazione della libertà umana.
È nella Croce salvifica di Gesù, nel dono
dello Spirito Santo, nei Sacramenti che
scaturiscono dal costato trafitto del
Redentore (cf Gv 19, 34), che il
credente trova la grazia e la forza per
osservare sempre la legge santa di Dio,
anche in mezzo alle difficoltà più gravi.
Come dice sant'Andrea di Creta, la legge
stessa «fu vivificata dalla grazia e fu
posta al suo servizio in una composizione
armonica e feconda. Ognuna delle due
conservò le sue caratteristiche senza
alterazioni e confusioni. Tuttavia la legge,
che prima costituiva un onere gravoso e una
tirannia, diventò per opera di Dio peso
leggero e fonte di libertà».163
Solo nel mistero della Redenzione di
Cristo stanno le «concrete» possibilità
dell'uomo. «Sarebbe un errore gravissimo
concludere... che la norma insegnata dalla
Chiesa è in se stessa solo un "ideale" che
deve poi essere adattato, proporzionato,
graduato alle, si dice, concrete possibilità
dell'uomo: secondo un "bilanciamento dei
vari beni in questione". Ma quali sono le
"concrete possibilità dell'uomo"? E di
quale uomo si parla? Dell'uomo
dominato dalla concupiscenza o dell'uomo
redento da Cristo? Poiché è di questo
che si tratta: della realtà della
redenzione di Cristo. Cristo ci ha
redenti! Ciò significa: Egli ci ha
donato la possibilità di realizzare
l'intera verità del nostro essere;
Egli ha liberato la nostra libertà dal
dominio della concupiscenza. E se l'uomo
redento ancora pecca, ciò non è dovuto
all'imperfezione dell'atto redentore di
Cristo, ma alla volontà dell'uomo di
sottrarsi alla grazia che sgorga da
quell'atto. Il comandamento di Dio è
certamente proporzionato alle capacità
dell'uomo: ma alle capacità dell'uomo a cui
è donato lo Spirito Santo; dell'uomo che, se
caduto nel peccato, può sempre ottenere il
perdono e godere della presenza dello
Spirito».164
104. In questo contesto si apre il giusto
spazio alla misericordia di Dio per
il peccato dell'uomo che si converte e alla
comprensione per l'umana debolezza.
Questa comprensione non significa mai
compromettere e falsificare la misura del
bene e del male per adattarla alle
circostanze. Mentre è umano che l'uomo,
avendo peccato, riconosca la sua debolezza e
chieda misericordia per la propria colpa, è
invece inaccettabile l'atteggiamento di chi
fa della propria debolezza il criterio della
verità sul bene, in modo da potersi sentire
giustificato da solo, anche senza bisogno di
ricorrere a Dio e alla sua misericordia. Un
simile atteggiamento corrompe la moralità
dell'intera società, perché insegna a
dubitare dell'oggettività della legge morale
in generale e a rifiutare l'assolutezza dei
divieti morali circa determinati atti umani,
e finisce con il confondere tutti i giudizi
di valore.
Dobbiamo, invece, raccogliere il
messaggio che ci viene dalla parabola
evangelica del fariseo e del pubblicano
(cf Lc 18,9-14). Il pubblicano poteva
forse avere qualche giustificazione per i
peccati commessi, tale da diminuire la sua
responsabilità. Non è però su queste
giustificazioni che si sofferma la sua
preghiera, ma sulla propria indegnità
davanti all'infinita santità di Dio: «O Dio,
abbi pietà di me peccatore» (Lc
18,13). Il fariseo, invece, si è
giustificato da solo, trovando forse per
ognuna delle sue mancanze una scusa. Siamo
così messi a confronto con due diversi
atteggiamenti della coscienza morale
dell'uomo di tutti i tempi. Il pubblicano ci
presenta una coscienza «penitente», che è
pienamente consapevole della fragilità della
propria natura e che vede nelle proprie
mancanze, quali che ne siano le
giustificazioni soggettive, una conferma del
proprio essere bisognoso di redenzione. Il
fariseo ci presenta una coscienza
«soddisfatta di se stessa», che si illude di
poter osservare la legge senza l'aiuto della
grazia ed è convinta di non aver bisogno
della misericordia.
105. A tutti è chiesta grande vigilanza per
non lasciarsi contagiare dall'atteggiamento
farisaico, che pretende di eliminare la
coscienza del proprio limite e del proprio
peccato, e che oggi si esprime in
particolare nel tentativo di adattare la
norma morale alle proprie capacità e ai
propri interessi e persino nel rifiuto del
concetto stesso di norma. Al contrario,
accettare la «sproporzione» tra la legge e
la capacità umana, ossia la capacità delle
sole forze morali dell'uomo lasciato a se
stesso, accende il desiderio della grazia e
predispone a riceverla. «Chi mi libererà da
questo corpo votato alla morte?», si domanda
l'apostolo Paolo. E con una confessione
gioiosa e riconoscente risponde: «Siano rese
grazie a Dio per mezzo di Gesù Cristo nostro
Signore!» (Rm 7,24-25).
La stessa coscienza troviamo in questa
preghiera di sant'Ambrogio di Milano: «Che
cos'è, infatti, l'uomo se tu non lo visiti?
Non dimenticare pertanto il debole.
Ricordati, o Signore, che mi hai fatto
debole, che mi hai plasmato di polvere. Come
potrò stare ritto, se tu non ti volgi
continuamente per rendere salda questa
argilla, di modo che la mia solidità promani
dal tuo volto? "Appena nascondi il viso,
tutte le cose vengono meno" (Sal
1032,29): se ti volgi, guai a me! Non hai da
guardare in me nient'altro che contagi di
delitti: non è utile né essere abbandonati,
né esser visti perché, mentre siam visti,
provochiamo disgusto. Possiamo tuttavia
pensare che non respinge quelli che vede,
perché purifica quelli che guarda. Lo divora
un fuoco, capace di bruciare la colpa (cf
Gl 2,3)».165
|
Morale e nuova evangelizzazione
106. L'evangelizzazione è la sfida più forte
ed esaltante che la Chiesa è chiamata ad
affrontare sin dalla sua origine. In realtà,
a porre questa sfida non sono tanto le
situazioni sociali e culturali che essa
incontra lungo la storia, quanto il mandato
di Gesù Cristo risorto, che definisce la
ragione stessa dell'esistenza della Chiesa:
«Andate in tutto il mondo e predicate il
Vangelo ad ogni creatura» (Mc 16,15).
Il momento però che stiamo vivendo, almeno
presso numerose popolazioni, è piuttosto
quello di una formidabile provocazione alla
«nuova evangelizzazione», ossia all'annuncio
del Vangelo sempre nuovo e sempre portatore
di novità, una evangelizzazione che dev'essere
«nuova nel suo ardore, nei suoi metodi e
nella sua espressione».166
La scristianizzazione, che pesa su interi
popoli e comunità un tempo già ricchi di
fede e di vita cristiana, comporta non solo
la perdita della fede o comunque la sua
insignificanza per la vita, ma anche, e
necessariamente, un declino o un
oscuramento del senso morale: e questo
sia per il dissolversi della consapevolezza
dell'originalità della morale evangelica,
sia per l'eclissi degli stessi principi e
valori etici fondamentali. Le tendenze
soggettiviste, relativiste e utilitariste,
oggi ampiamente diffuse, si presentano non
semplicemente come posizioni pragmatiche,
come dati di costume, ma come concezioni
consolidate dal punto di vista teoretico che
rivendicano una loro piena legittimità
culturale e sociale.
107. L'evangelizzazione — e pertanto
la «nuova evangelizzazione» — comporta
anche l'annuncio e la proposta morale.
Gesù stesso, proprio predicando il Regno di
Dio e il suo amore salvifico, ha rivolto
l'appello alla fede e alla conversione (cf
Mc 1,15). E Pietro, con gli altri
Apostoli, annunciando la risurrezione di
Gesù di Nazaret dai morti, propone una vita
nuova da vivere, una «via» da seguire per
essere discepoli del Risorto (cf At
2,37- 41; 3,17-20).
Come e ancor più che per le verità di fede,
la nuova evangelizzazione che propone i
fondamenti e i contenuti della morale
cristiana manifesta la sua autenticità, e
nello stesso tempo sprigiona tutta la sua
forza missionaria, quando si compie
attraverso il dono non solo della parola
annunciata, ma anche di quella
vissuta. In particolare è la vita di
santità, che risplende in tanti membri
del Popolo di Dio, umili e spesso nascosti
agli occhi degli uomini, a costituire la via
più semplice e affascinante sulla quale è
dato di percepire immediatamente la bellezza
della verità, la forza liberante dell'amore
di Dio, il valore della fedeltà
incondizionata a tutte le esigenze della
legge del Signore, anche nelle circostanze
più difficili. Per questo la Chiesa, nella
sua sapiente pedagogia morale, ha sempre
invitato i credenti a cercare e a trovare
nei santi e nelle sante, e in primo luogo
nella Vergine Madre di Dio «piena di grazia»
e «tutta santa», il modello, la forza e la
gioia per vivere una vita secondo i
comandamenti di Dio e le Beatitudini del
Vangelo.
La vita dei santi, riflesso della bontà di
Dio — di Colui che «solo è buono» —,
costituisce non solo una vera confessione di
fede e un impulso alla sua comunicazione
agli altri, ma anche una glorificazione di
Dio e della sua infinita santità. La vita
santa porta così a pienezza di espressione e
di attuazione il triplice e unitario
munus propheticum, sacerdotale et regale
che ogni cristiano riceve in dono nella
rinascita battesimale «da acqua e da
Spirito» (Gv 3,5). La sua vita morale
possiede il valore di un «culto spirituale»
(Rm 12,1; cf Fil 3,3), attinto
e alimentato da quella inesauribile sorgente
di santità e di glorificazione di Dio che
sono i Sacramenti, in specie l'Eucaristia:
infatti, partecipando al sacrificio della
Croce, il cristiano comunica con l'amore di
donazione di Cristo ed è abilitato e
impegnato a vivere questa stessa carità in
tutti i suoi atteggiamenti e comportamenti
di vita. Nell'esistenza morale si rivela e
si attua anche il servizio regale del
cristiano: quanto più, con l'aiuto della
grazia, egli obbedisce alla legge nuova
dello Spirito Santo, tanto più cresce nella
libertà alla quale è chiamato mediante il
servizio della verità, della carità e della
giustizia.
108. Alla radice della nuova
evangelizzazione e della vita morale nuova,
che essa propone e suscita nei suoi frutti
di santità e di missionarietà, sta lo
Spirito di Cristo, principio e forza
della fecondità della santa Madre Chiesa,
come ci ricorda Paolo VI:
«L'evangelizzazione non sarà mai possibile
senza l'azione dello Spirito Santo».167
Allo Spirito di Gesù, accolto dal cuore
umile e docile del credente, si devono
dunque il fiorire della vita morale
cristiana e la testimonianza della santità
nella grande varietà delle vocazioni, dei
doni, delle responsabilità e delle
condizioni e situazioni di vita: è lo
Spirito Santo — rilevava già Novaziano, in
questo esprimendo l'autentica fede della
Chiesa — «Colui che ha dato fermezza agli
animi ed alle menti dei discepoli, che ha
dischiuso i misteri evangelici, che ha
illuminato in loro le cose divine; da Lui
rinvigoriti, essi non ebbero timore né delle
carceri né delle catene per il nome del
Signore; anzi calpestarono gli stessi poteri
e i tormenti del mondo, armati ormai e
rafforzati per mezzo suo, avendo in sé i
doni che questo stesso Spirito elargisce ed
invia come gioielli alla Chiesa sposa di
Cristo. È Lui, infatti, che nella Chiesa
suscita i profeti, istruisce i maestri,
guida le lingue, compie prodigi e
guarigioni, produce opere mirabili, concede
il discernimento degli spiriti, assegna i
compiti di governo, suggerisce i consigli,
ripartisce ed armonizza ogni altro dono
carismatico, e perciò rende dappertutto ed
in tutto compiutamente perfetta la Chiesa
del Signore».168
Nel contesto vivo di questa nuova
evangelizzazione, destinata a generare e a
nutrire «la fede che opera per mezzo della
carità» (Gal 5,6) e in rapporto
all'opera dello Spirito Santo possiamo ora
comprendere il posto che nella Chiesa,
comunità dei credenti, spetta alla
riflessione che la teologia deve sviluppare
sulla vita morale, così come possiamo
presentare la missione e la responsabilità
propria dei teologi moralisti.
|
Il servizio dei teologi moralisti
109. Chiamata all'evangelizzazione e alla
testimonianza di una vita di fede è tutta la
Chiesa, resa partecipe del munus propheticum
del Signore Gesù mediante il dono del
suo Spirito. Grazie alla presenza permanente
in essa dello Spirito di verità (cf Gv
14,16-17) «la totalità dei fedeli che
hanno ricevuto l'unzione dello Spirito Santo
(cf 1 Gv 2,20. 27) non può sbagliarsi
nel credere, e manifesta questa sua
proprietà peculiare mediante il senso
soprannaturale della fede di tutto il
popolo, quando "dai Vescovi fino agli ultimi
fedeli laici" esprime l'universale suo
consenso in materia di fede e di costumi».169
Per compiere la sua missione profetica, la
Chiesa deve continuamente risvegliare o
«ravvivare» la propria vita di fede (cf 2
Tm 1,6), in particolare mediante una
riflessione sempre più approfondita, sotto
la guida dello Spirito Santo, sul contenuto
della fede stessa. È al servizio di questa
«ricerca credente dell'intelligenza della
fede» che si pone, in modo specifico, la
«vocazione» del teologo nella Chiesa:
«Fra le vocazioni suscitate dallo Spirito
nella Chiesa — leggiamo nell'Istruzione
Donum veritatis — si distingue quella
del teologo, che in modo particolare ha la
funzione di acquisire, in comunione con il
Magistero, un'intelligenza sempre più
profonda della Parola di Dio contenuta nella
Scrittura ispirata e trasmessa dalla
Tradizione viva della Chiesa. Di sua natura
la fede fa appello all'intelligenza, perché
svela all'uomo la verità sul suo destino e
la via per raggiungerlo. Anche se la verità
rivelata è superiore ad ogni nostro dire ed
i nostri concetti sono imperfetti di fronte
alla sua grandezza ultimamente insondabile (cf
Ef 3,19), essa invita tuttavia la
ragione — dono di Dio fatto per cogliere la
verità — ad entrare nella sua luce,
diventando così capace di comprendere in una
certa misura quanto ha creduto. La scienza
teologica, che, rispondendo all'invito della
voce della verità, cerca l'intelligenza
della fede, aiuta il Popolo di Dio, secondo
il comandamento dell'Apostolo (cf 1 Pt
3,15), a rendere conto della sua
speranza a coloro che lo richiedono».170
È fondamentale per definire l'identità
stessa e, di conseguenza, per attuare la
missione propria della teologia riconoscerne
l'intimo e vivo nesso con la Chiesa, il
suo mistero, la sua vita e missione: «La
teologia è scienza ecclesiale, perché cresce
nella Chiesa e agisce sulla Chiesa... Essa è
a servizio della Chiesa e deve quindi
sentirsi dinamicamente inserita nella
missione della Chiesa, particolarmente nella
sua missione profetica».171
Per sua natura e dinamismo la teologia
autentica può fiorire e svilupparsi solo
mediante una convinta e responsabile
partecipazione e «appartenenza» alla Chiesa
quale «comunità di fede», così come a questa
stessa Chiesa e alla sua vita di fede torna
il frutto della ricerca e
dell'approfondimento teologico.
110. Quanto si è detto circa la teologia in
genere può e dev'essere riproposto per la
teologia morale, colta nella sua
specificità di riflessione scientifica sul
Vangelo come dono e comandamento di vita
nuova, sulla vita «secondo la verità
nella carità» (Ef 4,15), sulla vita
di santità della Chiesa, nella quale
risplende la verità del bene portato sino
alla sua perfezione. Non solo nell'ambito
della fede, ma anche e in modo indivisibile
nell'ambito della morale, interviene il
Magistero della Chiesa, il cui compito è
«di discernere, mediante giudizi normativi
per la coscienza dei fedeli, gli atti che
sono in se stessi conformi alle esigenze
della fede e ne promuovono l'espressione
nella vita, e quelli che al contrario, per
la loro malizia intrinseca, sono
incompatibili con queste esigenze».172
Predicando i comandamenti di Dio e la carità
di Cristo, il Magistero della Chiesa insegna
ai fedeli anche i precetti particolari e
determinati e chiede loro di considerarli in
coscienza come moralmente obbligatori.
Svolge, inoltre, un importante compito di
vigilanza, avvertendo i fedeli della
presenza di eventuali errori, anche solo
impliciti, quando la loro coscienza non
giunge a riconoscere la giustezza e la
verità delle regole morali che il Magistero
insegna.
S'inserisce qui il compito specifico di
quanti per mandato dei legittimi Pastori
insegnano teologia morale nei Seminari e
nelle Facoltà Teologiche. Essi hanno il
grave dovere di istruire i fedeli —
specialmente i futuri Pastori — su tutti i
comandamenti e le norme pratiche che la
Chiesa dichiara con autorità.173
Nonostante gli eventuali limiti delle
argomentazioni umane presentate dal
Magistero, i teologi moralisti sono chiamati
ad approfondire le ragioni dei suoi
insegnamenti, ad illustrare la fondatezza
dei suoi precetti e la loro obbligatorietà,
mostrandone la mutua connessione e il
rapporto con il fine ultimo dell'uomo.174
Spetta ai teologi moralisti esporre la
dottrina della Chiesa e dare, nell'esercizio
del loro ministero, l'esempio di un assenso
leale, interno ed esterno, all'insegnamento
del Magistero sia nel campo del dogma che in
quello della morale.175
Unendo le loro forze per collaborare col
Magistero gerarchico, i teologi avranno a
cuore di mettere sempre meglio in luce i
fondamenti biblici, le significazioni etiche
e le motivazioni antropologiche che
sostengono la dottrina morale e la visione
dell'uomo proposte dalla Chiesa.
111. Il servizio che nell'ora attuale i
teologi moralisti sono chiamati a dare è di
primaria importanza, non solo per la vita e
la missione della Chiesa, ma anche per la
società e la cultura umana. Tocca a loro, in
intima e vitale connessione con la teologia
biblica e dogmatica, sottolineare nella
riflessione scientifica «l'aspetto dinamico
che fa risaltare la risposta, che l'uomo
deve dare all'appello divino nel processo
della sua crescita nell'amore, nell'ambito
di una comunità salvifica. In tal modo la
teologia morale acquisterà una dimensione
spirituale interna, rispondendo alle
esigenze di sviluppo pieno della imago
Dei, che è nell'uomo, e alle leggi del
processo spirituale descritto nell'ascetica
e mistica cristiane».176
Certamente oggi la teologia morale e il suo
insegnamento si trovano di fronte a una
particolare difficoltà. Poiché la morale
della Chiesa implica necessariamente una
dimensione normativa, la teologia morale
non può ridursi a un sapere elaborato solo
nel contesto delle cosiddette scienze
umane. Mentre queste si occupano del
fenomeno della moralità come fatto storico e
sociale, la teologia morale, che pur deve
servirsi delle scienze dell'uomo e della
natura, non è però subordinata ai risultati
dell'osservazione empirico-formale o della
comprensione fenomenologica. In realtà, la
pertinenza delle scienze umane in teologia
morale è sempre da commisurare alla domanda
originaria: Che cosa è il bene o il male?
Che cosa fare per ottenere la vita eterna?
112. Il teologo moralista deve pertanto
esercitare un accurato discernimento nel
contesto dell'odierna cultura
prevalentemente scientifica e tecnica,
esposta ai pericoli del relativismo, del
pragmatismo e del positivismo. Dal punto di
vista teologico, i principi morali non sono
dipendenti dal momento storico nel quale
sono scoperti. Il fatto poi che taluni
credenti agiscano senza seguire gli
insegnamenti del Magistero o considerino a
torto come moralmente giusta una condotta
dichiarata dai loro Pastori come contraria
alla legge di Dio, non può costituire
argomento valido per rifiutare la verità
delle norme morali insegnate dalla Chiesa.
L'affermazione dei principi morali non è di
competenza dei metodi empirico-formali.
Senza negare la validità di tali metodi, ma
anche senza restringere ad essi la sua
prospettiva, la teologia morale, fedele al
senso soprannaturale della fede, prende in
considerazione soprattutto la dimensione
spirituale del cuore umano e la sua
vocazione all'amore divino.
Infatti, mentre le scienze umane, come tutte
le scienze sperimentali, sviluppano un
concetto empirico e statistico di
«normalità», la fede insegna che una simile
normalità porta in sé le tracce di una
caduta dell'uomo dalla sua situazione
originaria, ossia è intaccata dal peccato.
Solo la fede cristiana indica all'uomo la
via del ritorno al «principio» (cf Mt
19,8), una via che spesso è ben diversa da
quella della normalità empirica. In tal
senso le scienze umane, nonostante il grande
valore delle conoscenze che offrono, non
possono essere assunte come indicatori
decisivi delle norme morali. È il Vangelo
che svela la verità integrale sull'uomo e
sul suo cammino morale, e così illumina e
ammonisce i peccatori annunciando loro la
misericordia di Dio, il quale
incessantemente opera per preservarli tanto
dalla disperazione di non poter conoscere ed
osservare la legge divina quanto dalla
presunzione di potersi salvare senza merito.
Egli inoltre ricorda loro la gioia del
perdono, che solo concede la forza di
riconoscere nella legge morale una verità
liberatrice, una grazia di speranza, un
cammino di vita.
113. L'insegnamento della dottrina morale
implica l'assunzione consapevole di queste
responsabilità intellettuali, spirituali e
pastorali. Perciò, i teologi moralisti, che
accettano l'incarico di insegnare la
dottrina della Chiesa, hanno il grave dovere
di educare i fedeli a questo discernimento
morale, all'impegno per il vero bene e al
ricorso fiducioso alla grazia divina.
Se gli incontri e i conflitti di opinione
possono costituire espressioni normali della
vita pubblica nel contesto di una democrazia
rappresentativa, la dottrina morale non può
certo dipendere dal semplice rispetto di una
procedura; essa infatti non viene
minimamente stabilita seguendo le regole e
le forme di una deliberazione di tipo
democratico. Il dissenso, fatto di
calcolate contestazioni e di polemiche
attraverso i mezzi della comunicazione
sociale, è contrario alla comunione
ecclesiale e alla retta comprensione della
costituzione gerarchica del Popolo di Dio.
Nell'opposizione all'insegnamento dei
Pastori non si può riconoscere una legittima
espressione né della libertà cristiana né
delle diversità dei doni dello Spirito. In
questo caso, i Pastori hanno il dovere di
agire in conformità con la loro missione
apostolica, esigendo che sia sempre
rispettato il diritto dei fedeli a
ricevere la dottrina cattolica nella sua
purezza e integrità: «Il teologo, non
dimenticando mai di essere anch'egli membro
del Popolo di Dio, deve nutrire rispetto nei
suoi confronti e impegnarsi nel dispensargli
un insegnamento che non leda in alcun modo
la dottrina della fede».177
|
Le nostre responsabilità di Pastori
114. La responsabilità verso la fede e la
vita di fede del Popolo di Dio grava in una
forma peculiare e propria sui Pastori, come
ci ricorda il Concilio Vaticano II: «Tra le
funzioni principali dei Vescovi eccelle la
predicazione del Vangelo. I Vescovi,
infatti, sono gli araldi della fede, che
portano a Cristo nuovi discepoli, sono i
Dottori autentici, cioè rivestiti
dell'autorità di Cristo, che predicano al
popolo loro affidato la fede da credere e da
applicare nella pratica della vita, che
illustrano questa fede alla luce dello
Spirito Santo, traendo fuori dal tesoro
della Rivelazione cose nuove e vecchie (cf
Mt 13,52), la fanno fruttificare e
vegliano per tener lontano dal loro gregge
gli errori che lo minacciano (cf 2 Tm
4,1-4)».178
È nostro comune dovere, e prima ancora
nostra comune grazia, insegnare ai fedeli
come Pastori e Vescovi della Chiesa, ciò che
li conduce sulla via di Dio, così come fece
un giorno il Signore Gesù con il giovane del
Vangelo. Rispondendo alla sua domanda: «Che
cosa devo fare di buono per ottenere la vita
eterna?», Gesù ha rimandato a Dio, Signore
della creazione e dell'Alleanza; ha
ricordato i comandamenti morali, già
rivelati nell'Antico Testamento; ne ha
indicato lo spirito e la radicalità
invitando alla sua sequela nella povertà,
nell'umiltà e nell'amore: «Vieni e seguimi!».
La verità di questa dottrina ha avuto il suo
sigillo sulla Croce nel sangue di Cristo:
essa è divenuta, nello Spirito Santo, la
legge nuova della Chiesa e di ogni
cristiano.
Questa «risposta» alla domanda morale è
affidata da Gesù Cristo in un modo
particolare a noi Pastori della Chiesa,
chiamati a renderla oggetto del nostro
insegnamento, nell'adempimento dunque del
nostro munus propheticum. Nello
stesso tempo la nostra responsabilità di
Pastori, nei riguardi della dottrina morale
cristiana, deve attuarsi anche nella forma
del munus sacerdotale: ciò avviene
quando dispensiamo ai fedeli i doni di
grazia e di santificazione come risorsa per
obbedire alla legge santa di Dio, e quando
con la nostra costante e fiduciosa preghiera
sosteniamo i credenti perché siano fedeli
alle esigenze della fede e vivano secondo il
Vangelo (cf Col 1,9-12). La dottrina
morale cristiana deve costituire, oggi
soprattutto, uno degli ambiti privilegiati
della nostra vigilanza pastorale,
dell'esercizio del nostro munus regale.
115. È la prima volta, infatti, che il
Magistero della Chiesa espone con una certa
ampiezza gli elementi fondamentali di tale
dottrina, e presenta le ragioni del
discernimento pastorale necessario in
situazioni pratiche e culturali complesse e
talvolta critiche.
Alla luce della Rivelazione e
dell'insegnamento costante della Chiesa e
specialmente del Concilio Vaticano II, ho
brevemente richiamato i tratti essenziali
della libertà, i valori fondamentali
connessi con la dignità della persona e con
la verità dei suoi atti, così da poter
riconoscere, nell'obbedienza alla legge
morale, una grazia e un segno della nostra
adozione nel Figlio unico (cf Ef
1,4-6). In particolare, con questa
Enciclica, vengono proposte valutazioni su
alcune tendenze attuali nella teologia
morale. Le comunico ora, in obbedienza alla
parola del Signore che a Pietro ha affidato
l'incarico di confermare i suoi fratelli (cf
Lc 22,32), per illuminare e aiutare
il nostro comune discernimento.
Ciascuno di noi conosce l'importanza della
dottrina che rappresenta il nucleo
dell'insegnamento di questa Enciclica e che
oggi viene richiamata con l'autorità del
successore di Pietro. Ciascuno di noi può
avvertire la gravità di quanto è in causa,
non solo per le singole persone ma anche per
l'intera società, con la riaffermazione
dell'universalità e della immutabilità dei
comandamenti morali, e in particolare di
quelli che proibiscono sempre e senza
eccezioni gli atti intrinsecamente
cattivi.
Nel riconoscere tali comandamenti il cuore
cristiano e la nostra carità pastorale
ascoltano l'appello di Colui che «ci ha
amati per primo» (1 Gv 4,19). Dio ci
chiede di essere santi come egli è santo (cf
Lv 19,2), di essere — in Cristo —
perfetti come egli è perfetto (cf Mt
5,48): l'esigente fermezza del comandamento
si fonda sull'inesauribile amore
misericordioso di Dio (cf Lc 6, 36),
e il fine del comandamento è di condurci,
con la grazia di Cristo, sulla via della
pienezza della vita propria dei figli di
Dio.
116. Abbiamo il dovere, come Vescovi, di
vigilare perché la Parola di Dio sia
fedelmente insegnata. Miei Confratelli
nell'Episcopato, fa parte del nostro
ministero pastorale vegliare sulla
trasmissione fedele di questo insegnamento
morale e ricorrere alle misure opportune
perché i fedeli siano custoditi da ogni
dottrina e teoria ad esso contraria. In
questo compito siamo tutti aiutati dai
teologi; tuttavia, le opinioni teologiche
non costituiscono né la regola né la norma
del nostro insegnamento. La sua autorità
deriva, con l'assistenza dello Spirito Santo
e nella comunione cum Petro et sub Petro,
dalla nostra fedeltà alla fede cattolica
ricevuta dagli Apostoli. Come Vescovi,
abbiamo l'obbligo grave di vigilare
personalmente perché la «sana dottrina»
(1 Tm 1,10) della fede e della morale
sia insegnata nelle nostre diocesi.
Una particolare responsabilità si impone ai
Vescovi per quanto riguarda le
istituzioni cattoliche. Si tratti di
organismi per la pastorale familiare o
sociale, oppure di istituzioni dedicate
all'insegnamento o alle cure sanitarie, i
Vescovi possono erigere e riconoscere queste
strutture e delegare loro alcune
responsabilità; tuttavia non sono mai
esonerati dai loro propri obblighi. Spetta a
loro, in comunione con la Santa Sede, il
compito di riconoscere, o di ritirare in
casi di grave incoerenza, l'appellativo di
«cattolico» a scuole,
179
università,
180
cliniche e servizi socio-sanitari, che si
richiamano alla Chiesa.
117. Nel cuore del cristiano, nel nucleo più
segreto del- l'uomo, risuona sempre la
domanda che un giorno il giovane del Vangelo
rivolse a Gesù: «Maestro, che cosa devo fare
di buono per ottenere la vita eterna?» (Mt
19,16). Occorre però che ciascuno la
rivolga al Maestro «buono», perché è l'unico
che possa rispondere nella pienezza della
verità, in ogni situazione, nelle più
diverse circostanze. E quando i cristiani
gli rivolgono la domanda che sale dalla loro
coscienza, il Signore risponde con le parole
dell'Alleanza Nuova affidate alla sua
Chiesa. Ora, come dice di sé l'Apostolo, noi
siamo mandati «a predicare il vangelo; non
però con un discorso sapiente, perché non
sia resa vana la croce di Cristo» (1 Cor
1,17). Per questo la risposta della
Chiesa alla domanda dell'uomo ha la saggezza
e la potenza di Cristo crocifisso, la Verità
che si dona.
Quando gli uomini pongono alla Chiesa le
domande della loro coscienza, quando
nella Chiesa i fedeli si rivolgono ai
Vescovi e ai Pastori, nella risposta
della Chiesa c'è la voce di Gesù Cristo, la
voce della verità circa il bene e il male.
Nella parola pronunciata dalla Chiesa
risuona, nell'intimo delle persone, la voce
di Dio, che «solo è buono» (Mt
19,17), che solo «è amore» (1 Gv
4,8.16).
Nell'unzione dello Spirito questa
parola dolce ed esigente si fa luce e vita
per l'uomo. È ancora l'apostolo Paolo ad
invitarci alla fiducia, perché «la nostra
capacità viene da Dio, che ci ha resi
ministri adatti di una Nuova Alleanza, non
della lettera ma dello Spirito... Il Signore
è lo Spirito e dove c'è lo Spirito del
Signore c'è libertà. E noi tutti, a viso
scoperto, riflettendo come in uno specchio
la gloria del Signore, veniamo trasformati
in quella medesima immagine, di gloria in
gloria, secondo l'azione dello Spirito del
Signore» (2 Cor 3,5-6.17-18).
|
Conclusione
Maria Madre di misericordia
118. Affidiamo, al termine di queste
considerazioni, noi stessi, le sofferenze e
le gioie della nostra esistenza, la vita
morale dei credenti e degli uomini di buona
volontà, le ricerche degli studiosi di
morale a Maria, Madre di Dio e Madre di
misericordia.
Maria è Madre di misericordia perché Gesù
Cristo, suo Figlio, è mandato dal Padre come
Rivelazione della misericordia di Dio (cf
Gv 3, 16-18). Egli è venuto non per
condannare ma per perdonare, per usare
misericordia (cf Mt 9,13). E la
misericordia più grande sta nel suo essere
in mezzo a noi e nella chiamata che ci è
rivolta ad incontrare Lui e a confessarlo,
insieme con Pietro, come «il Figlio del Dio
vivente» (Mt 16,16). Nessun peccato
dell'uomo può cancellare la misericordia di
Dio, può impedirle di sprigionare tutta la
sua forza vittoriosa, se appena la
invochiamo. Anzi, lo stesso peccato fa
risplendere ancora di più l'amore del Padre
che, per riscattare lo schiavo, ha
sacrificato il suo Figlio:
181
la sua misericordia per noi è redenzione.
Questa misericordia giunge a pienezza con il
dono dello Spirito, che genera ed esige la
vita nuova. Per quanto numerosi e grandi
siano gli ostacoli opposti dalla fragilità e
dal peccato dell'uomo, lo Spirito, che
rinnova la faccia della terra (cf Sal
1031,30), rende possibile il miracolo del
compimento perfetto del bene. Questo
rinnovamento, che dà la capacità di fare ciò
che è buono, nobile, bello, gradito a Dio e
conforme alla sua volontà, è in un certo
senso la fioritura del dono della
misericordia, che libera dalla schiavitù del
male e dà la forza di non peccare più.
Attraverso il dono della vita nuova Gesù ci
rende partecipi del suo amore e ci conduce
al Padre nello Spirito.
119. È questa la consolante certezza della
fede cristiana, alla quale essa deve la sua
profonda umanità e la sua straordinaria
semplicità. Talvolta, nelle discussioni
sui nuovi complessi problemi morali, può
sembrare che la morale cristiana sia in se
stessa troppo difficile, ardua da
comprendere e quasi impossibile da
praticare. Ciò è falso, perché essa
consiste, in termini di semplicità
evangelica, nel seguire Gesù Cristo,
nell'abbandonarsi a Lui, nel lasciarsi
trasformare dalla sua grazia e rinnovare
dalla sua misericordia, che ci raggiungono
nella vita di comunione della sua Chiesa.
«Chi vuole vivere — ci ricorda sant'Agostino
—, ha dove vivere, ha donde vivere. Si
avvicini, creda, si lasci incorporare per
essere vivificato. Non rifugga dalla
compagine delle membra».182
Può capire dunque l'essenza vitale della
morale cristiana, con la luce dello Spirito,
ogni uomo, anche il meno dotto, anzi
soprattutto chi sa conservare un «cuore
semplice» (Sal 852,11). D'altra
parte, questa semplicità evangelica non
esime dall'affrontare la complessità del
reale, ma può introdurre alla sua più vera
comprensione, perché la sequela di Cristo
metterà progressivamente in luce i caratteri
dell'autentica moralità cristiana e darà, al
tempo stesso, l'energia di vita per la sua
realizzazione. È compito del Magistero della
Chiesa vegliare perché il dinamismo della
sequela di Cristo si sviluppi in modo
organico, senza che ne vengano falsate o
occultate le esigenze morali, con tutte le
loro conseguenze. Chi ama Cristo osserva i
suoi comandamenti (cf Gv 14,15).
120. Maria è Madre di misericordia anche
perché a lei Gesù affida la sua Chiesa e
l'intera umanità. Ai piedi della Croce,
quando accetta Giovanni come figlio, quando
chiede, insieme con Cristo, il perdono al
Padre per coloro che non sanno quello che
fanno (cf Lc 23,34), Maria in
perfetta docilità allo Spirito sperimenta la
ricchezza e l'universalità dell'amore di
Dio, che le dilata il cuore e la fa capace
di abbracciare l'intero genere umano. È
resa, in tal modo, Madre di tutti noi, e di
ciascuno di noi, Madre che ci ottiene la
misericordia divina.
Maria è segno luminoso ed esempio
affascinante di vita morale: «la vita di lei
sola è insegnamento per tutti», scrive
sant'Ambrogio,
183
che rivolgendosi in particolare alle vergini
ma in un orizzonte aperto a tutti così
afferma: «Il primo ardente desiderio di
imparare lo dà la nobiltà del maestro. E chi
è più nobile della Madre di Dio? o più
splendida di Colei che fu eletta dallo
stesso Splendore?».184
Maria vive e realizza la propria libertà
donando se stessa a Dio ed accogliendo in sé
il dono di Dio. Custodisce nel suo grembo
verginale il Figlio di Dio fatto uomo fino
al tempo della nascita, lo alleva, lo fa
crescere e lo accompagna in quel gesto
supremo di libertà, che è il sacrificio
totale della propria vita. Con il dono di se
stessa, Maria entra pienamente nel disegno
di Dio, che si dona al mondo. Accogliendo e
meditando nel suo cuore avvenimenti che non
sempre comprende (cf Lc 2,19),
diventa il modello di tutti coloro che
ascoltano la parola di Dio e la osservano
(cf Lc 11, 28) e merita il titolo di
«Sede della Sapienza». Questa Sapienza è
Gesù Cristo stesso, il Verbo eterno di Dio,
che rivela e compie perfettamente la volontà
del Padre (cf Eb 10,5-10). Maria
invita ogni uomo ad accogliere questa
Sapienza. Anche a noi rivolge l'ordine dato
ai servi, a Cana in Galilea durante il
banchetto di nozze: «Fate quello che egli vi
dirà» (Gv 2,5).
Maria condivide la nostra condizione umana,
ma in una totale trasparenza alla grazia di
Dio. Non avendo conosciuto il peccato, ella
è in grado di compatire ogni debolezza.
Comprende l'uomo peccatore e lo ama con
amore di Madre. Proprio per questo sta dalla
parte della verità e condivide il peso della
Chiesa nel richiamare a tutti e sempre le
esigenze morali. Per lo stesso motivo non
accetta che l'uomo peccatore venga ingannato
da chi pretenderebbe di amarlo
giustificandone il peccato, perché sa che in
tal modo sarebbe reso vano il sacrificio di
Cristo, suo Figlio. Nessuna assoluzione,
offerta da compiacenti dottrine anche
filosofiche o teologiche, può rendere l'uomo
veramente felice: solo la Croce e la gloria
di Cristo risorto possono donare pace alla
sua coscienza e salvezza alla sua vita.
O Maria,
Madre di misericordia,
veglia su tutti
perché non venga resa vana la croce di
Cristo,
perché l'uomo non smarrisca la via del bene,
non perda la coscienza del peccato,
cresca nella speranza in Dio
«ricco di misericordia» (Ef 2,4),
compia liberamente le opere buone
da Lui predisposte (cf Ef 2,10)
e sia così con tutta la vita
«a lode della sua gloria» (Ef 1,12).
Dato a Roma, presso San Pietro, il 6
agosto, festa della Trasfigurazione del
Signore, dell'anno 1993, decimoquinto del
mio Pontificato.
|
1
Cost. past. sulla Chiesa nel mondo
contemporaneo
Gaudium et spes,
22.
2
Cf CONC. ECUM. VAT. II, Cost. past. sulla
Chiesa
Lumen Gentium,
1.
3
Cf ibid., 9.
4
CONC. ECUM. VAT. II, Cost. past. sulla
Chiesa nel mondo contemporaneo
Gaudium et spes,
4.
5
PAOLO VI, Allocuzione all’Assemblea
Generale delle Nazioni Unite (4 Ottobre
1965), 1: AAS 57 (1965), 878; cf
Lett. Enc.
Populorum Progressio
(26 Marzo 1967), 13: AAS 59 (1967),
263-264.
6
Cf CONC. ECUM. VAT. II, Cost. past. sulla
Chiesa nel mondo contemporaneo
Gaudium et spes,
16.
7
Cost. past. sulla Chiesa
Lumen Gentium,
16.
8
Pio XII had already pointed out this
doctrinal development: cf "Radio Message"
for the Fiftieth Anniversary of the
Encyclical Letter "Rerum Novarum" of
Leo XIII (1 Giugno 1941): AAS 33
(1941), 195-205. Also JOHN XXIII, Encyclical
Letter "Mater et Magistra" (15 Maggio 1961):
AAS 53 (1961), 410-413.
9
Lettera Apostolica
Spiritus Domini
(1 Agosto 1987): AAS 79(1987), 1374.
10
Catechismo della Chiesa Cattolica, n.
1692.
11
Cost. Apost.
Fidei Depositum
(11 Ottobre 1992), 4.
12
Cf CONC. ECUM. VAT. II, Cost. past. sulla
Divina Rivelazione
Dei Verbum,
10.
13
Cf Lett. Apost.
Parati semper
ai Giovani
e alle Giovani del mondo in occasione
dell’Anno Internazionale della Gioventù
(31 Marzo 1985), 2-8: AAS 77 (1985),
581-600.
14
Cf Decr. Sulla formazione sacerdotale
Optatam Totius,
16.
15
Lett. Enc.
Redemptor Hominis
(4 Marzo 1979), 13: AAS 71 (1979),
282.
16
Ibid. 10; l. c., 274.
17
Exameron, Dies VI, sermo IX,
8, 50: CSEL 32, 241.
18
S. Leone Magno, Sermo XCII, cap. III
PL 54 454.
19
S. Tommaso D’Aquino In Duo Praecepta
Caritatis et in Decem Legis Praecepta.
Prologus: Opuscula Theologica, II, No.
1129, Ed. Taurinens. (1954), 245; cf
Summa Theologiae, I-II, q. 91, a. 2;
Catechismo della Chiesa Cattolica, n.
1955.
20
Cf S. Massimo il Confessore, Quaestiones
ad Thalassium, q. 64: PG 90, 723-728.
21
CONC. ECUM. VAT. II, Cost. past. sulla
Chiesa nel mondo contemporaneo
Gaudium et spes
24.
22
Catechismo della Chiesa Cattolica, n.
2070.
23
In lohannis Evangelium Tractatus, 41,
10: CCL 36, 363.
24
Cf S. Agostino, De Sermone Domini in
Monte, I, 1, 1: CCL 35, 1-2.
25
In Psalmum CXVIII Expositio, sermo
18, 37: PL 15, 1541; cf S. Cromazio di
Aquileia, Tractatus in Mathaeum, XX,
I, 1-4: CCL 9/A, 291-292.
26
Cf Catechismo della Chiesa Cattolica,
n. 1717.
27
In Iohannis Evangelium Tractatus, 41,
10: CCL 36, 363.
28
Ibid., 21, 8: CCL 36, 216.
29
Ibid., 82, 3: CCL 36, 555.
30
De spiritu et littera, 19, 4: CSEL
60, 187.
31
Confessiones, X, 29, 40: CCL 27, 176;
cf De gratia et libero arbitrio, XV:
PL 44, 899.
32
Cf De spiritu et littera, 21, 36; 26,
46: CSEL 60, 189-190; 200-201.
33
Cf Summa Theologiae, I-II, q. 106, a.
1, conclus. e ad 2 um.
34
In Matthaeum, hom. I, 1: PG 57, 15.
35
Cf S. Ireneo, Adversus haereses, IV,
26, 2-5: SCh 100/2, 718-729.
36
Cf S. Giustino, Apologia I, 66: PG 6,
427-430.
37
Cf 1 Pt 2, 12ss.; Didaché, II, 2:
Patres Apostolici, ed. F.X. Funk, I,
6-9; Clemente d'Alessandria, Paedagogus,
I, 10; II, 10: PG 8, 355-364; 497-536;
Tertulliano, Apologeticum, IX, 8:
CSEL, 69, 24.
38
Cf S. Ignazio di Antiochia, Ad Magnesios,
IV, 1-2: Patres Apostolici, ed.
F.X. Funk, I, 234-235; S. Ireneo,
Adversus haereses, IV, 33, 1. 6. 7:
SCh 100/2, 802-805; 814-815; 816-819.
39
Cost. dogm. sulla Divina Rivelazione
Dei Verbum,
8.
40
Cf Ibid.
41
Ibid., 10.
42
Codice di Diritto Canonico, can. 747,
2.
43
Cost. dogm. sulla Divina Rivelazione
Dei Verbum,
7.
44
Conc. Ecum. Vat. II, Cost. past. sulla
Chiesa nel mondo contemporaneo
Gaudium et spes,
22.
45
Decr. sulla formazione sacerdotale
Optatam totius,
16.
46
Cost. past. sulla Chiesa nel mondo
contemporaneo
Gaudium et spes,
62.
47
Ibid.
48
Cf Conc. Ecum. Vat. II, Cost. dogm. sulla
Divina Rivelazione
Dei Verbum,
10.
49
Cf Conc. Ecum. Vat. I, Cost. dogm. sulla
fede cattolica Dei Filius, cap. 4:
DS, 3018.
50
Conc. Ecum. Vat. II, Dich. sulle relazioni
della Chiesa con le religioni non cristiane
Nostra aetate,
1.
51
Cf Conc. Ecum. Vat. II, Cost. past. sulla
Chiesa nel mondo contemporaneo
Gaudium et spes,
43-44.
52
Dich. sulla libertà religiosa
Dignitatis humanae,
1,
con rimando a Giovanni XXIII, Lett. enc.
Pacem in terris
(11 aprile 1963): AAS 55 (1963), 279;
Ibid., 165, e a Pio XII,
Radiomessaggio
(24 dicembre 1944): AAS 37(1944), 14.
53
Dich. sulla libertà religiosa
Dignitatis humanae,
1.
54
Cf Lett. enc.
Redemptor hominis
(4 marzo 1979), 17: AAS 71 (1979),
295-300;
Discorso
ai partecipanti al V Colloquio
Internazionale di Studi Giuridici
(10 marzo 1984), 4: Insegnamenti VII,
1 (1984), 656; Congregazione per la Dottrina
della Fede, Istruz. su libertà cristiana e
liberazione
Libertatis conscientia
(22 marzo 1986), 19: AAS 79 (1987),
561.
55
Cf Conc. Ecum. Vat. II, Cost. past. sulla
Chiesa nel mondo contemporaneo
Gaudium et spes,
11.
56
Ibid., 17.
57
Ibid.
58
Cf Conc. Ecum. Vat. II, Dich. sulla libertà
religiosa
Dignitatis humanae,
2; cf anche
Gregorio XVI, Epist. enc. Mirari vos
arbitramur (15 agosto 1832): Acta
Gregorii Papae XVI, 169-174; Pio IX,
Epist. enc. Quanta cura (8 dicembre
1864) Pii IX P.M. Acta, I, 3,
687-700; Leone XIII, Lett. enc.
Libertas
praestantissimum
(20 giugno 1888): Leonis XIII P.M. Acta,
VIII, Romae 1889, 212-246.
59
A Letter Addressed to His Grace the Duke
of Norfolk: Certain Difficulties Felt by
Anglicans in Catholic Teaching (Uniform
Edition: Longman, Green and Company, London
1868-1881), vol. 2, p. 250.
60
Cf Cost. past. sulla Chiesa nel mondo
contemporaneo
Gaudium et spes,
40 e 43.
61
Cf S. Tommaso d'Aquino, Summa Theologiae,
I-II, q. 71, a. 6; vedi anche ad 5um.
62
Cf Pio XII, Lett. enc.
Humani generis
(12 agosto 1950): AAS 42 (1950),
561-562.
63
Cf Conc. Ecum. Trident., Sessio VI, Decr.
sulla giustificazione Cum hoc tempore,
cann. 19-21: DS, 1569-1571.
64
Cost. past. sulla Chiesa nel mondo
contemporaneo
Gaudium et spes,
17.
65
De hominis opificio, e. 4: PG 44,
135-136.
66
Cost. past. sulla Chiesa nel mondo
contemporaneo
Gaudium et spes,
36.
67
Ibid.
68
Ibid.
69
Cf S. Tommaso d'Aquino, Summa Theologiae,
I-II, q. 93, a. 3, ad 2um, citato da
Giovanni XXIII, Lett. enc.
Pacem in terris
(11 aprile 1963): AAS 55 (1963), 271.
70
Conc. Ecum. Vat. II, Cost. past. sulla
Chiesa nel mondo contemporaneo
Gaudium et spes,
41.
71
S. Tommaso d'Aquino, In duo praecepta
caritatis et in decem legis praecepta.
Prologus: Opuscula theologica, II, n.
1129, Ed. Taurinens. (1954), 245.
72
Cf
Discorso
a un gruppo di vescovi degli Stati Uniti
d'America in visita «ad limina»
(15 ottobre 1988), 6: InsegnamentiXI,
3 (1988), 1228.
73
Cf Conc. Ecum. Vat. II, Cost. past. sulla
Chiesa nel mondo contemporaneo
Gaudium et spes,
47.
74
Cf S. Agostino, Enarratio in Psalmum
LXII 16: CCL 39, 804.
75
Cost. past. sulla Chiesa nel mondo
contemporaneo
Gaudium et spes,
17.
76
Summa Theologiae, I-II, q. 91, a. 2.
77
Cf Catechismo della Chiesa Cattolica, n.
1955.
78
Dich. sulla libertà religiosa
Dignitatis humanae,3.
79
Contra Faustum, lib. 22, cap. 27: PL
42, 418.
80
Summa Theologiae, I-II, q. 93, a. 1.
81
Cf ibid., I-II, q. 90, a. 4, ad 1um.
82
Ibid., I-II, q. 91, a.2.
83
Lett. enc.
Libertas
praestantissimum
(20 giugno 1888): Leonis XIII P.M. Acta,
VIII, Romae 1889, 219.
84
In Epistulam ad Romanos, c. VIII,
lect. 1.
85
Cf Sess. VI, Decr. sulla giustificazione
Cum hoc tempore, cap. 1: DS, 1521.
86
Cf Conc. Ecum. Viennens., Cost. Fidei
catholicae: DS, 902; Conc. Ecum.
Lateranens. V, Bolla Apostolici
regiminis: DS, 1440.
87
Conc. Ecum. Vat. II, Cost. past. sulla
Chiesa nel mondo contemporaneo
Gaudium et spes,
14.
88
Cf Sess. VI, Decr. sulla giustificazione
Cum hoc tempore, cap. 15: DS, 1544.
L'Esortazione apostolica post-sinodale,
circa la riconciliazione e la penitenza
nella missione della Chiesa oggi, cita altri
testi dell'Antico e del Nuovo Testamento,
che riprovano quali peccati mortali alcuni
comportamenti dipendenti dal corpo: cf
Reconciliatio et
paenitentia
(2 dicembre 1984), 17: AAS 77 (1985),
218-223.
89
Conc. Ecum. Vat. II, Cost. past. sulla
Chiesa nel mondo contemporaneo
Gaudium et spes,
51.
90
Congregazione per la Dottrina della Fede,
Istruzione sul rispetto della vita umana
nascente e la dignità della procreazione
Donum vitae
(22
febbraio 1987), Introd. 3: AAS 80
(1988), 74; cf Paolo VI, Lett. enc.
Humanae vitae
(25 luglio 1968), 10: AAS 60 (1968),
487-488.
91
Esort. ap.
Familiaris consortio
(22 novembre 1981), 11: AAS 74
(1982), 92.
92
De Trinitate, XIV, 15, 21: CCL 50/A,
451.
93
Cf S. Tommaso d'Aquino, Summa Theologiae,
I-II, q. 94, a. 2.
94
Cf Conc. Ecum. Vat. II, Cost. past. sulla
Chiesa nel mondo contemporaneo
Gaudium et spes,
10; S.
Congregazione per la Dottrina della Fede,
Dich. su alcune questioni di etica sessuale
Persona humana
(29 dicembre 1975), 4: AAS 68 (1976),
80: «In realtà, la rivelazione divina e, nel
suo proprio ordine, la sapienza filosofica,
mettendo in rilievo esigenze autentiche
dell'umanità, perciò stesso manifestano
necessariamente l'esistenza di leggi
immutabili, inscritte negli elementi
costitutivi della natura umana e che si
manifestano identiche in tutti gli esseri
dotati di ragione».
95
Conc. Ecum. Vat. II, Cost. past. sulla
Chiesa nel mondo contemporaneo
Gaudium et spes,
29.
96
Cf ibid., 16.
97
Ibid., 10.
98
Cf S. Tommaso d'Aquino, Summa Theologiae,
I-II, q. 108, a. 1. S. Tommaso fonda il
carattere non meramente formale ma
contenutisticamente determinato delle norme
morali, anche nell'ambito della Legge Nuova,
nell'assunzione della natura umana da parte
del Verbo.
99
S. Vincenzo di Lérins, Commonitorium
primum, c. 23: PL 50, 668.
100
Lo sviluppo della dottrina morale della
Chiesa è simile a quello della dottrina
della fede: cf Con. Ecum. Vat. I, Cost.
dogm. sulla fede cattolica Dei Filius,
cap. 4: DS, 3020, e cap. 4: DS, 3024.
Anche alla dottrina morale si applicano le
parole pronunciate da Giovanni XXIII in
occasione dell'apertura del Concilio
Vaticano II (11 ottobre 1962); «Occorre che
questa dottrina (= la dottrina cristiana
nella sua integralità) certa e immutabile,
che dev'essere fedelmente rispettata, sia
approfondita e presentata in modo che
risponda alle esigenze del nostro tempo.
Altra cosa è infatti il deposito stesso
della fede, vale a dire le verità contenute
nella nostra venerabile dottrina, e altra
cosa è la forma con cui quelle vengono
enunciate, conservando ad esse tuttavia lo
stesso senso e la stessa portata»: AAS
54 (1962), 792; cf L'Osservatore Romano,
12 ottobre 1962, p. 2.
101
Cost. past. sulla Chiesa nel mondo
contemporaneo
Gaudium et spes,
16.
102
Ibid.
103
In II librum Sentent., dist. 39, a.
1, q. 3, concl.: Ed. Ad Claras Aquas, II,
907 b.
104
Discorso (Udienza generale, 17 agosto
1985), 2: Insegnamenti VI, 2(1983),
256.
105
Suprema S. Congregazione del Sant'Offizio,
Istruz. sull'«etica della situazione»
Contra doctrinam (2 febbraio 1956):
AAS 48 (1956), 144.
106
Lett. enc.
Dominum et
vivificantem
(18 maggio 1986), 45: AAS 78 (1986),
859; cf Conc. Ecum. Vat. II, Cost. past.
sulla Chiesa nel mondo contemporaneo
Gaudium et spes,
16; Dich.
sulla libertà religiosa
Dignitatis humanae,
3.
107
Cost. past. sulla Chiesa nel mondo
contemporaneo
Gaudium et spes,
16.
108
Cf S. Tommaso d'Aquino, De Veritate,
q. 17, a. 4.
109
Conc. Ecum. Vat. II, Cost. past. sulla
Chiesa nel mondo contemporaneo
Gaudium et spes,
16.
110
Cf S. Tommaso d'Aquino, Summa Theologiae,
II-II, q. 45, a. 2.
111
Dich. sulla libertà religiosa
Dignitatis humanae,
14.
112
Conc. Ecum. Vat. II, Cost. dogm. sulla
Divina Rivelazione
Dei Verbum,
5; cf Conc.
Ecum. Vat. I, Cost. dogm. sulla fede
cattolica Dei Filius, cap. 3: DS,
3008.
113
Conc. Ecum. Vat. II, Cost. dogm. sulla
Divina Rivelazione
Dei Verbum,
5; cf S.
Congregazione per la Dottrina della Fede,
Dich. su alcune questioni di etica sessuale
Persona humana
(29 dicembre 1975), 10: AAS 68
(1976), 88-90.
114
Cf Esort. ap. post-sinodale
Reconciliatio et
paenitentia
(2 dicembre 1984), 17: AAS 77 (1985),
218-223.
115
Sess. VI, Decr. sulla giustificazione Cum
hoc tempore, cap. 15: DS, 1544; can. 19:
DS, 1569.
116
Esort. ap. post-sinodale
Reconciliatio et
paenitentia
(2 dicembre 1984), 17: AAS 77 (1985),
221.
117
Ibid.: l. c., 223.
118
Ibid.: l.c., 222.
119
Cf Conc. Ecum. Vat. II, Cost. past. sulla
Chiesa nel mondo contemporaneo
Gaudium et spes,
17.
120
Cf S. Tommaso d'Aquino, Summa Theologiae,
I-II, q. 1, a. 3: «Idem sunt actus
morales et actus humani».
121
De vita Moysis, II, 2-5: PG 44,
327-328.
122
Cf S. Tommaso d'Aquino, Summa Theologiae,
II-II, q. 148, a. 3.
123
Concilio Vaticano II, nella Costituzione
pastorale sulla Chiesa nel mondo
contemporaneo, precisa: «E ciò non vale
solamente per i cristiani ma anche per tutti
gli uomini di buona volontà, nel cui cuore
lavora invisibilmente la grazia. Cristo,
infatti, è morto per tutti e la vocazione
ultima dell'uomo è effettivamente una sola,
quella divina; perciò dobbiamo ritenere che
lo Spirito Santo dia a tutti la possibilità
di venire a contatto, nel modo che Dio
conosce, col mistero pasquale»:
Gaudium et spes,
22.
124
Tractatus ad Tiberium Diaconum sociosque.
II. Responsiones ad Tiberium Diaconum
sociosque: S. Cirillo di Alessandria,
In D. Johannis Evangelium, voi. III, ed.
Philip Edward Pusey, Bruxelles, Culture et
Civilisation (1965), 590.
125
Cf Conc. Ecum. Trident., Sess. VI, Decr.
sulla giustificazione Cum hoc tempore,
can. 19: DS, 1569. Si veda anche:
Clemente XI, Cost. Unigenitus Dei Filius
(8 settembre 1713) contro gli errori di
Pascasio Quesnel, nn. 53-56: DS, 2453-2456.
126
Cf Summa Theologiae, I-II, q.
18, a. 6.
127
Catechismo della Chiesa Cattohca,
n. 1761.
128
In duo praecepta caritatis et in
decem legis praecepta. De dilectione Dei:
Opuscula theologica, II, n. 1168, Ed.
Taurinens. (1954), 250.
129
S. Alfonso Maria De’ Liguori,
Pratica di amar Gesù Cristo, VII, 3.
130
Cf Summa Theologiae, I-II, q.
100, a. 1.
131
Esort. Ap. Post-sinodale
Reconciliatio et
paenitentia
(2 dicembre 1984), 17: AAS 77 (1985),
221; cf Paolo VI, Allocuzione ai
membri della Congregazione del Santissimo
Redentore (settembre 1967): AAS 59
(1967), 962: «Si deve evitare di indurre i
fedeli a pensare differentemente, come se
dopo il Concilio fossero oggi permessi
alcuni comportamenti, che precedentemente la
Chiesa aveva dichiarato intrinsecamente
cattivi. Chi non vede che ne deriverebbe un
deplorevole relativismo morale, che
porterebbe facilmente a mettere in
discussione tutto il patrimonio della
dottrina della Chiesa?»
132
Cost. past. Sulla Chiesa nel mondo
contemporaneo
Gaudium et spes,
27.
133
Lett. enc.
Humanae Vitae
(25 luglio 1968), 14: AAS 60 (1968),
490-491.
134
Contra mendacium, VII, 18: PL
40, 528; cf S. Tommaso D’Aquino,
Quaestiones quodlibetales, XI, q. 7,a.
2; Catechismo della Chiesa Cattolica, nn.
1753-1755.
135
Conc. Ecum. Vat. II, Dich. Sulla
libertà religiosa
Dignitatis humanae,
7.
136
Discorso
ai partecipanti al
Congresso internazionale di teologia morale
(10 aprile 1986), 1: Insegnamenti IX,
q. 7, a. 2; Catechismo della Chiesa
Cattolica, nn. 1753-1755.
137
Ibid. 2: l. c., 970-971.
138
Cf Conc. Ecum. Vat. II, Cost. past.
Sulla Chiesa nel mondo contemporaneo
Gaudium et spes,
24.
139
Cf Lett. Enc.
Redemptor hominis
(4 marzo
1979), 21: AAS 71 (1979), 280-281.
140
Enarratio in Psalmum XCIX, 7:
CCL 39, 1397.
141
Conc. Ecum. Vat. II, cost. dogm. sulla
Chiesa
Lumen gentium,
36; cf Lett. Enc.
Redemptor hominis
(4 marzo
1979), 21: AAS 71 (1979), 316-317.
142
Missale Romanum, In Passione S.
Ioannis Baptistae, Collecta.
143
S. Beda il Venerabile, Homeliarum
Evangelii Libri, II, 23; CCL 122,
556-557.
144
Conc. Ecum. Vat. II, cost. past. sulla
Chiesa nel mondo contemporaneo
Gaudium et spes,
27.
145
C Ad Romanos, VI, 2-3:
Patres Apostolici, ed. F. X. Funk, I,
260-261.
146
Moralia in Job, VII, 21, 24: PL
75, 778.
147
«Summun crede nefas animam praefette
pudori / et propter vitam vivendi perdere
causas»: Satirae, VIII, 83-84.
148
Apologia II, 8: PG 6, 457-458.
149
Esort. ap.
Familiaris consortio
(22 novembre 1981), 33: AAS 74
(1982), 120.
150
Cfibid., 34: l. c.,
123-125.
151
Esort. ap. post-sinodale
Reconciliatio et
Paenitentia
(2 dicembre 1984), 34: AAS 77 (1985),
272.
152
Lett. enc.
Humanae vitae
(25 luglio 1968), 29: AAS 60 (1968),
501.
153
Conc. Ecum. Vat. II, Cost. past. sulla
Chiesa nel mondo contemporaneo
Gaudium et spes,
25.
154
Cf Lett. enc.
Centesimus annus
(1° maggio 1991), 24: AAS 85 (1991),
821-822.
155
Ibid., 44: l.c., 848-849; cf
Leone XIII, Lett. enc.
Libertas
praestantissimum
(20 giugno 1888): Leonis XIII P.M. Acta,
VIII, Romae 1889, 224-226.
156
Lett. enc.
Sollicitudo rei
socialis
(30 dicembre 1987), 41: AAS 80
(1988), 571.
157
Catechismo della Chiesa Cattolica, n.
2407.
158
Cf ibid., nn. 2408-2413.
159
Ibid., n. 2414.
160
Cf Esort. ap. post-sinodale
Christifideles laici
(30 dicembre 1988), 42: AAS 81(1989),
472-476.
161
Lett. enc.
Centesimus annus
(1° maggio 1991), 46: AAS 83 (1991),
850.
162
Sess. VI, Decr. sulla giustificazione Cum
hoc tempore, cap. 11; DS, 1536; cf can.
18: DS 1568. Il noto testo di sant'Agostino,
citato dal Concilio nel passo riferito, è
tratto dal De natura et gratta, 45,
50 (CSEL 60, 270).
163
Oratio I: PG 97, 805-806.
164
Discorso
ai partecipanti a un corso sulla
procreazione responsabile
(1° marzo 1984), 4: Insegnamenti VII,
1 (1984), 583.
165
De interpellatione David, IV, 6, 22:
CSEL 32/2, 283-284.
166
Discorso
ai Vescovi del CELAM
(9 marzo 1985), III: Insegnamenti VI,
1 (1983), 698.
167
Esort. ap.
Evangelii nuntiandi
(8 dicembre 1975), 75: AAS 68 (1976),
64.
168
De Trinitate, XXIX, 9-10: CCL
4, 70.
169
Conc. Ecum. Vat. II, Cost. dogm. sulla
Chiesa
Lumen gentium,
12.
170
17a Congregazione per la Dottrina
della Fede, Istruz. sulla vocazione
ecclesiale del teologo
Donum veritatis
(24 maggio 1990), 6: AAS 82 (1990),
1552.
171
Allocuzione
ai professori e agli studenti della
Pontifìcia Università Gregoriana
(15 dicembre 1979), 6: Insegnamenti
II, 2 (1979), 1424.
172
Congregazione per la Dottrina della Fede,
Istruz. sulla vocazione ecclesiale del
teologo
Donum veritatis
(24 maggio 1990), 16: AAS 82 (1990),
1557.
173
Cf C.I.C., can. 252, 1; 659, 3.
174
Cf Conc. Ecum. Vat. I, Cost. dogm. sulla
fede cattolica Dei Filius, cap. 4: DS
3016.
175
Cf Paolo VI, Lett. enc.
Humanae vitae
(25 luglio 1968), 28: AAS 60 (1968),
501.
176
S. Congregazione per l'Educazione Cattolica,
La formazione teologica dei futuri
sacerdoti (22 febbraio 1976), n. 100. Si
vedano i nn. 95-101, che presentano le
prospettive e le condizioni per un fecondo
lavoro di rinnovamento teologico-morale.
177
Congregazione per la Dottrina della Fede,
Istruz. sulla vocazione ecclesiale del
teologo
Donum veritatis
(24 maggio 1990), 11: AAS 82 (1990),
1554; cf in particolare i nn. 32-39 dedicati
al problema del dissenso: ibid., l.c.,
1562-1568.
178
Cost. dogm. sulla Chiesa
Lumen gentium,
25.
179
Cf C.I.C., can. 803, 3.
180
Cf C.I.C., can. 808.
181
«O inaestimabilis dilectio caritatis: ut
servum redimeres, Filium tradidisti»:
Missale Romanum, In Resurrectione Domini,
Praeconium paschale.
182
In lohannis Evangelium Tractatus, 26,
13: CCL 36, 266.
183
De Virginibus, lib. II, cap. II, 15:
PL 16, 222.
184
Ibid., lib. II, cap. II, 7: PL 16,
220.
Copyright 1993 © Libreria Editrice Vaticana
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