Non a noi, non a chi lo ha conosciuto ed amato,
a chi lo ha seguito nel breve cammino terreno e
l'ha visto procedere svelto e sempre soccorso
dal coraggio sono necessarie molte parole per
capire il valore intimo della cerimonia d'oggi e
per giustificare l'iniziativa gentile di dare il
nome di
Giovanni Descalzo alla Scuola Media di
Sestri Levante.
Ma forse sono necessarie a chi lo ha conosciuto,
a chi lo ha incontrato solo nei libri;
soprattutto sembrano necessarie per i ragazzi
della Scuola, per tutta la larga famiglia di
gioventù che negli anni futuri si appresterà ad
entrare in queste aule, nelle stesse aule in cui
più di cinquanta anni fa il nostro amico ha
imparato a leggere e a scrivere.
E sono anche necessarie per arginare la corrente
violenta e desolante del tempo e per consentirci
nell'atto amoroso della memoria una specie di
esame di coscienza : quasi dovessimo cogliere da
quello che siamo diventati, ciò che Descalzo ha
rappresentato nel senso della purezza, della
libertà spirituale e dell'amore della vita.
Tante volte — sin dai primi contatti — ci siamo
chiesti che cosa costituiva la grazia, la
gentilezza del suo animo e che cosa c'era in lui
che lo distingueva subito dagli altri, da tutti
coloro che avevano avuto maggior fortuna e una
tavola di privilegi, alla partenza. Ebbene, ogni
volta che tentavamo di fare un ritratto sicuro
del Descalzo, eravamo costretti per prima cosa
mettere l'accento sulle sue origini e a legarlo
alla sua ristretta geografia familiare, là fra
gli orti che una volta difendevano il corpo del
paese e vedevano passare il treno, l'immagine di
una civiltà che non si era ancora pianificata e
ridotta.
Descalzo non lo possiamo capire senza la casa
dei nonni, senza il dato del sacrificio e della
pena. La sua partenza è stata dura, tanto dura
quanto semplice e a presidiare, ad alimentare la
parte viva e la fonte della sua poesia si
riconoscevano subito le immagini della donna
provata e sofferente che è stata sua madre e
della nonna che fondava la sua speranza sul
numero dei figli, sull'idea stessa della
famiglia. Ma stiamo attenti a non trarre delle
conseguenze affrettate. Descalzo non ha mai
fatto riferimento a questa sua condizione per
rivendicare delle ragioni comuni, non se n'è mai
servito per mettere in scena se stesso.
Al contrario, ciò che per molti altri scrittori
è stato radice e umore di ribellione, per lui è
stato soltanto limite critico, termine di
coscienza e invito a restare sulle cose concrete
e infine spinta a tradurre in poesia, intesa
come libertà, lo stesso sacrificio e lo stesso
dolore.
Se noi oggi rileggiamo il poemetto « Uligine »
con cui nel '29 si era fatto conoscere con
l'avallo di uno dei suoi primi amici, Piero
Operti, ciò che ci colpisce di più è proprio
quella facoltà di distacco, quella sua capacità
naturale di ricondurre la sua esperienza dolente
in una visione più larga. Descalzo è diventato
poeta per un atto di scelta, di piena coscienza
e, se dovessimo sin d'ora anticipare un giudizio
completo, dovremmo dire che dalla poesia è
partito ma anche alla poesia è arrivato. La
poesia, dunque, come atto di affrancamento
dall'esistenza, dallo squallore e dalle pene :
non tanto come un premio ma piuttosto come una
presa di coscienza. Ed ecco dove si distingueva
dagli altri poeti del suo tempo e poteva
assumere nella particolare famiglia dei poeti
liguri che vantava nomi come quelli di Mario
Novaro, Camillo Sbarbaro, Eugenio Montale,
Ceccardo Roccatagliata Ceccardi e, giù giù, fino
ai più giovani, agli amici che lo avrebbero
accolto nella casa di Circoli, una sua
fisionomia, ben precisa, ben definita. Se per
gli altri era indispensabile fare un riferimento
di natura culturale, per Descalzo la cosa non
era assolutamente indispensabile e già nel
dettato pulito, quasi scolastico di Uligine
c'erano, sì, rievocazioni, echi, allusioni ma
c'era però lo stacco, c'era il segno di una
partenza diversa.
Così, quando si dovette spiegare l'inserimento
di Descalzo nella famiglia di Circoli fra
Grande, Bianchi e Barile, fu giocoforza
ricorrere a degli strumenti di comodo e allora
nacque lo schema dell'autodidatta. Ma si
trattava di una suggestione passeggera, per gran
parte gratuita e autodidatta, in quel caso,
voleva dire che la letteratura il Descalzo
l'aveva incontrata all'aria aperta, nei campi,
sulla riva del mare. Soprattutto voleva dire che
fin verso i trent'anni gli era stato difficile
guadagnarsi il pane, vivere, tirare avanti la
giornata.
Oggi è molto difficile spiegare ai giovani come
fosse articolata l'esistenza degli anni del
primo novecento, impossibile alludere a tutti
gli ostacoli che si frapponevano fra un ragazzo
di ambizioni e di buona volontà e una società
che molto più di oggi si fondava su distinzioni
nette e su dei regolamenti fissati in modo
arbitrario e tradizionale. Naturalmente, quella
prima etichetta giovò e nello stesso tempo
nocque al giovane poeta di Uligine: il
metro della distinzione si traduceva
immediatamente in un pretesto di esteriorità,
quasi che si dovessero spiegare le qualità e i
meriti del poeta con il peso delle difficoltà,
degli ostacoli e la ruota delle sue pene.
Descalzo aveva fatto un po' di tutto, al momento
di lasciare le elementari di Portobello e la
dolorosa e staffilante riga del maestro
Martinangeli, che cosa c'era per Descalzo? La
vita che facevano i suoi zii nelle terre fra la
ferrovia e la Tubifera o la vita di fabbrica o
il mestiere di suo padre, il muratore. Direi che
Descalzo ha assaggiato un po' di tutto, prima di
toccare la sponda del territorio che gli era più
congeniale, quello della tipografia. E non è un
caso che la tipografia confinasse con la scuola:
erano due simboli di quella che sarebbe stata la
sua esistenza.
Se ci aggiungiamo il mare, questo mare modesto
che egli ha cominciato a conoscere sugli scogli
dell'Annunziata nei giorni di scuola e di
vacanza, abbiamo tutta la carta della sua vita.
La vita da guadagnare e possiamo dire che le
cose non sono cambiate con gli anni, con la fama
che era venuta quasi subito, e poi dopo, quando
anche Descalzo sembrò trovare una sistemazione
borghese e si sposò e mise su famiglia.
Non cambiarono perché Descalzo fino all'ultimo
giorno è vissuto provvisoriamente, cercando di
integrare il modesto stipendio di impiegato
comunale — e forse neppure di ruolo — con i
proventi modestissimi e spesso irrisori delle
collaborazioni. Descalzo è rimasto fedele al suo
paese, a un modo di esistenza estremamente umile
e per quanto viaggiasse, per quanto girasse il
mondo non poteva pensare in alcun modo di
tentare l'avventura lunga e prendere la strada
di Milano o di Roma, come avevano fatto un po'
tutti gli amici e i poeti liguri del tempo.
Si dicono queste cose non per gusto di cronaca
ma per far capire che Descalzo nutriva le sue
ambizioni su un terreno diverso e che le sue
speranze erano legate a confini ben precisi :
senza l'idea concreta del suo paese avrebbe
spento il fuoco della sua ispirazione e si
sarebbe ritenuto responsabile di tradimento.
Il dolore era cosi riscattato dalla coscienza,
il gusto dell'avventura giustificato dalla
certezza di avere una casa, una famiglia, di
obbedire allo spirito di creazione. Perché — e
questo lo dico per chi non lo ha conosciuto —
Descalzo non è diventato mai un letterato né
forse l'avrebbe potuto.
Ed ecco che segniamo un'altra sua particolarità:
il letterato della tradizione deve fare uno
sforzo per parlare con gli altri, Descalzo non
ha mai conosciuto questi problemi. Gli bastava
parlare per farsi capire dai suoi, dal popolo,
dalla parte più autentica di quel mondo in cui
magari a volte si compiaceva di comparire come «
escluso » mentre in realtà era sempre a posto,
come uno spirito soccorso dalla grazia della
partecipazione.
Tanto più che aveva coscienza di questo e
nell'accentuare questa sua posizione non cedeva
al gusto di stupire o di fare il populista o
l'imitatore di Jack London e di Gorki. Il
contatto con gli umili, con gli uomini senza
storia che vangano in silenzio il campo
sterminato della nostra storia di sangue e di
fatiche, era per lui spontaneo e necessario. Se
cercate di registrare quella che è stata la
traiettoria del suo discorso poetico, vedrete
che dopo un breve periodo di letteratura, egli
seppe immediatamente riprendersi e staccare
quelle domande dell'inizio che hanno
condizionato la sua esistenza.
Del resto, se leggete il suo primo romanzo «
Gli esclusi », in cui ancora una volta la
materia gli è fornita da una vicenda di cui
tutti i sestresi sono stati spettatori, non
troverete mai un accento forzato e vedrete che
la realtà è vinta e sanata dalla poesia. …
Descalzo non avendo dietro di sé modelli, né
appartenendo a scuole letterarie di nessun
genere aveva saputo portare aria, libertà in un
mondo che sembrava destinato alla degradazione e
anche nella lettura delle nostre miserie aveva
saputo inserire una frazione di avventura, di
gioia di vivere, riuscendo a dare indirettamente
una lezione che val la pena di commentare qui
brevemente, perché in essa riconosciamo il suo
umilissimo e prezioso testamento d'uomo.
Confrontato alla luce dei nostri giorni,
Descalzo poeta e romanziere risulta senza forza,
risulta devitalizzato. Ma si tratta di una
impressione, errata, perché involontariamente
mettiamo l'accento sulla materia iniziale del
dolore, dell'ingiustizia sociale, della
divisione.
Oggi uno scrittore avrebbe trasformato tutto
questo in un libro di protesta, la realtà
vissuta si sarebbe fatalmente convertita in
offesa e violenza. Descalzo non ha fatto nulla
di tutto ciò, anzi ha tenuto a spegnere, a
ridurre, a persuadere il lettore di un'altra
ragione più alta. Ciò significa che per lui il
discorso non si chiudeva tra se stesso e le cose
ma il termine vero, il termine assoluto del
dibattito stava in qualcuno più in alto, diverso
e esigeva lo specchio del mistero. Così se oggi
dovessimo immaginarcelo, se dovessimo cercare di
rendere ai giovani la sua immagine più reale,
per forza ameremmo rappresentarcelo come uno
spirito che scruta la realtà e ha paura delle
risposte immediate, chiare, le risposte che
servono di pretesto e ingannano.
Tutte le volte che riandiamo la sua esistenza e
ce lo rivediamo accanto, di corsa, sempre
trafelato, tra l'ufficio e la casa, fra i viaggi
oltre oceano e le peregrinazioni nell'entroterra
ma sempre fiducioso, sempre pronto e disposto a
vivere, tutte le volte che lo vediamo sospeso
sul discorso che sta facendo, non come uno
spirito che ha la chiave della verità, che
aspetta delle risposte facili, neppure come un
piccolo arbitro, ma soltanto come uno che ha
dato un senso alla vita e sa che la chiave dei
nostri giorni non è nelle nostre mani ma resta
nascosta nelle cose che ci danno dolore e ci
esaltano. C'era, dunque, in lui un sorprendente
equilibrio che lo portava a non alzare mai la
voce e lo lasciava sempre dentro gli uomini,
dentro le cose e non al di fuori o al di sopra.
Quella che abbiamo chiamato la sua
partecipazione traeva la forza da questo
atteggiamento di umiltà e di verità e più andava
avanti negli anni, più aveva coscienza dei
limiti e dei doveri dello scrittore che, secondo
lui, era per l'appunto tenuto a dare un posto,
al mistero. Lo aveva detto subito:
Quando annottava e ognun lasciava il campo,
con tutto il peso delle membra rotte,
gli piaceva giacersi abbandonato
sulla terra vangata: penetrava
il segreto che il grave corpo chiude
entro di sè, lentamente languiva
affondato in un pallido torpore
ne la notte con fredda ala scacciava.
Allora un male ed un bisogno vago
di beni inesprimibili dall'anima
fonda saliva e faceva soffrire.
Così come non aveva tardato a verificare
l'origine di questo dolore, la solitudine:
Erravo al margine dei cimiteri
già da ragazzo, sperdendomi al buio;
vinsi tutti i timori fallaci
irridendo i fantasmi e le tenebre;
ed ora ho bisogno di vivere
tra aliti e voci umane,
perchè più non posso essere solo
temendo me stesso.
Ma
è una solitudine che la certezza delle sue
origini basta a vincere. C'era in Descalzo una
grossa facoltà di recupero nell'immagine del suo
paese:
M'adagio, come a ritrovar l'infanzia,
sulla sabbia che torna ardente e affoca,
nel suo bagliore meridiano, il lento
propagarsi d'immagini marine.
Abbraccio il mare, e un'esultanza nuova,
giovanile, di guizzi ho nelle reni,
nelle libere mani che diguazzano,
sul capo che s'immerge e si sprofonda.
Estate, estate, mi ritorni amica,
e il mondo, ove mi scopro rinnovato,
così vergine appare in luce piena
che non so più come vi giunsi un giorno.
Tutto mi si rischiara, e in sè m'assorbe
quest'alito, che abbrucia sensi e pene
per ricrearmi intatto e darmi il colmo
stupore ove dilegua ogni fatica.
Santuari lontani, bianche chiese
sulle colline, ove a pregar ritorno
come non seppi ancora, vigilanti
scopro a difender la mia casta pace.
E'
questa una delle poesie che restituiscono meglio
il tipo di liberazione attuata da Descalzo, per
cui quando egli parla di « casta pace » ci
accorgiamo che indica una categoria nuova e
trova l'equilibrio così difficile fra poesia e
vita, fra letteratura e vita, fra quello che
diciamo di noi e quello che noi facciamo di noi
stessi. Da questo punto di vista, pochi hanno
avuto eguale fortuna: pochi scrittori possono
dire come Descalzo d'aver trovato qualcosa di
fermo, di sicuro, che non tradisce. E che non
dovesse tradire Descalzo ne avrebbe ancora una
volta avuto una riprova dura e difficile.
Aveva scritto queste parole negli anni di
preparazione alla guerra e certo per la parte
della sua bontà, della sua fiducia nell'onestà
degli uomini, specialmente di quelli che avevano
illuso la sua gioventù, Giovanni Descalzo non
poteva immaginare di quali dolori sarebbe stato
colmo l'immediato futuro. Venne la guerra;
Descalzo ci tenne a mantenere i suoi impegni e
se per un tempo poté nutrire le sue speranze dei
colori più belli del suo eterno paese ( «
Paese tra il mare e gli ulivi », così vicino
che a sera ti tocco — se allungo il cannocchiale
dal terrazzo...), non tardò negli anni cupi
della disperazione e della ferocia a riconoscere
l'altro volto della nostra storia:
Rombi e spari, spari e rombi,
null'altro : e sirene d'allarmi,
e spasimi nel sangue, e rimbombi
nel capo e nelle arterie.
La mia piccina schiacciata:
schiacciata tra le mie braccia
col capo penzoloni come un passero tramortito.
E a nulla giova,
nella voragine, urlare e dannarsi,
schiacciati tutti da questa, che non cessa,
carneficina orrenda, di sperduti
nella follia delle stragi
sterminatrici.
Oh, Signore, oh Signore,
se la vita è quel bene
che ci fa trepidi e muti,
che ci fa ansiosi e proni,
libera il cuore umano
dal suo odio vorace.
Era l'anno 1944, Descalzo veniva colpito nella
parte più gelosa della sua fede umana ma sarebbe
stato non conoscerlo pensare che l'avversità, il
dolore ne potessero modificare la fisionomia.
Nei pochi anni che gli sarebbero rimasti da
vivere, fino a quando la morte non lo avrebbe
colto di sorpresa in una sera di settembre
mentre si preparava a predisporre la
sistemazione della nuova casa, Descalzo non
doveva far altro che approfondire la sua casta
interrogazione della vita, ancora una volta
anteponendo l'insegna della speranza a quella
della desolazione e del rifiuto.
Per questo varrà sempre come sua ultima parola e
meglio come sua parola in assoluto questo breve
componimento :
Chi ci vieta di giungere, …
sereni, al limitare della sera? …
Ogni giorno è il corruccio senza nome
che punge, incerto, ogni risorta brama.
Se ci bastasse l'esile
felicità che ci incorona, innanzi
alla vera letizia del sorriso
nato da chi ci attende e leva alucce
di manine a sentire il nostro fiato,
chiusa sarebbe oltre l'uscio ogni oscura
incertezza di giorni e di vicende.
Quando avremo la forza di sospingere
oltre la soglia ogni ricordo ingrato?
E', dunque, una parola di fede che Descalzo ci
ha lasciato e su cui tocca a noi insistere,
oggi, in modo particolare, inaugurandosi la sua
scuola. Così com'è una parola di speranza che
egli lascia ai giovani per mezzo della sua
bambina, con cui si può dire ha dialogato gli
ultimi anni della sua vita. Sarebbe retorica se
alla base di ogni suo movimento poetico non ci
fosse — e come evidente — questo senso di
continuità umana, questo senso delle nostre,
reali e concrete possibilità, questa verità dei
nostri limiti. La poesia non ha suggerito a
Giovanni Descalzo evasioni, tradimenti ma solo
ritorni, ripensamenti, approfondimenti. Né la
solitudine né il dolore ne hanno fatto un
profeta e un ribelle : la vittoria è rimasta
alla sua casta fantasia, senza per questo
dimenticare quelle che sono le pene di chi ci
sta vicino, le pene conosciute e quelle
sconosciute. E' di oggi la curiosa domanda di
uno scrittore famoso francese : che peso ha la
nostra letteratura in un mondo di affamati?
Descalzo probabilmente si era fatta questa
stessa domanda, lui che per l'appunto
apparteneva alla famiglia degli esclusi e dei
diseredati, ma se se l'era fatta, non c'è dubbio
che aveva anche trovato la risposta da dare a
questi momenti di sgomento e di conforto
dell'anima umana. La pazienza, l'umiltà, la
partecipazione : leggete Descalzo, ritornate ai
suoi versi e alle sue prose, non avrete mai
altra risposta che questa di una generosa e
silenziosa presenza.
E voi che mi avete ascoltato, soprattutto voi
ragazzi che avrete l'onore di tornare in queste
sue aule e di affacciarvi sul mare della sua
prima poesia ricordate che ciò che rende
prezioso e inimitabile il volto di Giovanni
Descalzo è proprio questo modo di essere leali
con la vita, questa capacità di raggiungere,
oltre le nostre personali barriere, il senso
alto della carriera terrena, l'alito religioso
di una presenza diversa che placa l'ansia e la
pena.
In fondo, Descalzo col suo smilzo libro di versi
ci ha ricordato questo punto centrale e che noi
per amore e per fedeltà non dobbiamo né
dimenticare né tradire, e, cioè, che solo
pagandola si ha diritto alla vita e che solo
l'umiltà nel dolore e la forza della coscienza
ci consentono il riscatto dal male e la stretta
della speranza.