327.
Spiegazione del quinto comandamento
L'insigne felicità promessa ai pacifici, che saranno chiamati figli di
Dio (Mt 5,9), deve stimolare in sommo grado i Pastori a spiegare
e inculcare con assidua diligenza, ai fedeli l'osservanza di questo
comandamento; non v'è modo migliore di fondere le volontà umane nel
rispetto universale e generoso di questo precetto, rettamente spiegato.
Se ciò si verificherà, gli uomini, strettamente affratellati in un saldo
consenso spirituale, conserveranno bene la pace e la concordia.
Quanto sia necessario spiegare questo precetto risulta dalla circostanza
che, dopo il diluvio universale, fu questa la prima proibizione emanata
da Dio agli uomini: Del vostro sangue faro vendetta sopra qualsiasi
animale e faro vendetta della uccisione di un uomo sopra l'uomo (Gn
9,5). Nel Vangelo, là dove il Signore spiega le antiche leggi,
questa è al primo posto come si legge in S. Matteo: E comandato: Non
ammazzare; con tutto quel che segue nel passo indicato (5,21).
I fedeli dal canto loro devono prestare attento e volenteroso ascolto a
questo comando. La sua forza vale a tutelare la vita di ciascuno. Con le
parole infatti: Non ammazzare, è perentoriamente vietato l'omicidio.
Perciò ciascuno deve accoglierlo con si viva prontezza come se, con
minaccia dell'ira di Dio e di altre gravissime pene stabilite, fosse
tassativamente vietata la lesione di questo o quell'individuo. Come tale
precetto è confortante ad essere ascoltato, cosi l'eliminazione del
delitto che esso proibisce deve recare soddisfazione.
328. Eccezioni al
quinto comandamento
Spiegando il contenuto di questa legge, il Signore mostra che
essa comprende due elementi: il primo, negativo: divieto dell'uccisione;
il secondo, positivo: ingiunzione di estendere la nostra concorde e
caritatevole amicizia anche ai nemici, per avere pace con tutti, sia
pure affrontando con pazienza ogni contrarietà.
Enunciata la legge che vieta di uccidere, il Parroco dovrà subito
indicare le uccisioni, che non sono proibite. Non è infatti vietato di
uccidere animali. Se Dio ha concesso agli uomini di nutrirsene, deve
essere lecito ucciderli. In proposito dice sant'Agostino: Non dobbiamo
applicare la formula " non ammazzare " ai vegetali, cui manca ogni
facoltà sensibile, né agli animali irragionevoli, che non sono collegati
a noi da alcuna virtù razionale (La città di Dio, I,20).
Altra categoria di uccisioni permessa è quella, che rientra nei poteri
di quei magistrati, i quali hanno facoltà di condannare a morte. Tale
facoltà, esercitata secondo le norme legali, serve a reprimere i
facinorosi e a difendere gli innocenti. Applicando tale facoltà, i
magistrati non solamente non sono rei di omicidio, ma, al contrario,
obbediscono in una maniera superiore alla Legge divina, che vieta di
uccidere, poiché il fine della legge è la tutela della vita e della
tranquillità umana. Ora, le decisioni dei magistrati, legittimi
vendicatori dei misfatti, mirano appunto a garantire la tranquillità
della vita civile, mediante la repressione punitiva dell'audacia e della
delinquenza. Ha detto David: Sulle prime ore del giorno soppressi tutti
i peccatori del territorio, onde eliminare dalla città del Signore tutti
coloro che compiono iniquità (Ps 100,8).
Per le medesime ragioni non peccano neppure coloro che, durante una
guerra giusta, non mossi da cupidigia o da crudeltà, ma solamente
dall'amore del pubblico bene, tolgono la vita ai nemici.
Vi sono anzi delle uccisioni compiute per espresso comando di Dio. I
figli di Levi non peccarono quando in un giorno solo uccisero tante
migliaia di uomini; dopo di che, Mosè rivolse loro le parole: Oggi avete
consacrato le mani vostre a Dio (Ex 32,29).
Infine non è reo di trasgressione a questo precetto chi, non di
spontanea volontà e di proposito, ma per disgrazia uccide un altro. E
scritto nel Deuteronomio: Chi per caso abbia colpito il suo prossimo, e
si riesca a provare che né ieri, né ieri l'altro nutriva odio per il
colpito, ma che recandosi insieme a far legna nel bosco, nel tagliare i
tronchi, la scure gli sfuggi di mano e il ferro spiccato dal manico
colpi l'amico e l'uccise (XIX), tale uccisione non compiuta per atto di
volontà e studiatamente, non può assolutamente imputarsi a colpa. Lo
conferma la sentenza di sant'Agostino: Nessuno pensi che possa esserci
addebitato ciò che facciamo per il bene o per il lecito, anche se
importi, senza il nostro volere, qualcosa di male (Lett. XLVII,5;
CC3,6).
Ma anche in tali casi tuttavia può talora esserci colpa: se cioè
l'uccisore involontario sia intento a cosa ingiusta, o se l'uccisione si
verifichi per negligenza e imprudenza, non essendo state valutate tutte
le circostanze. Un esempio del primo caso: se uno percuotendo con un
pugno o un calcio una donna incinta, provochi l'aborto, pur essendo ciò
fuori dell'intenzione del percussore, non si può dire immune da colpa,
non essendo in alcun modo lecito percuotere una donna incinta.
Che la legge poi non colpisca chi uccide un altro in difesa della
propria vita, avendo però adoperato ogni cautela, è evidente.
329.
Azioni proibite dal quinto comandamento
Queste sono dunque le categorie di uccisioni non comprese nella Legge.
Fatta eccezione per esse, tutte le altre sono proibite, qualunque sia la
qualità dell'uccisore, dell'ucciso e la modalità dell'atto omicida.
Per quanto riguarda la persona dell'uccisore, nessuno sfugge al
precetto: non il ricco, non il potente, non il padrone, non i genitori.
A tutti è vietato di uccidere, ripudiata ogni considerazione personale.
Per quanto riguarda gli uccisi, anche qui la Legge ha un ambito
universale, né c'è individuo per quanto umile e misero, il quale non sia
tutelato dalla validità di questa legge. Né ad alcuno è lecito togliersi
quella vita su cui nessuno ha cosi pieno potere da essere in diritto di
sopprimerla quando voglia. Il tenore stesso del precetto lo indica,
poiché non è detto: Non ammazzare altri; ma puramente e semplicemente:
Non ammazzare.
Infine avendo di mira i vari modi con cui può esser data la morte,
neppure a questo proposito sussistono eccezioni. E vietato infatti non
solamente uccidere chicchessia con le proprie mani, col ferro, con
pietra, con bastone, con laccio o col veleno, ma anche il procurare la
morte col consiglio, con l'aiuto, col concorso e qualsiasi altro mezzo.
Sono evidenti l'ottusità e la fatuità degli Ebrei che ritenevano di
rispettare la legge astenendosi semplicemente dall'uccidere con le
proprie mani. Il cristiano che dalla parola di Gesù Cristo ha appreso
come tale legge abbia un valore spirituale e impone non solo di
conservare pure le mani, ma casto e e incontaminato lo spirito, non
ritiene davvero sufficiente quel che gli Ebrei credevano cosi di
adempiere a sufficienza. Il Vangelo insegna che non è lecito neppure
farsi vincere dall'ira. Il Signore infatti ha detto: Ma io vi dico:
chiunque si adira contro il suo fratello, sarà condannato in giudizio. E
chi avrà detto al suo fratello: Raca, sarà condannato nel Sinedrio. E
chi gli avrà detto: Stolto, verrà condannato al fuoco della Geenna (Mt
5,22).
Da queste parole risulta nettamente che non è esente da colpa chi si
adira contro il proprio fratello, anche se chiuda l'ira nel proprio
animo. Chi poi all'ira concede una espressione esterna, pecca
gravemente; e più gravemente pecca chi osi trattare duramente e
svillaneggiare il proprio simile. Naturalmente tutto ciò è vero nel caso
che non sussista alcuna plausibile ragione per l'ira; poiché c'è una
legittima ragione di sdegno, ammessa da Dio e dalle leggi. E si verifica
quando ci leviamo contro le colpe di coloro che sono sottoposti al
nostro comando e alla nostra potestà. Lo sdegno del cristiano deve però
prorompere non dai sensi, ma dallo Spirito Santo, dovendo noi essere i
suoi templi, e dimora di Gesù Cristo (1Co 6,19).
Molte parole del Signore si riferiscono alla perfezione di questa legge.
Ad esempio: Non opporre resistenza al male; Se ti avran percosso sulla
guancia destra, presenta anche l'altra; A chi vuoi bisticciarsi con te
per aver la tua tunica, da pure il mantello; Continua ad andare per
altre due miglia con chi ti avrà bistrattato già per un miglio intero (Mt
5,39).
330.
L'omicidio
Da
quanto siamo venuti dicendo è lecito arguire quanto siano proclivi gli
uomini alle colpe vietate da questo comandamento, e quanto numerosi
siano coloro che, se non con le mani, almeno con l'animo cadono in
questo peccato. E poiché le sacre Scritture indicano nettamente i rimedi
salutari contro questo pericoloso morbo, è dovere del Parroco farne
diligente esposizione ai fedeli, insistendo specialmente sulla gravita
mostruosa dell'omicidio, quale traspare da copiosissime ed esplicite
testimonianze della sacra Scrittura (Gn 4,10 Gn 9,16 Lv 24,17).
L'abominazione di Dio contro l'omicidio giunge nella Bibbia fino a
punire le bestie ree di omicidio, comandando che sia ucciso l'animale
che abbia leso un essere umano (Ex 21,28). Anzi, la principale
ragione per cui Dio volle che ogni uomo avesse orrore del sangue, è
appunto qui: affinché conservasse integralmente mondi dal riprovevole
omicidio l'animo e le mani. Sono in realtà omicidi del genere umano, e
quindi nefasti avversari della natura, tutti coloro che, per quanto è
loro dato, sovvertono l'opera universale di Dio sopprimendo l'uomo per
il quale Dio dichiara di avere creato il mondo visibile (Gn 1,26).
E poiché è scritto nella Genesi ch'è vietato di commettere omicidi,
avendo Dio creato l'uomo a sua immagine e somiglianza, fa veramente una
sfacciata ingiuria a Dio, quasi volesse menare con violenza le mani
contro di Lui, chiunque toglie di mezzo una sua immagine (Gn 9,6).
Meditando ciò con animo ispirato, David pronunciò gravi lamenti contro i
sanguinari, quando disse: Rapidi sono i loro passi verso lo spargimento
di sangue (Ps 13,36). Non disse egli puramente: uccidono, ma:
spargono sangue, quasi a far risaltare la detestabilità del delitto e la
smisurata crudeltà dell'omicida. E per illustrare come siano
violentemente spinti dall'istinto diabolico al delitto, premette:
Corrono rapidi i loro passi.
331.
Azioni inculcate dal quinto comandamento
In
sostanza quanto nostro Signore Gesù Cristo prescrive che sia osservato
con questo comandamento, mira a farci conservare rapporti pacifici con
tutti. Dice infatti, interpretandolo: Se tu stai per fare l'offerta
all'altare e là ti viene alla memoria che un tuo fratello ha qualche
cosa contro di te, abbandona la tua offerta davanti all'altare, e va
prima a riconciliarti col tuo fratello e poi ritorna a fare la tua
offerta (Mt 5,23), con quel che segue. Il Parroco spiegherà tutto
ciò in modo che s'intenda come tutti, senza eccezione, devono essere
inclusi nel medesimo sentimento di carità. E a tale sentimento, nella
spiegazione del precetto, stimolerà quanto più sarà possibile i fedeli,
perché in esso riluce sopra tutto la virtù dell'amore del prossimo.
Infatti, vietandosi apertamente con questo comandamento l'odio, poiché
chi odia il proprio fratello è omicida (1Jn 3,15), ne segue che
c'è qui implicito il precetto dell'amore e della carità. E se nel
comandamento che studiamo è imposta la legge della carità e dell'amore,
nel medesimo tempo sono formulati i precetti di tutti quei servizi ed
atti che sogliono scaturire dalla carità. " La carità è paziente ", dice
san Paolo (1Co 13,4); anche la pazienza dunque ci è comandata; e
con essa, secondo la parola del Salvatore, noi saremo in possesso delle
anime nostre (Lc 21,19).
Segue, come prossima compagna della carità, la beneficenza, perché " la
carità è benigna ". La virtù della benignità o della beneficenza
possiede una sfera vasta, esplicandosi sopratutto nel provvedere ai
poveri il necessario, agli affamati il cibo, agli assetati la bevanda,
ai nudi il vestito. Essa vuole che la nostra liberalità vada con
maggiore larghezza a chi più abbisogna del nostro soccorso. Le opere
della beneficenza e della bontà, per sé già cosi meritevoli, assumono un
valore insigne, se dirette ai nostri nemici. Disse infatti il Salvatore:
Amate i vostri nemici; fate del bene a chi vi odia (Mt 5,44).
Analogamente ammonisce l'Apostolo: Se il tuo avversario soffre la fame,
nutrilo; se ha sete dagli da bere; cosi facendo, accumulerai sul suo
capo carboni ardenti. Non ti far vincere dal male, ma vinci il male col
bene (Rm 12,20). Infine, volendo esporre tutta la legge della
carità, che è benigna, riconosceremo che il precetto ordina di
uniformare sempre le nostre azioni a mitezza, a dolcezza e a tutte le
altre virtù affini.
Però il compito più alto e più riboccante di carità, nel quale dobbiamo
con maggior cura esercitarci, è quello di perdonare e di dimenticare con
cuore sereno le ingiurie ricevute. Come abbiamo detto, la sacra
Scrittura ammonisce insistentemente di farlo senza riluttanza, non solo
dichiarando beati coloro che ciò praticano (Mt 5 , ma proclamando
perdonate Dio le loro colpe imperdonabili quelle di coloro che vi si
rifiutano o sono negligenti nel farlo (Si 27,1; Mt 6,15; 18,34; Mc
11,26).
332.
I motivi di perdonare le offese
Poiché la brama della vendetta è quasi innata nello spirito degli
uomini, il Parroco usi tutta la diligenza non solo nell'insegnare, ma
proprio nell'inculcare e persuadere i fedeli che dimenticare le offese e
perdonarle è stretto dovere del cristiano. Ed essendo copiose le
testimonianze degli scrittori sacri in proposito, ne faccia tesoro per
spezzare la pertinacia di coloro che hanno l'animo indurito nella
voluttà della vendetta. Abbia perciò pronte le ponderate e
opportunissime argomentazioni dei Padri, fra cui tre meritano speciale
menzione.
Innanzi tutto, chi si ritiene ingiuriato deve convincersi che la causa
principale del fatto non va ricercata in colui contro il quale agogna
vendetta. L'ammirabile Giobbe gravemente danneggiato da Sabei, da Caldei
e dal demonio, essendo uomo retto e pio, non tiene conto di loro, ma
esce in queste pie e sante parole:Il Signore dono, il Signore tolse (Jb
1,21). Sull'esempio e sulla parola di quell'uomo pazientissimo, i
cristiani vogliano persuadersi che in verità quanto soffriamo in questa
vita, deriva da Dio, padre ed autore di ogni giustizia come di ogni
misericordia. La sua immensa misericordia non ci punisce come avversari,
ma ci corregge e castiga come figli.
A ben considerare le cose, gli uomini sono qui semplicemente ministri ed
emissari di Dio; pur potendo un uomo odiare malvagiamente un altro e
desiderargli ogni male, non può in realtà nuocergli se non lo permetta
Dio. Persuasi di ciò, Giuseppe sostenne serenamente gli empi propositi
dei fratelli (Gn XLV,5), e David le ingiurie di Simei (2 Re, 16,10). In
queste considerazioni rientra l'argomento svolto con grande dottrina dal
Crisostomo, secondo il quale ciascuno è causa del proprio male. Infatti
coloro che si ritengono maltrattati, se ben considerino la loro
situazione, si accorgeranno di non aver subito ingiuria o danno dagli
altri, potendo le lesioni e le offese provenire apparentemente
dall'esterno; ma siamo in realtà noi stessi la causa del nostro male,
contaminando l'animo con le nefaste passioni dell'odio, della cupidigia,
dell'invidia.
In secondo luogo, due insigni vantaggi ricadono su coloro che, spinti
dal santo amore di Dio, perdonano di buon grado le offese ricevute. Il
primo è questo: Dio ha promesso che chi rimette agli altri i torti,
otterrà il perdono delle proprie colpe (Mt 6,14); donde appare
quanto gli sia gradito simile atto di virtù. L'altro sta nella nobiltà e
nella perfezione conseguite da chi perdona. Dimenticando le ingiurie,
diveniamo in certo modo simili a Dio, il quale fa sorgere il sole
egualmente sui buoni e sui cattivi e distribuisce la pioggia su giusti
ed ingiusti (Mt 5,45).
Infine, devono essere spiegati gli inconvenienti a cui andiamo incontro,
non perdonando le ingiurie a noi recate. Perciò il Parroco farà
considerare a coloro che non vogliono perdonare ai propri nemici, come
l'odio non solo sia un grave peccato, ma divenga più grave col
persistervi. Chi è padroneggiato da questo sentimento, assetato del
sangue dell'avversario, e pieno di speranza nella vendetta, trascorre
notte e giorno in un tale permanente sconvolgimento malefico dello
spirito che non sembra mai sgombro dal fantasma della strage o di
qualche azione nefasta. Costui giammai, o solo da straordinari motivi,
potrà essere indotto a perdonare del tutto, o a dimenticare in parte le
ingiurie. A buon diritto viene paragonato alla ferita su cui il dardo è
rimasto infitto.
Sono molteplici in verità i peccati stretti insieme da comune vincolo
nella colpa unica dell'odio. San Giovanni disse chiaramente in
proposito: Chi odia il proprio fratello giace nelle tenebre, e procede
nell'oscurità, ignaro della sua meta; le tenebre tolsero il lume dai
suoi occhi (1Jn 2,11), cosicché è destinato a cadere di
frequente. Come, ad esempio, potrebbe approvare i detti o i fatti di
colui che odia? Di qui i fallaci giudizi temerari, le ire, le invidie,
le maldicenze e simili manifestazioni di malevolenza, che vanno a
colpire anche chi è legato da parentela o da amicizia alla persona
dell'odiato. Da una colpa ne nascono cosi diecine; e non a torto si dice
che questo è il peccato del demonio, che fu omicida fin dall'inizio. Il
Figlio di Dio, nostro Signore Gesù Cristo, disse appunto che i Farisei
erano generati dal diavolo proprio perché desideravano di metterlo a
morte (Jn 8,44).
Quanto abbiamo detto fin qui riguarda le ragioni che possono addursi per
inculcare la determinazione di questo peccato. Ma nei monumenti della
letteratura sacra è facile anche rinvenire i rimedi più opportuni a
tanto flagello. Il primo e il più efficace è l'esempio del nostro
Salvatore, che noi dobbiamo proporci di imitare. Sebbene la più tenue
ombra di mancanza non potesse offuscare il suo immacolato candore,
quantunque percosso con verghe, coronato di spine e confitto sulla
croce, pronunciò queste parole, ricche di misericordia: Padre,
perdonali, perché non sanno quello che fanno (Lc 23,34).
L'effusione di questo sangue, secondo la testimonianza dell'Apostolo,
parla ben più eloquentemente che quello di Abele (He 12,24).
Un secondo rimedio viene proposto dall'Ecclesiastico, e consiste
nell'aver presenti la morte e il giorno del giudizio. Ricorda, esso
dice, i tuoi ultimi eventi, e non peccherai in eterno (Eccl. 7,40). In
altri termini: pensa molto spesso che tra poco ti coglierà la morte; e
poiché in quell'ora suprema sarà per te d'interesse massimo impetrare
l'infinita misericordia di Dio, è necessario che essa ti sia dinanzi ora
e sempre. Cosi quella bramosia di vendetta che cova in te, si estinguerà
prontamente, non esistendo mezzo più valido, a ottenere la misericordia
divina, del perdono delle ingiurie e dell'amore verace per coloro che,
con la parola o con le azioni, offesero te o i tuoi.
|