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							Il 
							presbitero o ministro ordinato, al di là del 
							particolare ufficio che svolge nella Chiesa, esprime 
							il suo essere specifico - ossia, il suo essere 
							immagina di Cristo-capo a servizio della Chiesa - 
							attraverso la carità pastorale. Sì, la carità 
							pastorale sulla quale con voi desidero riflettere in 
							questo nostro incontro che, per la prima volta, ci 
							vede insieme in un momento di preghiera. Che cos’è 
							la carità pastorale? Qual è il significato della 
							carità pastorale? In che cosa si caratterizza 
							rispetto al vincolo della comune carità che, 
							ovviamente, il presbitero condivide con gli altri 
							membri del popolo di Dio? La carità pastorale è una 
							forma specifica d’amore, se preferite un modo 
							particolare d’amare proprio del sacerdote ordinato. 
							Si tratta di un dono di sé che inerisce, vale a dire 
							si radica, nella realtà sacramentale in cui il 
							presbitero viene costituito nel momento 
							dell’ordinazione; la carità pastorale deve 
							intendersi in tale modo; e il Direttorio per il 
							ministero e la vita dei presbiteri, proprio 
							circa la carità pastorale, si serve di queste 
							parole: «costituisce il principio interiore e 
							dinamico capace di unificare le molteplici e diverse 
							attività pastorali del presbitero e, dato il 
							contesto socio-culturale e religioso nel quale vive, 
							è strumento indispensabile per portare gli uomini 
							alla vita della Grazia» (n. 43).
 Quindi ogni gesto, ogni parola del presbitero devono 
							essere segnati da questa carità pastorale, in modo 
							tale che egli giunga al dono totale di sé, andando 
							oltre la dedizione di quanti anche con grande 
							generosità s’impegnano nella loro attività 
							lavorativa o professione. La carità pastorale non è 
							qualcosa che s’improvvisa nella vita del presbitero 
							o una conquista che si raggiunge una volta per 
							sempre; piuttosto è qualcosa che inerendo allo stato 
							sacerdotale non è destinata a venir meno anche 
							quando, per motivi di salute o età, si viene 
							sgravati - per il bene proprio e della comunità a 
							cui fino ad allora si è servito - da determinati, 
							concreti incarichi pastorali (cfr. n. 43); muterà, 
							piuttosto, il modo d’esercitarla.
 
 Il pensiero riguardante la carità pastorale si 
							chiarisce se si legge quanto il Direttorio 
							afferma a proposito del funzionalismo che 
							corrisponde e bene esprime una logica propria della 
							nostra società, del nostro tempo, della nostra 
							cultura. Quindi il presbitero, che ovviamente è uomo 
							immerso nella società, nella cultura del suo tempo, 
							è facilmente esposto a pensare il proprio sacerdozio 
							e vivere il ministero e la vita in maniera 
							funzionale. Una vita intesa secondo i parametri 
							dell’efficientismo del mondo, un’esistenza sotto il 
							segno del “mordi e fuggi”, perché intanto quello che 
							vale oggi domani sarà già superato; ciò che conta, 
							infatti, è l’apparire e l’essere visti. Così, mentre 
							si esercita una professione, ossia si fa il medico, 
							il magistrato, l’operaio o l’impiegato, diversamente 
							preti lo si è e lo si è per sempre; quindi non è 
							corretto domandarsi: che cosa fa il prete? Ma, 
							piuttosto: chi è il prete?  Quindi non che cosa fa?  
							Ma: chi è il prete? La prospettiva cambia in modo 
							radicale. Anche una domanda può esser posta in modo 
							più o meno pertinente e da essa dipende una 
							risposta; certo è lecito domandarsi anche: che cosa 
							fa il prete? Ma sempre alla luce dell’altra domanda 
							fondante, che deve rimanere sullo sfondo: chi è il 
							prete?
 
 Proprio secondo questa elementare ma chiarificatrice 
							domanda - non cosa fa il prete? ma chi è il prete? - 
							leggiamo il n. 44 del Direttorio a proposito 
							del funzionalismo: «La carità pastorale corre, oggi 
							soprattutto, il pericolo d’essere svuotata del suo 
							significato dal cosiddetto funzionalismo. Non è 
							raro, infatti, percepire, anche in alcuni sacerdoti, 
							l’influsso di una mentalità che tende erroneamente a 
							ridurre il sacerdozio ministeriale ai soli aspetti 
							funzionali. ‘Fare’ il prete, svolgere singoli 
							servizi e garantire alcune prestazioni d’opera 
							sarebbe il tutto dell’esistenza sacerdotale. Tale 
							concezione riduttiva dell’identità e del ministero 
							sacerdotale, rischia di spingere la vita di questi 
							verso un vuoto, che viene spesso riempito da forme 
							di vita non consone al proprio ministero. Il 
							sacerdote che sa d’essere ministro di Cristo e della 
							sua Sposa troverà nella preghiera, nello studio e 
							nella lettura spirituale la forza necessaria per 
							vincere anche questo pericolo» (n. 44).
 
 Così la carità pastorale è intesa come “amore”, 
							ossia dono di sé, ma sempre a partire dal sacramento 
							dell’ordine e, conseguentemente, dalla realtà 
							concreta del ministero che, appunto, attraverso 
							l’ordinazione presbiterale, si connette 
							intrinsecamente e indelebilmente alla realtà 
							sacramentale. Insomma il modo d’amare, di servire, 
							di pazientare, di perdonare, non potrà mai 
							prescindere dall’essere presbiteri, ossia chiamati a 
							servire i fratelli, rendendo loro presente 
							attraverso parole e gesti di Cristo e della Chiesa, 
							il Signore Gesù. Un padre, una madre amano il figlio 
							in forza della loro paternità e maternità, in quanto 
							appunto sono padre e madre e perché quel bambino è 
							loro figlio; essi lo amano non perché egli si merita 
							il loro amore e se anche il figlio si meritasse il 
							loro amore, il padre e la madre lo amerebbero prima 
							e a prescindere da questo suo merito e dalle sue 
							doti. Io lo amo - sarebbe la risposta di quel papà e 
							di quella mamma -, perché sono suo padre, perché 
							sono sua madre; lo amo perché è mio figlio; anzi più 
							un figlio è fragile e in difficoltà più i genitori, 
							proprio per questa fragilità o per le sue 
							difficoltà, lo amano di più.
 
 Risaliamo all’inizio del ministero ordinato, ossia a 
							quando Gesù trasmette il suo servizio/potere di 
							Risorto alla Chiesa; il Vangelo di Giovanni narra la 
							conferma del conferimento del primato - la pienezza 
							del  servizio/potere sacerdotale - a Pietro sulle 
							rive del lago di Tiberiade (Gv 21, 15-23). 
							Conosciamo il testo giovanneo; per ben tre volte 
							Gesù si rivolge a Pietro e condiziona il 
							conferimento del servizio/potere di pascere le 
							pecore alla risposta di Pietro che per tre volte 
							risponde alla domanda di Gesù: sì, Signore ti amo; 
							solo la terza volta Gesù lo costituisce suo vicario 
							nel compito di pascere il gregge che è la Chiesa. 
							Così, alla fine, è proprio l’amore che dice la 
							genuina appartenenza del sacerdote ordinato al 
							ministero del Signore, il buon pastore, cioè alla 
							persona di Gesù capo, al quale serviamo “rendendolo 
							presente” - questo è lo specifico sacerdotale -; 
							così, alla fine, è ancora l’amore a dire la nostra 
							evangelica appartenenza alle persone alle quali 
							siamo stati mandati.
 
 Il vangelo di Giovanni (cfr. Gv 10, 1-18) 
							delinea le caratteristiche del buon pastore e quelle 
							del mercenario. Le pecore ascoltano la voce del buon 
							Pastore che le guida una a una e le conduce; il buon 
							pastore, poi, offre la vita per le sue pecore. 
							Invece il mercenario, cui le pecore non 
							appartengono, vede venire il lupo e scappa. La 
							carità pastorale è quindi un amore che si lega 
							strettamente e si esprime a partire dal sacerdozio 
							ordinato e si vive nel proprio ministero quotidiano 
							e conduce non dove vogliamo noi ma dove siamo 
							mandati. Un amore che mette in campo una volontà di 
							dono totale, una dedizione e una capacità di 
							sacrificio che, di volta in volta, si esprimono a 
							partire dal nostro essere sacerdotale. Il 
							presbitero, al momento dell’ordinazione sacerdotale, 
							s’impegna liberamente a questo tipo di amore, non a 
							qualcosa di meno, non a qualcosa di diverso. 
							Ricordiamo: il nostro modo d’amare, da quando siamo 
							diventati preti non può prescindere, non può non 
							modellarsi o misurarsi sulla carità pastorale.
 
 Verifichiamo tale caratteristica fondante del nostro 
							sacerdozio; facciamolo sotto la guida di un 
							confratello che sia guida saggia, uomo veramente 
							spirituale; infatti anche i preti e i vescovi hanno 
							bisogno della direzione spirituale. Quello che è un 
							impegno assunto liberamente dinanzi a noi stessi, a 
							Dio, alla Chiesa è, innanzitutto, conseguenza 
							strettamente connessa al sacramento dell’ordine. 
							Cerco di spiegarmi, e lo faccio citando la 
							Pastores dabo vobis, laddove Giovanni Paolo II 
							annota: «In quanto rappresenta Cristo capo, pastore 
							e sposo della Chiesa, il sacerdote si pone non 
							soltanto nella chiesa ma anche di fronte alla 
							chiesa. Il sacerdozio, unitamente alla parola di Dio 
							e ai segni sacramentali di cui è al servizio, 
							appartiene agli elementi costitutivi della chiesa. 
							Il ministero del presbitero è totalmente a favore 
							della Chiesa; è per la promozione dell’esercizio del 
							sacerdozio comune di tutto il popolo di Dio; è 
							ordinato non solo alla chiesa particolare, ma anche 
							alla chiesa universale (Presbyterorum Ordinis, 
							10), in comunione con il vescovo, con Pietro e sotto 
							Pietro. Mediante il sacerdozio del Vescovo, il 
							sacerdozio di secondo ordine è incorporato nella 
							struttura apostolica della chiesa. Così il 
							presbitero come gli apostoli funge da ambasciatore 
							per Cristo (cfr. 2Cor 5, 20). In questo si 
							fonda l’indole missionaria di ogni sacerdote» (n. 
							16).
 
 Per vivere le promesse dell’ordinazione si richiede, 
							allora, una precisa disposizione del cuore insieme a 
							una testimonianza chiaramente percepibile e ben 
							visibile; infatti, il prete, come ogni uomo, è fatto 
							d’interiorità  e di esteriorità. L’amore pastorale 
							chiede di occuparci dell’altro, degli altri, della 
							comunità a prescindere dai motivi umani e a farcene 
							carico con amore. Ciò avviene anche attraverso 
							azioni esteriori che, talvolta, però, potrebbero 
							finire per esercitarsi non più per quell’affetto 
							intimo del cuore che chiamiamo il desiderio delle 
							salvezza della anime, ma per altri motivi che 
							possono essere - di volta in volta - per alcuni 
							abitudine, per altri esteriorità giuridica, timore 
							d’essere criticati o rimproverati, desiderio di 
							essere considerati dagli altri, voglia di 
							primeggiare, o per interesse personale o perché, per 
							determinate questioni, si può avere una propensione 
							personale (ci piace farle).
 
 Dobbiamo chiederci, allora, quale è il motivo 
							ultimo, il motivo vero del nostro operare pastorale. 
							Talvolta si deve constatare che non soltanto viene 
							meno il motivo interiore, ma anche l’esercizio 
							esteriore del nostro operare. Ad esempio quando noi 
							- ordinati sacerdoti per il servizio pastorale, a 
							servizio della Chiesa - a un certo punto 
							“pretendiamo” per un incarico particolare o ci 
							dichiariamo inabili, incapaci, stanchi o non adatti 
							ad un determinato servizio. Ci dichiariamo inabili, 
							incapaci, stanchi, non adatti perché quel servizio 
							impone un impegno faticoso e una logorante dedizione 
							nella predicazione, nell’ascoltare le confessioni, 
							nella pastorale giovanile; in più infine ci viene 
							richiesto attenzione e responsabilità. Così, poco 
							alla volta, se non vigiliamo su di noi, finiamo per 
							autocostruire - prima nel pensiero e poi con atti 
							apparentemente innocenti - il programma della nostra 
							vita sacerdotale, dove se non ci si lascia portare, 
							c’è molto di nostro, del nostro gusto personale e 
							sempre meno di quello spirito di servizio, di 
							dedizione, d’amore, di offerta di noi stessi da cui 
							il nostro sacerdozio era partito e di cui forse si è 
							svuotato. Questo, concretamente, è il modo in cui ci 
							distogliamo dapprima e poi ci sottraiamo alla carità 
							pastorale abbandonando il nostro posto. Ciò può 
							avvenire anche rimanendo formalmente all’interno del 
							servizio che ci è stato richiesto, del compito che 
							ci è stato assegnato. In genere lo si interpreta - 
							si dice - in modo più originale, poi si finisce per 
							adattarlo al proprio tranquillo compiacimento e non 
							siamo più disposti ad adattarci all’esigenze 
							dell’ufficio ma è l’ufficio che deve adattarsi a 
							noi; e si finisce per auto-convincerci che è bene 
							così!
 
 Mi servo di un esempio che appartiene alla 
							terminologia evangelica con cui Gesù parla del 
							ministero ordinato ai primi chiamati: amiamo più le 
							nostre reti e le nostre barche che non il pescare, 
							la fatica e l’impegno della pesca (cfr Lc 5, 
							9). Fuori di metafora, si rischia d’amare più le 
							opere, i titoli accademici, le nostre pubblicazioni, 
							le strutture che abbiamo costituito e ci circondano 
							e servono alla nostra attività pastorale che non il 
							fine per cui quelle cose sono state costituite, 
							ossia le anime. Il rischio è essere organizzatori, 
							impresari, docenti, intellettuali, psicologi, 
							assistenti sociali e non pastori. Altri 
							atteggiamenti che configgono con la carità pastorale 
							sono quelli che fanno in modo che il pastore si 
							serva del pulpito per dire qualcosa che non ha o ha 
							poco a che fare col Vangelo: per esempio parlare di 
							sé, “togliersi dei sassolini dalle scarpe”; con il 
							desiderio di correggere l’errore, si finisce invece 
							per offendere l’errante. Insomma ogni pastore, 
							proprio in nome della carità pastorale, deve 
							interrogarsi se il suo silenzio è di comodo o 
							addirittura colpevole e se il suo parlare è mancanza 
							d’amore, di pazienza o di fortezza o, ancora, 
							espressione di malumore interiore.
 
 Questo esame di coscienza franco, sereno, con un po’ 
							di misericordia nei nostri confronti, ci aiuta a 
							comprendere se siamo uomini e preti liberi; tale 
							revisione potrebbe iniziarsi - come detto - 
							chiedendo aiuto a un confratello del quale abbiamo 
							stima e che sappiamo persona capace di dire la 
							verità con amore e che sa amare con verità; le due 
							cose sono essenziali al presbitero; un presbitero 
							dovrebbe essere capace di parlare di tutto con tutti 
							senza offendere nessuno, pur proferendo parole di 
							verità. Sono certo, e spero di poterne fare presto 
							esperienza, che nel nostro presbiterio esiste una 
							diffusa e radicata carità pastorale, sia nei giovani 
							sacerdoti, sia negli anziani; forse, però, non ne 
							abbiamo sempre la dovuta consapevolezza. Quando c’è 
							vera carità pastorale non c’è situazione che possa 
							diventare ostacolo insuperabile, anche l’età 
							avanzata, la salute declinante, una prova 
							imprevista, la richiesta di un’obbedienza 
							impegnativa non ostacolano la carità pastorale ma, 
							al contrario, la evidenziano. E la carità pastorale, 
							per ogni presbitero, rappresenta una vera  
							benedizione e una grande ricchezza per lui e per la 
							sua comunità.
 
 Interrogarsi se tra le pieghe della nostra anima 
							qualcosa limiti o blocchi la nostra personale carità 
							pastorale è ciò su cui ognuno di noi - anche a 
							proposito di ciò che non è stato detto - deve 
							riflettere di fronte al Signore. Proprio, il curato 
							d’Ars, Giovanni Maria Vianney, ci viene incontro con 
							la sua gigantesca carità pastorale; Lui che non 
							aveva troppi doni e doti personali e che visse anni, 
							quelli della prima metà dell’ottocento, dopo la 
							rivoluzione francese e gli anni di Napoleone, 
							problematici e dolorosi per la Chiesa in Francia.
 
							
							
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