
Dalla BIBLIOTECA
della
CONGREGAZIONE
per il CLERO della SANTA SEDE - VATICANO
IL
CANTO
DELLA LODE
La Liturgia delle Ore
Paolo
Giglioni
1996
INTRODUZIONE
«Il
sommo sacerdote della nuova ed eterna alleanza, Cristo Gesù, prendendo
la natura umana, ha introdotto in questo esilio terrestre quell'inno che
viene eternamente cantato nelle sedi celesti. Egli unisce a sé tutta la
comunità degli uomini, e se l'associa nell'elevare questo divino canto
di lode.
Cristo
infatti continua a esercitare questo ufficio sacerdotale per mezzo della
sua stessa Chiesa, che loda il Signore incessantemente e intercede per
la salvezza del mondo intero, non solo con la celebrazione dell'eucaristia, ma anche in altri modi, specialmente con la recita
dell'ufficio divino» (SC
83).
«Il
divino Ufficio, secondo l'antica tradizione cristiana, è costituito in
modo da santificare tutto il corso del giorno e della notte per mezzo
della lode di Dio» (SC 84).
«Perciò
tutti coloro che recitano questa preghiera adempiono per un verso
l'obbligo della Chiesa e dall'altro partecipano al sommo onore della
sposa di Cristo perché, rendendo lode a Dio, stanno davanti al trono di
Dio in nome della madre Chiesa» (SC 85)
«Poiché
l'ufficio divino, in quanto preghiera pubblica della Chiesa, è fonte di
pietà e nutrimento della preghiera personale, si esortano nel Signore i
sacerdoti e tutti gli altri che partecipano all'ufficio divino di fare
in modo che, nel recitarlo, la mente concordi con la parola; per meglio
raggiungere tale scopo si procurino una più ricca istruzione liturgica
e biblica, specialmente riguardo ai salmi» (SC 90).
1 -
LITURGIA DELLE ORE
Una storia -Un nome
La
riforma del Vaticano II ha indicato con chiarezza che questa forma così
eccellente ed essenziale di preghiera non è riservata al solo clero: «La
liturgia delle Ore, come tutte le altre azioni liturgiche, non è
un’azione privata, ma appartiene a tutto il Corpo della Chiesa, lo
manifesta e influisce in esso» (IGLO, 20).
Si
può così costatare che gruppi sempre più numerosi di laici fanno
della Liturgia delle Ore la loro forma ordinaria di preghiera in
continuità e in connessione con la celebrazione dell'Eucaristia.
Illustrando
la Liturgia delle Ore sia nel suo aspetto storico che in quello
teologico e spirituale, ci proponiamo questo scopo: «che
la mente stessa si trovi in accordo con la voce mediante una
celebrazione degna, attenta e fervorosa» e che «questa
preghiera sia propria di ciascuno di coloro che vi prendono parte e sia
parimenti fonte di pietà e di molteplice grazia divina, e nutrimento
dell'orazione personale e dell'azione apostolica» (IGLO, 19).
Una
storia.
La
Liturgia delle Ore è antica quanto ]a Chiesa. Per pregarla bene può
essere utile conoscere il suo lento e graduale processo di formazione
avvenuto lungo i secoli.
Le
origini
Già
nell'Antico Testamento troviamo che il popolo d’Israele aveva dei
tempi stabiliti per la preghiera (Dan 6,10.23; Sal 54,1 8 ) soprattutto
al mattino e al pomeriggio in connessione col sacrificio che si faceva
nel tempio di Gerusalemme (Dan 9, 20-21; Esd 9, 46).
Gesù
stesso, educato da Maria all’osservanza delle preghiere tradizionali
del popolo d’Israele, era solito congiungere strettamente la sua
attività quotidiana con la preghiera; anzi, ogni sua azione derivava
dalla preghiera. Gli Evangeli ricordano che egli si ritirava spesso nel
deserto o sul monte a pregare (Mc 1, 35; 6, 46) alzandosi al mattino
presto (Mc 1,35); riferiscono anche che Gesù passava la nottata intera
in orazione al Padre (Lc 6, 12; Mt 14,23.25).
Il
Maestro ha ordinato anche a noi di fare ciò che egli stesso ha fatto:
«pregate», «domandate», «chiedete», «nel mio nome». Volle anche
che, sul suo esempio, pregassimo sempre, senza stancarci mai (Lc 18,1; 1
Ts 5,17). Una preghiera umile, vigilante, perseverante, fiduciosa nella
bontà del Padre, pura nell'intenzione e rispondente alla natura di Dio
(cf IGLO, 5).
Gli
Apostoli, a loro volta, non solo continuarono a richiamare il comando
del Signore sulla necessità di una preghiera perseverante e assidua
(Rom 8,15.26), ma insistono sulla sua grande efficacia per la
santificazione (1 Tm 4,5). Li vediamo riunirsi per la preghiera all'ora
di terza (At 2,1-15). Lo stesso Pietro «salì verso mezzogiorno sulla
terrazza a pregare» (At 10, 9); anche «Pietro e Giovanni salivano al
tempio per la preghiera verso te tre del pomeriggio» (At 3, 1).
La
comunità cristiana era anch'essa assidua nella preghiera e nell'ascolto
dell'insegnamento degli Apostoli (At 2, 42). E questo fin dall'inizio,
quando era ancora viva Maria, la Madre di Gesù (At 1, 14 ).
Sull'esempio
di Gesù e degli Apostoli. ben preso la Chiesa primitiva organizzò la
propria vita di preghiera destinando tempi determinati alla preghiera
comune, come, ad esempio, l’ultima ora del giorno, quando si fa sera e
si accende la lucerna, oppure la prima ora, quando la notte, al sorgere
del sole, volge al termine.
Questa
preghiera, insieme alla celebrazione dell'Eucaristia domenicale,
costituiva il duplice pilastro di tutta l'azione orante della comunità;
si distingueva per queste particolarità:
*
una preghiera «liturgica».
La
forte comunione personale con Cristo si esprimeva anche esternamente con
una forte partecipazione alla comunione ecclesiale per cantare insieme
le lodi del Signore e celebrare la sua Pasqua. Quando vi era preghiera
comune, ciascuno si preoccupava di parteciparvi sentendo un obbligo
morale; la non partecipazione era intesa come una «mutilazione» del
corpo-comunità: «esorta il popolo a frequentare l'ecclesia e a non mancare mai, ma a
riunirsi sempre e a non diminuire la Chiesa quando non vi partecipano,
rendendo così mutilato il corpo di Cristo... Non vogliate voi stessi
separare il Salvatore dalle sue membra, né tagliare il suo corpo...».
(Didascalia degli Apostoli, II
sec. ) .
All'interno
di questa comunità legittimamente convocata la preghiera era
organizzata con molta libertà; si cantavano inni, si recitavano Salmi,
si leggevano i libri della Scrittura.
La
necessità di «pregare sempre, dovunque, in ogni luogo», come dice
Tertulliano, portò a stabilire determinate ore
per la preghiera.
*
una preghiera «oraria».
Sia
la tradizione romana che quella giudaica divideva la giornata secondo
alcuni punti di riferimento. I Romani, ad esempio, dividevano il giorno
in quattro «ore» partendo dal sorgere del sole (prima, terza, sesta,
nona) e la notte in «vigilie», contando cioè i turni di
guardia-veglia delle sentinelle (una prima vigilia alla sera, una
seconda vigilia a mezzanotte, una terza vigilia al canto del gallo, una
quarta vigilia all'aurora).
I
cristiani, facendo riferimento a queste ore che poi erano anche il loro
«orologio», santificarono dapprima le ore del giorno ed in seguito,
soprattutto ad opera dei monaci e degli asceti, anche quelle della
notte.
Alla
base di questa «preghiera oraria» stava sempre il comando del Signore
sulla vigilanza instancabile nella preghiera
(Ef 6,18) per non essere sorpresi nel sonno, in qualsiasi ora del
giorno o della notte decida di venire il Signore (Mc 13, 33 s).
Così
al mattino, dopo il sonno e dinanzi al rinnovarsi del mistero della
luce, era spontaneo il pensiero di ringraziare e lodare l'autore della
luce facendo salire verso Dio il ringraziamento e la lode.
Alla
sera, poi, quando tramontava il sole e nelle case si accendeva la
lucerna, si sentiva il bisogno di ringraziare il Signore per il
beneficio della luce e per gli altri doni della creazione e della
redenzione, con una domanda di aiuto per il tempo della notte. Questo
rito «lucernale» era la lode vespertina(cioè del «tramonto del sole»)
a Colui che è «luce senza tramonto».
Le
«Lodi mattutine» e i «Vespri» della sera, furono dunque gli elementi
più antichi della «liturgia oraria».
In
seguito, verso il IV secolo, con la pace di Costantino e la maggiore
libertà di culto, sorsero anche le altre a ore» della giornata:
l’ora terza a ricordo e santificazione della Pentecoste (At 2,15),
l’ora sesta a ricordo e santificazione della crocifissione del Signore
(Mt 27,45), l’ora nona a ricordo e santificazione della sua morte
sulla croce (Mt 27,46).
Per
le «ore» della notte non si hanno notizie precise in questi primi
secoli della Chiesa. Si sa che, sull'esempio della Veglia pasquale e
delle Veglie delle grandi solennità, pian piano sorse la pratica
facoltativa, presso alcune comunità, di riunioni di preghiera anche
durante la notte.
Le
prime forme di organizzazione (IV-VI secolo)
Terminate
le persecuzioni, aumentati i luoghi di culto e il numero dei presbiteri
e dei monaci, si sentì il bisogno di determinare meglio sia le formule
della preghiera, sia le ore nelle quali pregare. Si ebbe un duplice
genere di ufficio:
L'ufficio
nella cattedrale.
In
questo periodo il clero viveva ancora raggruppato in città, attorno al
Vescovo. L'uso di celebrare la Messa festiva al di fuori della
cattedrale, in periferia, venne più tardi. La cattedrale era dunque il
centro della vita liturgica e dell'evangelizzazione di tutta la diocesi.
Ogni
giorno, nella Chiesa cattedrale, clero e laici si riunivano al mattino
per recitare i Salmi chiamati «laudes»
(da cui il nome di «lodi» dato a questa ora di preghiera) e al
tramonto del sole (da cui il nome di «Vespri», cioè preghiere al «tramonto
del sole»). La celebrazione eucaristica era ancora a ritmo settimanale,
cioè la domenica.
L'ufficio
dei monaci.
Vivendo
in una separazione più o meno totale dal mondo e rinunciando ai legami
familiari e al possesso dei beni materiali, i monaci e gli asceti
avevano una maggiore disponibilità per darsi alla preghiera con una
frequenza e una regolarità che i cristiani viventi nel mondo, come lo
stesso clero, non potevano certamente realizzare. Nei monasteri, dunque,
si sviluppò e si organizzò una preghiera assidua, ben regolata,
distribuita nel corso del giorno e della notte. La loro assiduità alla
lode divina, realizzando per quanto possibile una salmodia ininterrotta,
era un modo di imitare gli Angeli. Come gli angeli, notte e giorno,
stanno dinanzi alla maestà di Dio per cantare le sue lodi, così
dovevano essere i monaci sulla terra.
Il
fervore e la magnificenza degli uffici monastici attiravano i fedeli e
portavano il clero ad imitare i monaci nella misura del possibile. Con
la nomina a Vescovo di alcuni monaci, la tradizione monastica
dell'ufficio contribuì a influenzare la tradizione del clero nella
cattedrale.
Avvenne
così che anche nelle chiese rette dal clero, oltre alle due ore
dell'ufficio del mattino e della sera, si aggiunsero le ore di terza,
sesta, nona. Non esisteva ancora un «obbligo» per la partecipazione a
questa preghiera dal momento che la comunità pregava sempre anche «per
i fratelli assenti», cioè quelli impossibilitati a partecipare alla
preghiera comune.
Le
«ore» nel medioevo
Con
l'invio dei monaci missionari in tutta Europa (Gallia, Inghilterra,
Germania), gli usi della liturgia delle ore praticati a Roma si
diffusero in tutto il continente. All'epoca di Carlo Magno (verso l'anno
800) tutti i chierici hanno l'obbligo di prendere parte all'ufficio
completo e quotidiano nella loro Chiesa.
Vengono
introdotti, però, alcuni elementi che non sono in perfetta sintonia con
il carattere «liturgico» e quindi «comunitario» della preghiera
delle ore. L'ufficio dei Santi, ad esempio, rimasto fino ad allora
limitato ai luoghi di sepoltura dei martiri, si fuse e si sovrappose
all'ufficio quotidiano. All'ufficio liturgico si aggiunsero altri uffici
e preghiere devozionali. Il numero dei Salmi da recitare ogni giorno era
diventato così pesante e impossibile che ben presto, con la stessa
facilità con cui si era accresciuto l'ufficio, si incominciò ad
abbreviarlo. Questo fenomeno, tuttavia, era sintomo anche di un certo
calo di spiritualità sia presso il clero che presso i monaci. Il
sintomo di crisi era manifestato soprattutto dalle assenze al coro.
Mentre fino a questo momento non era esistito altro ufficio che quello a
cui partecipava l'intera comunità dei chierici o dei monaci, verso il
sec. XIII si incomincia a giustificare la recita privata dell'ufficio
come supplenza della celebrazione comunitaria e solenne che si fa nel
coro. E' in questo tempo che sorgono i cosiddetti «breviari»: piccoli
libretti che contengono in forma «abbreviata» e ridotta la lunga
officiatura che si soleva fare nel monastero o nella cattedrale. Dal «comunitario»
si passa al «privato»; dalla forma «solenne» si passa alla forma «abbreviata».
L'ufficio non è più il necessario strumento di santificazione che
accomuna agli Angeli, ma il dovere quotidiano da assolvere come «obbligo»
sotto pena di peccato mortale.
Dal
Concilio di Trento al Vaticano II
Entrambi
i concili ecumenici hanno affrontato la riforma dell'Ufficio. Quello di
Trento, sotto il pontificato di s. Pio V, pubblicò il libro della
preghiera delle ore con il titolo di «Breviario».
L'aver
conservato questo titolo era segno dello spirito con cui sì era attuata
la riforma: non è prevista la celebrazione solenne, ma viene ratificata
solo la celebrazione «privata». L'ufficio è uno strumento di pietà
individuale. Il carattere liturgico di questa preghiera, così
accentuato alla sua origine, cede ora ad una visione «devozionale»
riservata prevalentemente al clero. Anche nei monasteri sono obbligati
all'ufficio solo i monaci «ordinati», mentre agli altri «fratelli»
è riservata la recita del Rosario o il Piccolo Ufficio della B. V.
Maria o dei Defunti. Non si ha più traccia neppure di quella presenza
dei laici che invece aveva caratterizzato soprattutto l'ufficio della
cattedrale fino alle soglie del Medioevo.
Da
queste premesse sarà più facile comprendere la grande riforma attuata
dal Concilio Vaticano II anche in rapporto all'Ufficio.
La
Costituzione liturgica Sacrosanctum
Concilium indicò subito le linee portanti per una radicale riforma
del «Breviario» ( SC 83-101 ):
-
ridare valore a questa preghiera sottolineandone l'aspetto cristologico
ed ecclesiale;
-
non più preghiera riservata al clero, ma aperta a tutti, quindi anche
ai laici;
-
non più preghiera «privata» riservata ai ministri ordinati, ma aperta
alla comunità e di alto valore pastorale;
-
privilegiare la «qualità» della preghiera sulla «quantità»;
pertanto il Salterio doveva essere distribuito in più settimane;
-
riordinare sia le letture bibliche che quelle agiografiche;
-
ridare all'ufficio il suo originario carattere .«orario» ed estenderlo
di nuovo anche ai fedeli nella forma «comunitaria» da ritenersi
privilegiata.
Il
1° novembre 1970, con la Costituzione Apostolica «Laudis canticum», Paolo VI promulgava il nuovo libro liturgico con
il nome di «Liturgia delle Ore».
Sui contenuti di questo nuovo libro riformato dal Concilio avremo modo
di ritornare in seguito. Per il momento soffermiamoci a riflettere sul
suo «nome» poiché nel nome nuovo sottostanno idee e contenuti nuovi.
2.
Un nome
Praticamente,
fino al sec. xv con l’invenzione della stampa ad opera di Gutenberg,
non si ebbero dei veri e propri libri per la sola preghiera delle Ore.
Nel grande coro delle cattedrali come dei monasteri, stava un ampio
leggio con sopra il grosso libro dei Salmi ben visibile da tutti. Per
rendere più facile la visione del Salmo o dell'antifona, si era soliti
dipingere con vivaci colori ed ingrandire le lettere iniziali. Sorsero
così quelle meravigliose opere d'arte che sono i Codici miniati.
Le altre parti dell'Ufficio, come le letture bibliche e le
orazioni, non riguardavano tutta l'assemblea; era sufficiente che ci
fosse un libro per il solo lettore o per chi presiedeva.
Nessuno
dei partecipanti alla preghiera delle Ore aveva dunque un proprio libro;
né era possibile recitare le Ore fuori della comunità, dal momento che
non si potevano avere gli strumenti necessari per farlo. Esisteva
pertanto un'unica liturgia «comunitaria» ed «oraria» alla quale
furono dati di volta in volta alcuni «nomi» molto significativi. Da
questi nomi potremo più facilmente individuare il concetto che nelle
varie epoche si è avuto di questa preghiera oraria.
Opus
Dei
Al
tempo di s. Benedetto (480-547) tutta la vita monastica era considerata
un «opus Dei», cioè un'opera divina. Il grande fondatore del
monachesimo occidentale, però, volle trasferire questo titolo alla
preghiera delle Ore per sottolineare che questa preghiera ha un duplice
significato:
è
un'opera:
un avvenimento, qualcosa che si fa, che si porta a compimento. E' un
prolungamento di quell'unica «opera» creatrice e redentrice di Dio che
culmina nella Pasqua di morte e risurrezione di nostro Signore. Come Dio
continuamente è all'opera per noi uomini e per la nostra salvezza, così
anche noi dobbiamo operare, soprattutto con la preghiera, affinché
l'azione misericordiosa e preveniente di Dio trovi spazio e compimento
anche nell'opera di ogni uomo. Quando recitiamo la preghiera delle Ore
ciascuno dovrebbe dire: con questa preghiera attuo l'opera pasquale di
Cristo in me e nella Chiesa.
Per
questo s. Benedetto voleva che «nulla fosse anteposto a quest'opera
divina» che è appunto la preghiera delle Ore.
di
Dio:
prima ancora di essere umana, questa preghiera è «divina», è di Dio.
Ce lo ricorda il ritornello dell'Invitatorio all'inizio di ogni
giornata: «Signore, apri le mie labbra: e la mia bocca proclami la tua
lode». Quasi a dire: se non sei Tu a donarmi il Santo Spirito della
preghiera (cf Rm 8, 26), se non sei Tu a mettere sulle mie labbra le Tue
stesse Parole (i Salmi, la Scrittura)... che cosa potrei dire al mio
Signore? Senza l'aiuto di Dio non possiamo far nulla, neppure pregare. I
Padri hanno spiegato che «Dio dona la preghiera a chi prega» (Evagrio).
Possiamo dunque riassumere questi concetti dicendo che la preghiera
delle Ore è una «collaborazione» tra l'agire di Dio in noi con il
dono della sua opera di salvezza, e l’agire di noi in Lui con la
nostra risposta che culmina appunto nella lode e nell'accoglienza di
questo dono.
Sacrificio
della lode
Già
nella tradizione biblica, a seguito della distruzione del culto
materiale ed esteriore del tempio, il popolo di Israele comprese che il
Signore non poteva gradire il sacrificio di vittime «animali», esterne
all'uomo, ma gradiva invece «sacrifici spirituali» che nascono dal
profondo dell'uomo, da un cuore fedele e contrito (cf Is 1,10-20; Am
5,21 Sal 50,9-15). L'esperienza purificatrice dell'esilio insegnò che
il vero sacrificio gradito dal Signore è la conversione del cuore
espressa esternamente con labbra che lodano il Sonore:
«Offri a Dio il sacrificio della lode per adempiere a Dio i
tuoi voti... Chi offre il sacrificio di lode, costui mi onora, a chi
cammina rettamente, farò godere della divina salvezza» (Sal 50/49,
14.23).
«Il mio sacrificio, o Dio, è uno spirito contrito; un cuore
contrito ed umiliato, tu non disprezzi, o Dio» ( Sal 51/50, 19).
In
un contesto di purificazione matura dunque l'idea che il Signore non
gradisce tanto il levarsi in alto dell'incenso, quanto piuttosto il
culto della lode espresso con il gesto delle mani levate in alto per la
preghiera:
«Stia la mia preghiera come incenso davanti a te,
l'elevazione delle mie mani come il sacrificio della sera» (Sal
141/140,2).
La
tradizione rabbinica espresse questi alti concetti con le parole di Rabbì
Phineas il quale, riferendosi ai tempi in cui sarebbe comparso il
Messia, diceva: «Cesseranno tutte le preghiere, ma non cesserà la
preghiera di ringraziamento; nel tempo futuro cesseranno tutti i
sacrifici, ma non cesserà il sacrificio della lode».
La
tradizione cristiana continuò ed elevò questo valore «sacrificale»
della preghiera di lode-ringraziamento che culmina nell'Eucaristia e si
dilata a tutte le ore del giorno mediante la preghiera delle Ore. Scrive
in proposito Tertulliano: «Noi siamo veri adoratori e veri sacerdoti,
che pregando nello Spirito eleviamo a Dio la nostra orazione quale ostia
gradita e accettabile a Dio» (De
oratione, 28). E s. Agostino aggiunge: «Nella
lode c'è il grido di chi confessa, nel cantico c'è l'affetto di chi
ama» (In Ps. 72, 1).
Breviario
Abbiamo
già detto, parlando della storia della preghiera delle Ore, che il
termine «Breviario» comincia a comparire verso il secolo X con i primi
tentativi di «abbreviare» l'antico ufficio, ritenuto troppo lungo, e
soprattutto per permettere la recita «privata» dell'ufficio.
Con
la nascita degli Ordini itineranti, come i Francescani e i Domenicani,
sorse anche la necessità di fornire questi Frati di un libretto che
contenesse le parti essenziali dell'Ufficio, non potendo ovviamente
portarsi dietro i voluminosi codici usati nel coro. Si chiamò dunque «Breviario»
quel libretto che conteneva in sintesi tutti gli elementi necessari per
recitare le Ore di una determinata festa o di un ristretto spazio di
tempo. La mentalità dell'epoca, che favoriva la devozione privata
rispetto a quella comunitaria, unita all'idea dell'«obbligo», favorì
il diffondersi di questi «breviari» fino ad essere accolti come «modello»
dalla riforma tridentina al tempo di Pio V (1568).
Era
evidente che, con la riforma del Vaticano II e tenuto conto degli
svariati adattamenti che questa preghiera delle Ore aveva subíto lungo
i secoli fino ad alterarne a volte la medesima struttura, il nome di «Breviario»
dato a questo libro liturgico non poteva più essere mantenuto. Non si
poteva certo indicare la «qualità» di una preghiera facendo
riferimento alla sua «quantità» !
La
riforma liturgica ha deciso pertanto che il nuovo nome da dare a questo
libro liturgico fosse «Liturgia delle Ore».
Liturgia
delle Ore
Il
nuovo nome della preghiera delle Ore si compone dunque di due parole che
si completano a vicenda: «Liturgia» e «delle ore».
Liturgia.
Già
nel titolo si vuol indicare con estrema chiarezza che questa preghiera
non è un atto privato o individuale «riservato» ad alcune persone a
ciò deputate dal sacramento dell'Ordine. E' un atto liturgico, un atto
della Chiesa e quindi destinato a tutti i membri della Chiesa. La
deputazione non dipende più dall'Ordine, ma dal Battesimo. La sua
celebrazione ordinaria non è più nel «privato», ma nella «comunità».
Essendo dunque una azione liturgica, la Liturgia delle Ore diventa:
diritto-dovere di ogni battezzato; partecipazione all'ufficio
sacerdotale di Cristo; azione che appartiene a tutto il Corpo della
Chiesa: in essa è veramente presente e opera la Chiesa di Cristo, una,
santa, cattolica, apostolica; genuina fonte di vita cristiana,
nutrimento della preghiera personale.
Delle
Ore. Questo
richiamo alle «ore» sta a significare che scopo primario di questa
azione liturgica è la santificazione della giornata e del tempo. Dal
momento che viviamo nel tempo e siamo come impastati nel tempo,
santificare le «ore» equivale a santificare la nostra stessa esistenza
umana per renderla esistenza divina. Santificando il tempo con la
preghiera permettiamo a tutta la nostra vita di diventare una «liturgia»
perenne mediante la quale ci consacriamo in servizio di amore a Dio e ai
fratelli. Ed infine, dal momento che Cristo con la sua incarnazione e
con la sua Pasqua ha fatto di questo nostro tempo un «tempo di salvezza»,
pregando le «Ore» noi «pasqualizziamo» il tempo; lo svuotiamo di ciò
che è vecchio e mortale e lo riempiamo della novità che è Cristo e
della sua eternità di Signore Risorto.
Santificare
le Ore equivale ad essere già ammessi alla lode perenne e gloriosa dei
Santi dal momento che con questa preghiera noi partecipiamo al sommo
onore della Sposa di Cristo; lodando il Signore noi stiamo già davanti
al trono di Dio in nome della Madre Chiesa.
«Una
storia», «un nome» che ci hanno permesso di guardare indietro nella
secolare vita della Chiesa e di individuare le tradizioni genuine della
sua attività orante.
Diceva
Paolo VI:
«Si
levi, dunque, con il sussidio del nuovo libro della Liturgia delle ore,
più solenne e più bella la lode di Dio nella Chiesa del nostro tempo.
Si associ a quella che viene cantata nelle sedi celesti dai santi e
dagli angeli, e accrescendosi incessantemente in perfezione nei giorni
di questo terrestre esilio, muova con nuovo slancio incontro a quella
lode perfetta che per tutta l'eternità è attribuita a Colui che siede
sul trono e all'Agnello ( Laudis canticum, 8 ) .
2
- IL CANTO DI LODE
Preghiera
di Cristo - Preghiera della Chiesa
Ci
occuperemo qui della Liturgia delle Ore in quanto Preghiera di Cristo e
Preghiera della Chiesa.
Preghiera
di Cristo
«Il
canto di lode, che risuona eternamente nelle sedi celesti, e che Gesù
Cristo Sommo Sacerdote introdusse in questa terra di esilio, la Chiesa
lo ha conservato con costanza e fedeltà nel corso di tanti secoli e lo
ha arricchito di una mirabile varietà di torme» (Paolo VI, Laudis canticum, 1 nov. 1970).
Venendo
per rendere gli uomini partecipi della vita di Dio (cf 2 Pt 1,4), il
Verbo, che procede dal Padre come splendore della sua gloria, «il Sommo
Sacerdote della nuova ed eterna alleanza, Cristo Gesù, prendendo la
natura umana, introdusse in questa terra di esilio quell'inno che viene
cantato da tutta l'eternità nelle sedi celesti» (IGLO 3 che cita SC
83).
Da
allora, nel cuore di Cristo, la lode di Dio risuona con parole umane di
adorazione, propiziazione ed intercessione. Tutte queste preghiere il
Capo della nuova umanità e Mediatore tra Dio e gli uomini, le presenta
al Padre a nome e per il bene di tutti.
Cristo
unico Mediatore
Secondo
un'espressione di Clemente Romano (2° sec.) «Gesù Cristo è il Sommo
Sacerdote delle nostre oblazioni, il patrono e l'aiuto della nostra
debolezza». Colui che il Padre ha costituito «Mediatore» unico di
un'alleanza migliore (Eb 8,6) è anche Colui che è «l’Alfa e
l'Omega, Colui che è, che era e che viene» (Ap 1, 8; cf benedizione
del cero nella Veglia pasquale).
In
quanto Verbo eterno del Padre, il Figlio fin dall'eternità è partecipe
con lo Spirito Santo di quella lode intra-trinitaria che unisce il
Padre, il Figlio e lo Spirito Santo.
Questa
lode non si è certo interrotta nel tempo in cui il Figlio eterno del
Padre ha assunto una natura umana nel mistero della incarnazione quando
«il Verbo si è fatto carne ed è venuto ad abitare in mezzo a noi»
(Gv 1,14). E questa stessa lode divina e trinitaria non ci è stata
tolta con il ritorno del Figlio presso il Padre al momento della sua
risurrezione e ascensione al cielo. Questa lode divina e perenne che
viene cantata da tutta l'eternità quale dialogo d'amore tra le divine
Persone nelle sedi celesti, è ora consegnata come dono nuziale da
Cristo alla sua diletta Sposa, la Chiesa. La preghiera della Chiesa,
dunque, è la stessa preghiera che Cristo, ieri-oggi-sempre, canta
presso il Padre. E non potrebbe essere altrimenti dal momento che il
Padre ha costituito mediatore unico tra Dio e gli uomini il Cristo suo
Figlio, il Capo della nuova umanità.
La
preghiera di Cristo, pertanto, è reale, viva, preponderante, unica. La
nostra è una preghiera «cristiana» in quanto è partecipazione
dell'unica preghiera di Cristo al Padre nello Spirito. Tutta la nostra
vita può essere paragonata ad una immensa processione liturgica di
pellegrini verso la casa del Padre, per essere ammessi alla sua
presenza, per vederlo, lodarlo e partecipare alla liturgia celeste al
seguito di Cristo. In forza della fede, però, pur nella fase terrena e
peregrinante, noi già partecipiamo alla liturgia di Cristo glorioso
alla destra del Padre nell'assemblea liturgica e festante degli angeli e
dei santi che hanno già raggiunto la mèta.
La
Liturgia delle Ore non può essere concepita al di fuori dell'unica
liturgia di Cristo. E' lui il Sacerdote vero, perfetto, eterno «che si
è assiso alla destra del trono della Maestà nei cieli, quale liturgo
del santuario e della tenda vera, che ha eretto il Signore, non un uomo»
(Eb 8, 1-2).
Egli
solo possiede un sacerdozio che non tramonta. Perciò può salvare
perfettamente quelli che per mezzo di lui si accostano a Dio, «essendo
egli sempre vivo per intercedere a loro favore» (Eb 7,25; Rm 8,34).
Cristo
ci comunica il suo sacerdozio
Per
mezzo del sacramento della rigenerazione, il Battesimo, Cristo ci unisce
a sé come membra del suo Corpo, che è la Chiesa. Tra lui e noi
intercorre così un vincolo speciale e strettissimo: da lui, il Capo, si
diffondono all'intero Corpo tutti i beni che sono del Figlio, cioè la
comunicazione dello Spirito, la verità, la vita e la partecipazione
alla sua filiazione divina, che si manifestavano in ogni sua preghiera
quando dimorava presso di noi.
La
consacrazione battesimale è per noi una consacrazione sacerdotale che
permette a tutto il corpo della Chiesa di condividere il sacerdozio di
Cristo. In questo modo tutti i battezzati, mediante la rigenerazione e
l'unzione dello Spirito Santo vengono consacrati in edificio spirituale
e sacerdozio santo (cf LG 10) e sono abilitati a esercitare il culto del
Nuovo Testamento, culto che non deriva dalle nostre forze, ma dal merito
e dal dono di Cristo, unico Sommo Sacerdote (Eb 4,14.15).
Possiamo
dunque dire che con il mistero dell'incarnazione e della nostra
redenzione esiste ormai un'unica preghiera: quella del «Cristo totale»,
il Cristo-Capo unito indissolubilmente al Cristo-Corpo. Quando prega il
Capo, unito a lui prega anche il suo Corpo ecclesiale. Quando prega il
Corpo-Chiesa è unito a lui il Cristo-Capo.
In
questo sta la dignità della preghiera cristiana: che essa partecipa
dell'amore del Figlio unigenito per il Padre e di quell'orazione che
egli durante la sua vita terrena ha espresso con le sue parole e che
ora, a nome e per la salvezza di tutto il genere umano, continua
incessantemente in tutta la Chiesa e in tutti i suoi membri (cf IGLO 7).
Cristo
modello di preghiera
Non
solo nella sostanza noi diciamo che la nostra è la preghiera di Cristo,
ma, nella Liturgia delle Ore, la Chiesa si sforza di imitare anche la
forma, il modo e il tempo di quella che fu la preghiera di Cristo. La
preghiera di Cristo deve essere «modello» della preghiera della
Chiesa.
Lo
stesso Figlio di Dio, infatti, «che con il Padre suo è una cosa sola»
(Gv 10, 30), e che entrando nel mondo disse: «Ecco, io vengo a fare la
tua volontà» (Eb 10,9; cf Gv 6,38), ha voluto lasciarci una
testimonianza della sua preghiera.
Una
preghiera continua. Spessissimo
i Vangeli ci presentano Gesù in preghiera, di giorno e di notte:
*
è in preghiera quando il Padre gli rivela la sua missione (Lc 3,
21-22);
*
trascorre tutta la notte in preghiera prima della scelta dei Dodici (Lc
6,12);
*
rende grazie al Padre nella moltiplicazione dei pani (Mt 14, 19; 15,
36);
*
prega nella trasfigurazione sul monte (Lc 9,28-29);
*
prega quando risana il sordomuto (Mc 7, 34) e risuscita Lazzaro (GV
11,41);
*
prega prima di provocare la confessione di Pietro (Lc 9,18);
*
insegna a pregare ai discepoli (Lc 11,1);
*
benedice il Padre quando i discepoli ritornano dall'aver compiuto la
loro missione (Lc 10,21);
*
prega nel benedire i fanciulli (Mt 19,13);
*
prega per Pietro, perché non venga meno la sua fede (Lc 22, 32 ).
Una
preghiera apostolica. In
Gesù non c'è stata la scissione tra preghiera e apostolato. La sua
attività quotidiana era strettamente congiunta con la preghiera, anzi
quasi derivava da essa:
*
benché tutti lo cerchino, trova il tempo per alzarsi al mattino presto
quando è ancora buio per ritirarsi in un luogo deserto a pregare (Mc
1,35; 6.46; Lc 5,16; Mt 14,23); dopo la moltiplicazione dei pani,
congedata la folla, sale sul monte, solo, a pregare. Venuta la sera,
egli se ne stava ancora lassù (Mt 14,23).
Una
preghiera comunitaria. La
preghiera di Gesù non è solamente una preghiera privata, a tu per tu
col Padre, ma è anche una preghiera condivisa con la gente: «secondo
il suo solito» partecipa ogni sabato alla preghiera pubblica nella
sinagoga (Lc 4,16); partecipa anche ai pellegrinaggi e alle preghiere
nel tempio che chiama casa di preghiera (Mt 21,13); pronunzia anche le
tradizionali preghiere di benedizione a Dio, proprie delle riunioni
conviviali, come è espressamente riferito in relazione con la
moltiplicazione dei pani (Mt 14,19; 15,36); prega nell’ultima Cena (Mt
26,26); recita l'inno nel cenacolo con i suoi discepoli (Mt 26,30);
prega con i discepoli di Emmaus (Lc 24,30).
Fino
al termine della sua vita, avvicinandosi già la Passione (Gv 12, 27),
nell'agonia del Getsemani (Mt 26, 3~44) e perfino sulla croce (Lc
23,34.46), il Maestro divino dimostra che la preghiera animava il suo
ministero messianico e il suo esodo pasquale.
Egli,
infatti, «nei giorni della sua vita terrena offrì preghiere e
suppliche con forti grida e lacrime a colui che poteva liberarlo da
morte e fu esaudito per la sua pietà» (Eb 5,7) e, compiuta l'oblazione
di sé sull'altare della croce, rese «perfetti per sempre quelli che
vengono santificati» (Eb 10, 14); infine, risuscitato da morte, vive
per sempre e prega per noi (Eb 7,25; Rm 8,34).
La
Liturgia delle Ore ha dunque una caratteristica fondamentale: è
partecipazione della lode che il Verbo di Dio fin dall'eternità canta
al Padre nella comunione dello Spirito Santo; è partecipazione del
sacerdozio di Cristo e abilitazione ad esercitare il suo stesso culto al
Padre; è imitazione del suo stesso stile e metodo di preghiera. In una
parola: la Liturgia delle Ore è Cristo che prega in noi e noi che
preghiamo in lui.
Preghiera
della Chiesa
Gesù
ha ordinato anche a noi di fare ciò che egli stesso fece. «Pregate»,
«domandate», «chiedete» (Mt 5,44; 7,7; 26,41; Mc 13,33; 14,38; Lc
6,28; 10,2), «nel mio nome» (Gv 14,13; 15,16; 16,23); insegnò anche
la maniera di pregare nell'orazione che si chiama domenicale (Mt 6,9-13;
Lc 11,2-4: il Padre nostro) e dichiarò necessaria la preghiera (Lc
18,1: «Disse loro una parabola sulla necessità di pregare sempre,
senza stancarsi»), e precisamente:
-
una preghiera umile (Lc 18,9-14);
-
una preghiera vigilante (Lc 21,36; Mc 13,33);
-
una preghiera perseverante, fiduciosa nella bontà del Padre (Lc
11,5-13; 18,1-8; Gv 14, 13; 16, 23);
-
pura nell'intenzione e rispondente alla natura di Dio (Mt 6,5-8; 23,14).
Obbedienti
alla parola del Salvatore, anche gli stessi Apostoli non solo qua e là
nelle loro lettere ci tramandano preghiere di lode e di rendimento di
grazie, ma danno a loro volta delle raccomandazioni:
-
una preghiera perseverante e assidua (Rm 8,15.26; 1 Cor 12,3; Gal 4,6;
Gd 20);
-
una preghiera fatta nello Spirito Santo (2Cor 1,20; Col 3,17);
-
una preghiera rivolta al Padre (Eb 13,15);
-
una preghiera che necessita della mediazione di Cristo (Rm 12,12; 1 Cor
7,5; Ef 6,18; Col 4,2; 1 Ts 5,17; 1 Pt 4,7);
-
una preghiera grandemente efficace per la santificazione (1 Tm 4,5);
-
una preghiera di lode (Ef 5,19), di ringraziamento (Col 3, 17), di
domanda (Rm 8,26) e di intercessione per tutti (Rm 15,30; 1Tm 2,1).
Poiché
l'uomo viene interamente da Dio deve riconoscere e professare questa
sovranità del suo Creatore. E' quanto gli uomini di sentimenti
religiosi, vissuti in ogni tempo, hanno effettivamente fatto con la
preghiera.
La
preghiera diretta a Dio però deve essere connessa con Cristo, Signore
di tutti gli uomini, unico Mediatore (l Tm 2,5; Eb 8,6) e il solo per il
quale abbiamo accesso al Padre (Rm 5,2; Ef 2,18; 3,12). Cristo, infatti,
unisce a sé tutta l'umanità (cf SC 83), in modo tale da stabilire un
rapporto intimo tra la sua preghiera e la preghiera di tutto il genere
umano.
In
forza dell'incarnazione e del legame inscindibile che unisce Cristo alla
Chiesa, lo Sposo e la Sposa parlano ormai lo stesso linguaggio orante.
Dice s. Agostino:
«Se
sono due in una sola carne, perché non due in una sola voce? Parli
dunque Cristo, perché in Cristo parla la Chiesa e nella Chiesa parla
Cristo; il corpo nel capo e il capo nel corpo» (In Ps 30,1,4).
Si
può pertanto affermare che nella voce della Chiesa è lo stesso Cristo
che continua la sua lode perenne al Padre. A dare questa energia
spirituale alla voce della Chiesa è lo Spirito Santo. Ecco perché,
parlando della preghiera della Chiesa quale continuazione della
preghiera di Cristo dobbiamo necessariamente considerare l'azione
insostituibile dello Spirito Santo quale animatore della preghiera
dentro la Chiesa.
La
Chiesa prega nello Spirito.
L'unità
della Chiesa orante è opera dello Spirito Santo, che è lo stesso in
Cristo (cf Lc 10,21), in tutta la Chiesa e nei singoli battezzati. Come
efficacemente spiega s. Paolo nella Lettera ai Romani (Rm 8, 26 s), noi,
a causa della nostra congenita debolezza (asthenèia)
nemmeno sappiamo che cosa sia conveniente domandare e come domandarlo;
ma lo Spirito stesso viene in nostro aiuto ed intercede con insistenza
per noi; i suoi sono gemiti inesprimibili a causa della nostra
resistenza a voler pregare come lui desidera, mentre vorremmo pregare
piuttosto a modo nostro. Fortunatamente la sua dolce e forte azione
riesce a vincere la nostra resistenza, cosicché lo Spirito riesce a
pregare in noi secondo i disegni di Dio. Ed il Padre che scruta i cuori
sa quali sono i desideri dello Spirito. Riconoscendo nella preghiera
nostra e soprattutto della Chiesa la potente intercessione dello
Spirito, il Padre non può non esaudire questa supplica. Ecco perché la
preghiera della Chiesa, fatta nello Spirito Santo, ha la garanzia dell'esaudimento.
La
preghiera della Chiesa ha dunque il conforto e il sostegno sia del
Figlio che è nostro unico Mediatore e Sacerdote presso il Padre, sia
dello Spirito Santo che assimilandoci a Cristo e comunicandoci la
filiazione adottiva ci fa gridare: «Abbà, Padre!» (Rm 8,15; Gal 4,
6).
Con
una immagine ardita e suggestiva Clemente di Alessandria spiega questa
cooperazione trinitaria nel mettere in atto la preghiera dei fedeli
nella Chiesa, come di un suonatore che, afferrando l'uomo come uno
strumento vivo, ne trae melodie nuove:
«Il
Verbo celeste canta sul trono immortale dell'armonia nuova, che da Dio
prende nome, il canto nuovo... Questo canto divino, sostegno del tutto,
armonia dell’universo, tutto accordò secondo il volere di Dio, il
Padre.
...
Il Verbo di Dio canta al Padre con questo strumento dalle mille voci,
accompagna la sua lode con questo strumento che è l'uomo... Avanti
dunque, di corsa, verso la salvezza, verso la risurrezione, verso
l'unico amore, verso l'unità, tratta come divina armonia dalla pluralità
di voci prima disperse».
Non
vi può essere dunque nessuna preghiera cristiana senza l'azione dello
Spirito Santo, che unificando tutta la Chiesa, per mezzo del Figlio la
conduce al Padre (IGLO 8).
La
Chiesa prega comunitariamente.
«L'esempio
e il comando del Signore e degli apostoli di pregare sempre e
assiduamente non si devono considerare come una norma puramente
giuridica, ma appartengono all'intima essenza della Chiesa medesima, che
è comunità e deve quindi manifestare il suo carattere comunitario
anche nella preghiera. Per questo negli Atti degli Apostoli, quando per
la prima volta si fa parola della comunità dei fedeli, questa appare
riunita in preghiera "con alcune donne e con Maria, la Madre di Gesù
e con i fratelli di lui" (At 1, 14). "La moltitudine di coloro
che erano venuti alla fede aveva un cuore solo e un'anima sola (At
4,32): questa unanimità si fondava sulla parola di Dio, sulla comunione
fraterna, sulla preghiera e sull'Eucaristia» (IGLO 9).
Con
queste riflessioni la nuova Liturgia delle Ore vuol prendere le distanze
dal precedente «Breviario». Come si è visto parlando della storia di
questo libro, esso rifletteva una spiritualità «privata», del singolo
chierico, che era tenuto alla recita quotidiana di questa preghiera per
obbligo inerente al suo ufficio. Il concetto di «opus
Ecclesiae» consisteva nel fatto che la Chiesa forniva quel libro e
imponeva quella recita; non veniva invece recepito il fatto che la
Chiesa è il «soggetto orante» della Liturgia delle Ore e che questa
preghiera appartiene alla sua intima essenza.
Superato
quindi ogni aspetto «privatistico» e di «deputazione» (= riservata
al solo clero), l’Istituzione
Generale della Liturgia delle Ore torna più volte a ribadire la sua
caratteristica «ecclesiale» e «comunitaria».
Così,
dovendo indicare coloro che celebrano la Liturgia delle Ore, IGLO 20
mette al primo posto la «celebrazione in comune» di tutti i fedeli:
«La
Liturgia delle Ore, come tutte le altre azioni liturgiche, non è
un’azione privata, ma appartiene a tutto il Corpo della Chiesa, lo
manifesta e influisce su di esso», (cf SC 26).
Premessa
questa regola generale che sgombera ogni idea di privatizzazione, e
richiamato il principio secondo cui ogni battezzato, in quanto stirpe
eletta, sacerdozio regale, popolo di acquisto (cf 1 Pt 2,9), «ha
diritto e dovere» ad una partecipazione «piena, consapevole e attiva»
alla Liturgia delle Chiesa (SC 14), si passa ad indicare le varie
categorie che sono tenute alla celebrazione comunitaria della Liturgia
delle Ore:
-
il Vescovo, circondato dai
presbiteri e dai ministri e con la partecipazione del popolo;
-
le assemblee parrocchiali dei
fedeli: radunandosi insieme ai loro pastori e unendo i loro cuori e
le loro voci, manifestano la Chiesa che celebra il mistero di Cristo (IGLO
22);
-
le comunità religiose:
rappresentano in modo speciale la Chiesa orante; esse esprimono,
infatti, più pienamente il modello della Chiesa che senza interruzione
e con voce concorde loda Dio, e assolvono il compito di collaborare
innanzitutto con la preghiera all'edificazione e all'incremento di tutto
il Corpo mistico di Cristo e al bene delle Chiese particolari (IGLO 24);
i membri di queste comunità sono vivamente pregati di celebrare
comunitariamente la Liturgia delle Ore e, per quanto possibile, favorire
la partecipazione anche di altri fedeli (IGLO 25.26);
-
anche i laici imparino ad
adorare Dio Padre in Spirito e verità anzitutto nell'azione liturgica,
e si ricordino che mediante il culto pubblico e la preghiera raggiungono
tutti gli uomini e possono contribuire non poco alla salvezza di tutto
il mondo (IGLO 27);
-
le famiglie: è lodevole che
questi santuari domestici della Chiesa celebrino almeno qualche parte
della Liturgia delle Ore inserendosi così più intimamente nella Chiesa
(IGLO 27).
Il
ruolo delle «sentinelle»
Dopo
questo primo gruppo di persone che hanno «diritto-dovere» di celebrare
comunitariamente la Liturgia delle Ore, L’iglo
dedica alcune riflessioni a coloro che nella Chiesa occupano un posto
particolare a motivo della loro «consacrazione» al Signore.
Se
la Chiesa affida ad ogni battezzato il mandato di celebrare la Liturgia
delle Ore, vuol tuttavia avere la garanzia che «il compito di tutta la
comunità sia adempiuto in modo sicuro e costante almeno per mezzo dei
ministri sacri, e la preghiera di Cristo continui incessantemente nella
Chiesa» (IGLO 28).
Coloro
pertanto che nella Chiesa occupano un posto particolare a motivo della
loro totale consacrazione al Signore (e oltre ai «ministri sacri»
occorre collocare tutte le persone consacrate), devono sentire l'obbligo
personale di assicurare alla Chiesa questa insostituibile preghiera. Per
un errato concetto di «comunità», infatti, qualche sacerdote o
religioso/a si è sentito dispensato dal pregare la Liturgia delle Ore
unicamente perché si è trovato solo senza la presenza del popolo.
Richiamando l'aspetto «ottimale» della celebrazione «comunitaria»
non si è certo inteso abolire la celebrazione anche da soli della
Liturgia delle Ore. Questo garantire alla Chiesa in modo sicuro e
costante la preghiera delle Ore da parte delle persone consacrate può
essere paragonato al servizio insostituibile delle «sentinelle»: di
coloro cioè che, anche quando tutti gli altri dormono, montano la
guardia e stanno vigili perché il nemico non entri nella casa e rapisca
il gregge di Cristo.
Il
vescovo, i sacerdoti, le persone consacrate, adempiendo fedelmente ogni
giorno il loro compito particolare di assicurare all'intero Corpo della
Chiesa questa indispensabile preghiera per la santificazione delle Ore,
oltre ad assolvere un loro specifico dovere, porteranno anche questi
altri splendidi frutti:
-
pregare nella persona di Cristo Sacerdote partecipando al medesimo
compito, pregando Dio per tutto il popolo loro affidato, anzi per tutto
il mondo;
-
compiere il ministero del buon Pastore che prega per i suoi perché
abbiano la vita e perciò siano perfetti nell'unità (cf Gv 10,11);
-
attingere dalla Liturgia delle Ore il nutrimento per la pietà e la
preghiera personale, oltre allo stimolo per l'azione pastorale e
missionaria a conforto di tutta la Chiesa di Dio;
-
accogliere con abbondanza la parola di Dio per diventare discepoli più
perfetti del Signore e gustare più profondamente le insondabili
ricchezze di Cristo (IGLO 29).
Concludiamo
queste riflessioni con le parole di Paolo VI nella Costituzione
Apostolica Laudis canticum con
cui promulgava la nuova Liturgia delle ore:
«Rinnovata
dunque e restaurata completamente la preghiera della santa Chiesa
secondo la sua antichissima tradizione, e tenuto conto delle necessità
del nostro tempo, è davvero auspicabile che essa pervada profondamente,
ravvivi, guidi ed esprima tutta la preghiera cristiana e alimenti
efficacemente la vita spirituale del popolo di Dio...
Avviene,
perciò, che la preghiera della Chiesa è insieme la preghiera che
Cristo con il suo Corpo rivolge al Padre. Mentre dunque recitiamo
l'Ufficio, dobbiamo riconoscere l'eco delle nostre voci in quelle di
Cristo e quelle di Cristo in noi»
3
- LE ORE
Consacrazione
del tempo . Santificazione dell'uomo
La
Chiesa, obbedendo fedelmente al comando del proprio Signore «Bisogna
pregare sempre senza stancarsi» (Lc 18,1), organizzò fin dall'inizio
alcune ore determinate da dedicare alla preghiera comune con la
partecipazione dei fedeli sotto la presidenza dei sacri Ministri. Si
sentì il bisogno di non limitare la preghiera dei figli di Dio alla
sola riunione domenicale per il sacrificio eucaristico, ma ogni giorno
furono scelte, anche sulla scorta della tradizione giudaica, alcune ore
particolari da destinare alla preghiera. Così, quando si faceva sera e
si accendeva la lucerna per rischiarare le ombre della notte, sorse
spontaneo di consacrare quel tempo a Colui che è «luce senza tramonto»;
oppure, quando al mattino sorgeva la luce del sole, come non rivolgere
la propria lode a Colui che come sole che sorge è venuto a visitarci
dall'alto per rischiarare quelli che stanno nelle tenebre e nell'ombra
della morte (Lc 1,18-19)?
La
Liturgia delle Ore, pertanto, ebbe fin dall'inizio questo preciso scopo:
santificare tutto il corso del giorno e della notte (IGLO 10 che cita SC
83-84). Santificando il tempo, il cristiano santifica la propria vita
che è impastata di tempo.
Cerchiamo
dunque di approfondire questi due concetti: consacrare il tempo,
santificare l'uomo. In questo ambito si dovrà pure chiarire il rapporto
esistente tra Liturgia delle Ore ed Eucaristia.
Consacrazione
del tempo
Per
gli antichi pagani il tempo era una misteriosa realtà che, a motivo del
suo scorrere inesorabile, segna l'esistenza umana con un marchio di
triste fatalità. Scorrendo veloce «come il sogno di un'ombra»,
neppure gli dèi potevano fare alcunché contro il tempo che passa
portandosi via la vita. Nonostante il tentativo di collocare tra gli dèi
dell'Olimpo anche il dio «Chrònos»,
cioè il Tempo, gli antichi videro il tempo come qualcosa di vuoto, di
malefico, di fatale.
Ben
diversa, invece, la concezione «biblica» del tempo. Non è il frutto
di un destino misterioso, ma ha avuto origine da Jahvè, il Creatore,
che ha creato anche il tempo e gli ha dato uno scopo (cf Gn 1,14). Egli
fa questo perché è il Signore della natura, e guida le stelle e il
tempo (Sal 104,19) stabilendo un tempo determinato per la crescita delle
piante e degli animali. Dio, in quanto signore-creatore dell'uomo, ne
determina la durata della vita stabilendo l'ora della sua nascita e
della morte: «Per tutto c'è il suo momento, un tempo per ogni cosa
sotto il cielo: tempo di nascere, tempo di morire...» (Qo 3, 1-2).
Per
la Bibbia il tempo perde quella dimensione del «chrónos» fatale, vuoto, ineluttabile, ed acquista piuttosto la
dimensione di «kairós»
inteso come «tempo favorevole», propizio dono di Dio all'uomo perché
possa dare prova di conversione e di fedeltà: «Compìte la vostra
opera in tempo giusto, ed a suo tempo vi darà la sua mercede» (Sir 51,
30).
Tuttavia
solo con la venuta di Cristo nel tempo, quando il Verbo eterno di Dio si
fa carne e pone la sua dimora tra noi (Gv 1,14), ha avuto inizio il vero
«kairós» favorevole. Con la
sua incarnazione Cristo dà inizio alla piena realizzazione del disegno
salvifico. Con la sua venuta il dominio regale di Dio è già qui,
adesso, in questo momento. Non c'è più tempo da attendere; il tempo
messo a disposizione dalla benevolenza divina va utilizzato, prima che
sia troppo tardi: «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino;
convertitevi e credete al vangelo» (Mc 1,15). Il tempo favorevole della
divina misericordia in favore dell'uomo, tanto atteso dai profeti, è
diventato realtà in Gesù; si chiude il tempo della divina pazienza e
si manifesta, in Cristo, la giustizia nel tempo presente al fine di
giustificare coloro che hanno fede in lui (Rm 3,26). Con Cristo ha avuto
inizio la «pienezza dei tempi» (Ef 1,10; Gal 4,4). Costituito «Signore»
in forza dello Spirito della risurrezione (Rm 1,4), Cristo siede ora
alla destra del Padre ed intercede incessantemente in nostro favore (Eb
7,25; Rm 8,34).
Dalla
risurrezione in poi, si ode ormai questo annunzio: «Ecco il momento
favorevole: ecco il giorno della salvezza» (2Cor 6,2). Poiché il
tempo, con Cristo, ha raggiunto la sua pienezza, non si può rimandare
la propria conversione e adesione di fede, né si può rimanere sordi
alla sua voce, correndo il terribile rischio dell'indurimento del cuore
( Eb 3, 7 - 4, 11 ) .
Se
Cristo ci ha liberati dalla schiavitù del tempo e ha spalancato dinanzi
a noi le porte dell'eternità beata, non per questo dobbiamo
addormentarci come servi pigri, ma dobbiamo stare desti e attenti
nell'attesa della venuta del Signore (Lc 21, 36).
Se
da una parte il tempo è l'occasione favorevole per la preparazione
all'incontro col Signore che viene, dall'altra è anche tempo di
combattimento spirituale contro le insidie del diavolo (Ef 6,11). Per
resistere nel giorno malvagio e poter superare le prove del tempo
presente, l’Apostolo dà questi consigli: «Pregate incessantemente
con ogni sorta di preghiere e di suppliche nello Spirito, vigilando a
questo proposito con ogni perseveranza e pregando per tutti i santi»
(Ef 6,18).
Il
vero credente è colui che, contrariamente al mondo che segue la regola
del «carpe diem» unicamente
per divertirsi nel momento che passa, si tiene piuttosto pronto per la
venuta di Dio sostenendosi a vicenda con i propri fratelli mediante «salmi,
inni e cantici spirituali» (Col 3,16; Ef 5,19-20).
La
riflessione sul significato del tempo ci spinge a percepire la necessità
di vivere santamente nel tempo propizio che il Signore ci mette a
disposizione (= kairós). La
preghiera liturgica delle Ore è quel meraviglioso «sacrificio della
lode» (Eb 13,15) che la Chiesa incessantemente innalza al Padre per
mezzo di Cristo, sostenuta dallo Spirito Santo. Santificando il tempo
dell'uomo, la Chiesa intende consacrare alla gloria di Dio ogni attimo
dell'esistenza umana. Essendo creati per l'eternità, non possiamo
vivere il tempo alla maniera pagana, assistendo impotenti allo scorrere
inesorabile delle stagioni, o peggio ancora comportandoci come quei
servi che approfittando del ritardo del padrone appesantiscono il loro
cuore in dissipazioni e affanni della vita (Lc 21,34); dobbiamo
piuttosto approfittare del «tempo favorevole» messo a nostra
disposizione dalla divina benevolenza per esercitarci fin da ora a
quella lode eterna che ci terrà occupati nella casa del Padre.
Ascoltiamo quanto suggerisce s. Agostino:
«La
meditazione della nostra vita attuale deve avvenire lodando Dio, perché
la felicità eterna della nostra vita futura sarà la lode di Dio. E
nessuno può essere adatto alla vita futura, se non si sarà preparato
ora ad essa..» (s. Agostino, Enarr. in Ps 118,1).
E
lo stesso s. Agostino, sviluppando un medesimo concetto in altro
contesto, afferma:
«Cantiamo
qui l'alleluia, mentre siamo ancora privi di sicurezza, per poterlo
cantare un giorno lassù, ormai sicuri... Ora infatti il nostro corpo è
nella condizione terrestre, mentre allora sarà in quella celeste. O
felice quell'alleluia cantato lassù! O alleluia di sicurezza e di pace!
Là nessuno ci sarà nemico, là non perderemo mai nessun amico. Ivi
risuoneranno le lodi di Dio. Certo risuonano anche ora qui. Qui però
nell'ansia, mentre lassù nella tranquillità. Qui cantiamo da morituri,
lassù da immortali. Qui nella speranza, lassù nella realtà. Qui da
esuli e pellegrini, lassù nella patria. Cantiamo pure ora, non tanto
per goderci il riposo, quanto per sollevarci dalla fatica. Cantiamo da
viandanti. Canta, ma cammina. Canta per alleviare le asprezze della
marcia, ma cantando non indulgere alla pigrizia. Canta e cammina» ( s.
Agostino, Discorso
256, 1. 3 ).
Santificazione
dell'uomo
A
che cosa servirebbe consacrare a Dio il tempo se poi noi che viviamo nel
tempo non santificassimo noi stessi attraverso la corretta utilizzazione
di questa creatura di Dio? Dobbiamo dunque santificare il tempo per
santificare noi stessi che di tempo siamo impastati.
A
questo punto dobbiamo necessariamente inserire una riflessione sul
rapporto tra Liturgia delle Ore ed Eucaristia. La celebrazione
dell'Eucaristia, infatti, resta sempre il «centro e il culmine di tutta
la vita della comunità cristiana» (CD 30; cf SC 10; PO 5).
Tutti
i Sacramenti, come pure tutti i ministeri ecclesiali e le opere di
apostolato, sono strettamente uniti alla s. Eucaristia e ad essa sono
ordinati.
«Infatti,
nella Santissima Eucaristia è racchiuso tutto il bene spirituale della
Chiesa, cioè lo stesso Cristo, nostra Pasqua e pane vivo che, mediante
la sua Carne vivificata dallo Spirito Santo e vivificante, dà vita agli
uomini i quali sono in tal modo invitati e indotti ad offrire assieme a
Lui se stessi, il proprio lavoro e tutte le cose create. Per questo
l'Eucaristia si presenta come fonte e culmine di tutta
l'evangelizzazione» (PO 5)
Al
centro di ogni comunità sta dunque la celebrazione eucaristica. Essa è
il «culmine» verso cui deve tendere tutta l'azione della Chiesa e dei
singoli battezzati; ed è pure la «fonte» da cui attingere le energie
spirituali per la santificazione, l'evangelizzazione, le opere di carità
(cf SC 10).
Come
nella vita del Signore la sua Pasqua di morte e risurrezione fu il punto
di arrivo di tutta la preparazione iniziata con l'antica alleanza e il
punto di partenza di ogni azione santificante nella Chiesa fino alla
Parusìa finale, così è dell'Eucaristia pasquale nella vita della
Chiesa e del cristiano.
Ogni
santificazione trae energie necessariamente dall'Eucaristia. Da qui la
necessità di estendere in qualche modo il «tempo dell'Eucaristia» a
tutte le ore del giorno e della notte. Per intenderci: si tratta di «pasqualizzare»
tutto il tempo dell'uomo perché è dalla Pasqua-Eucaristia che
scaturisce la salvezza dell'uomo. Questo compito di «pasqualizzare» il
tempo è svolto precisamente dalla Liturgia delle Ore. Infatti:
-
«La Liturgia delle Ore estende alle diverse ore del giorno le
prerogative del mistero eucaristico, centro e culmine di tutta la vita
della comunità: la lode e il rendimento di grazie, la memoria dei
misteri della salvezza, le suppliche e la pregustazione della gioia
celeste» (IGLO 12);
-
«La celebrazione dell'Eucaristia viene anche preparata ottimamente
mediante la liturgia delle Ore, in quanto per suo mezzo vengono
suscitate e accresciute le disposizioni necessarie alla fruttuosa
celebrazione dell'Eucaristia, quali sono la fede, la speranza, la carità,
la devozione e il desiderio dell'abnegazione di sé» ( IGLO 12 ).
E'
dunque compito della Liturgia delle Ore di «estendere»
e «preparare» la celebrazione dell'Eucaristia. Con una immagine
possiamo parlare del duplice movimento di «sistole» e «diastole» che
ha per centro il cuore. Dal cuore si estende a tutto il corpo il
movimento del sangue che porta le energie vitali all'organismo; verso il
cuore deve pure convergere quello stesso sangue per ricevere nuova
spinta ed energia. Se venisse a mancare, tra il centro e la periferia,
questo movimento vitale, si avrebbe arresto cardiocircolatorio,
collasso, morte.
Fuori
immagine si può pertanto dire che l'Eucaristia ha necessario bisogno
del duplice movimento che le dà la Liturgia delle Ore: quello di «estendere»
alle ore del giorno il centro pasquale dell'Eucaristia, e quello di «preparare»
adeguatamente noi che viviamo nel tempo a quell'incontro col Cristo
pasquale che si ha nell'Eucaristia.
Non
farà dunque meraviglia costatare che anche nella Liturgia delle Ore si
trovano gli stessi elementi costitutivi della Liturgia eucaristica (cf
IGMR 55): la lode e l'azione di grazie, il memoriale, l'offerta, la
supplica e l'intercessione.
La
lode e l'azione di grazie
«Nella
Liturgia delle Ore la Chiesa, esercitando l'ufficio sacerdotale del suo
Capo, offre a Dio incessantemente (1 Ts 5, 17) il sacrificio di lode,
cioè il frutto di labbra che confessano il suo nome» (IGLO 15).
Anche
la Liturgia delle ore, in quanto prolungamento della liturgia
eucaristica, diventa essa stessa una «eucaristìa», cioè un continuo
rendimento di grazie al Padre, per mezzo di Cristo, nello Spirito Santo.
Si benedice il Signore e si dà a lui gloria per tutte le opere
meravigliose compiute per noi uomini e per la nostra salvezza.
Questa
componente della Liturgia delle Ore è di gran lunga preponderante
rispetto alle altre. Si pensi a tutta la struttura dell'Ufficio:
-
l’invitatorio: ogni giorno,
la prima preghiera delle Ore si apre con una invocazione al Signore
perché apra le nostre labbra e ci renda degni di proclamare le sue
lodi.
Segue
il Salmo invitatorio (Sal 94) che è tutto un invito a lodare Dio:
applaudiamo, acclamiamo, rendiamogli grazie con canti di gioia, prostràti
adoriamo. Oppure il Sal 99, che esprime la gioia di coloro che entrano
nel tempio.
All'inizio
di ogni giorno, la Chiesa mette sulle nostre labbra il canto della
vittoria, il canto della lode: acclamiamo, serviamo, lodiamo,
benediciamo il Signore perché è buono, perché eterna è la sua
misericordia.
-
le Lodi mattutine: come dice
lo stesso nome, questa prima preghiera del mattino è tutta pervasa da
sentimenti di lode-eucaristia. Tutti i Salmi delle Lodi, compreso il
Cantico, hanno un tono laudativo. Citiamo ad esempio le Lodi della
domenica- I settimana:
*
Salmo 62: poiché la tua grazia vale più della vita, le mie labbra
diranno la tua lode;
*
Cantico: Benedite, opere tutte del Signore, il Signore, lodatelo ed
esaltatelo nei secoli (Dan 3,57);
*
Salmo 149: Cantate al Signore un canto nuovo; la sua lode nell'assemblea
dei fedeli.
Quanto
detto per l'invitatorio e per le Lodi mattutine vale anche per il resto
dell'Ufficio. Si faccia dunque attenzione a questo aspetto «eucaristico»
che caratterizza anche la Liturgia delle Ore e non si dimentichi che
l'antica tradizione ha chiamato con lo stesso nome di «Sacrificio della
lode» sia l'Eucaristia, sia la Liturgia delle Ore.
Il
memoriale.
Mentre
nella celebrazione eucaristica la Chiesa celebra il «memoriale» della
morte-risurrezione del Signore ricorrendo al segno sacramentale del pane
e del vino, nella Liturgia delle Ore il segno sacramentale da
santificare è il tempo. Abbiamo già detto che ogni santificazione trae
origine necessariamente dalla Pasqua del Signore. Per santificare il
tempo occorre dunque farlo partecipe della Pasqua. E' questo il compito
del «memoriale»: rendere attuale-efficace-presente il passato ed
anticipare il compimento futuro nell'«oggi» della Chiesa.
Nella
celebrazione delle Ore si farà dunque caso che ogni «Ora» è messa
necessariamente in contatto con un avvenimento storico della vita del
Signore. In forza del «memoriale» efficace posto in atto dall'azione
santificante dello Spirito che «tutto ricorda» (Gv 14, 26), la Pasqua
non è più un fatto lontano nel tempo e fuori della nostra portata;
essa diventa contemporanea a noi e noi contemporanei ad essa. Il «memoriale»
fa sì che «dove sono due o tre riuniti nel mio nome io sono in mezzo a
loro» (Mt 18,20).
Si
dovrà dunque fare attenzione, nella celebrazione dell'Ufficio, che ogni
«ora» ha una connotazione pasquale in quanto è collegata ad un
avvenimento della Pasqua del Signore. Per facilitare questo tipo di
lettura, facciamo un elenco di questi momenti pasquali di cui si fa «memoriale»
nelle Ore:
-
Lodi mattutine: si fa memoria
della Risurrezione di Cristo, la «luce vera che illumina ogni uomo»
(Gv 1,9), il «Sole di giustizia» (Mal 4, 2), il a Sole che spunta
dall'alto» (Lc 1,78) (Inno di
Lodi, I sett.);
-
Ora terza: si fa memoria della
Pentecoste: «Venga su noi, Signore, il dono dello Spirito, che in
quest'ora discese sulla Chiesa nascente» (Inno,
Terza).
-
Ora sesta: si fa memoria della
Crocifissione: «In quest'ora sul Golgota, vero agnello pasquale, Cristo
paga il riscatto per la nostra salvezza» (Inno,
Sesta).
-
Ora nona: si fa memoria di s.
Pietro che sale al tempio a pregare: «San Pietro che in quest'ora salì
al tempio a pregare, rafforzi i nostri passi sulla via della fede» (Inno, Nona).
-
Vespri: si fa memoria del
sacrificio di Cristo sulla croce; dell'Ultima Cena; del Cristo-Luce,
splendore della gloria del Padre (Eb 1,3); dello Spirito Santo, fiamma
che viene dal Padre dei lumi (Gc 1,17). Nell'ora in cui viene la notte e
si accende la lucerna, la Chiesa rivolge la propria lode-ringraziamento
a Colui che è «luce d'eterna luce», giorno senza tramonto (Inno
e orazione dei Vespri).
-
Compieta: si fa memoria del
Cristo che scende nel riposo della tomba con la certezza del prossimo
giorno radioso della risurrezione; vi sono richiami anche alla Venuta
ultima del Signore alla fine dei tempi (Inno
e orazione di compieta).
Circa
l'antichità di questo metodo di «pasqualizzare» le Ore ascoltiamo la
testimonianza di s. Agostino:
«Alla
sera il Signore in croce, alla mattina nella risurrezione, a mezzogiorno
nell'Ascensione... alla sera narrerò la pazienza del Morente, alla
mattina annuncerò la vita del Risorgente, a mezzogiorno pregherò Colui
che siede alla destra del Padre per essere esaudito» (In Ps. 54, I8).
Ogni
«Ora» ha dunque un aggancio con la Pasqua del Signore. In forza del «memoriale»
efficace ad opera dello Spirito, noi diventiamo gli uomini della Pasqua.
L'offerta.
Come
nell'Eucaristia, nei segni del pane e del vino, doni di Dio e frutto del
nostro lavoro, ci offriamo con Cristo al Padre, così nella Liturgia
delle Ore, nel segno del tempo, possiamo offrire a Dio tutta la nostra
esistenza. Offrendo il tempo santificato dalla lode, noi intendiamo
offrire noi stessi in quanto immersi nel tempo. In «quel» tempo noi
riconosciamo e offriamo «tutto» il tempo e tutta la nostra vita.
Nella
Liturgia delle Ore l'offerta sacrificale non è più il pane e il vino,
segno del Corpo sacrificato del Signore, ma il «tempo» in quanto «sacrificio
della lode». Per questo preghiamo: «accogli, o Padre buono, il canto
dei fedeli nel giorno che declina»; «accogli il nostro canto nella
quiete del vespro».
Lc
Ore diventano così quel meraviglioso ponte che, attraversando tutta la
giornata, riunisce il prima e il poi del nostro tempo quotidiano
immergendolo nel «tempo della salvezza» proprio in forza del «memoriale».
Supplica
e intercessione.
Oltre
alla lode di Dio, la Chiesa nella Liturgia esprime i voti e i desideri
di tutti i cristiani, anzi supplica Cristo e, per mezzo di lui, il Padre
per la salvezza di tutto il mondo. Questa voce non è soltanto della
Chiesa, ma anche di Cristo, poiché le preghiere vengono fatte a nome di
Cristo, cioè «per il nostro Signore Gesù Cristo», e così la Chiesa
continua a fare quelle suppliche che Cristo offrì nei giorni della sua
vita terrena (cf Eb 5,7) e che perciò godono di una efficacia
particolare.
E
così, non solo con la carità, con l'esempio e con le opere di
penitenza, ma anche con l'orazione la comunità ecclesiale esercita la
sua funzione materna di portare le anime a Cristo (cf PO 6).
Si
noterà l'arricchimento della nuova Liturgia delle Ore in rapporto a
questa dimensione eucaristica della «supplica e intercessione». Al
mattino e alla sera (Lodi e Vespri) preghiamo con le Invocazioni
e le Intercessioni, secondo
l'insegnamento dell'apostolo Paolo il quale raccomanda che: «Si
facciano domande, suppliche, preghiere e ringraziamenti per tutti gli
uomini...» ( 1 Tm 2,11).
Santificare
il tempo equivale a santificare l'uomo che vive nel tempo. Dal momento
che il «culmine» e la «fonte» di ogni santificazione sta nella
Pasqua del Signore offerta a noi nell'Eucaristia della Chiesa,
necessariamente anche la Liturgia delle Ore, per essere azione
santificante, deve avere in stretto rapporto con l'Eucaristia. Questo
rapporto consiste nel «distribuire» durante la giornata, nelle singole
«Ore», la stessa celebrazione eucaristica con i suoi elementi
costitutivi: la lode e l'azione di grazie, il memoriale, l'offerta, la
supplica e le intercessioni. In questo modo anche il nostro tempo
diventa un tempo pasquale-eucaristico: «preparazione alla prossima
eucaristia.
L'aver
insistito sull'intima connessione tra Liturgia eucaristica e Liturgia
delle Ore serve a farci prendere coscienza che «Nella Liturgia delle
Ore si compie la santificazione dell'uomo e si esercita il culto
divino...» (IGLO I4).
In
questo modo è più facilmente percepibile il rischio che spiritualmente
corrono coloro che, con troppa superficialità, trascurano di pregare le
«Ore». Proprio perché «estensione» dell'Eucaristia, la Liturgia
delle Ore è definita come «santificazione dell'uomo», fonte di «santificazione
larghissima» (IGLO 14), «genuina fonte di vita cristiana» (IGLO 18).
Il
Signore dia efficacia e sviluppo alle nostre opere, così che ogni
giorno veniamo edificati per diventare tempio di Dio, per mezzo dello
Spirito, fino alla misura che conviene alla piena maturità di Cristo e
nello stesso tempo irrobustisca le nostre forze per evangelizzare il
Cristo a coloro che ancora non lo conoscono.
4
- LA SANTIFICAZIONE
DEL GIORNO
Dimensione
oraria e personale delle
Ore
«Poiché
la Liturgia delle Ore è santificazione della giornata, l'ordinamento
dell'orazione è stato riveduto in modo che le Ore canoniche possano più
facilmente corrispondere alle varie ore del giorno, tenuto conto delle
condizioni in cui si svolge la vita degli uomini del nostro tempo»
(Laudis canticum, n.
2).
Nella
rinnovata Liturgia delle Ore si può dunque riscontrare una duplice
sensibilità: ridare a ciascuna Ora la sua funzione e il suo spazio (dimensione oraria); rendere possibile a tutto il popolo di Dio,
compresi i laici, la partecipazione attiva alla celebrazione comunitaria
della Liturgia delle Ore (dimensione
personale).
Dimensione
«oraria» della Liturgia delle Ore
Rispetto
alle altre forme di culto, fin dall'antichità la Chiesa ha
caratterizzato la Liturgia delle Ore con un evidente carattere di
continuità, di ritmo, di cadenza ciclica, secondo un particolare
ordinamento cronologico.
La
celebrazione eucaristica, ad esempio, non è legata ad un ritmo orario
fisso. Ben diversa invece la posizione della Liturgia delle Ore che,
come dice espressamente il Concilio «è ordinata a santificare tutto il
corso del giorno e della notte per mezzo della lode divina» (SC 84).
Però,
pur rispettando questa inalienabile qualità, il ritmo della «orarietà»
è impostato tenendo conto delle esigenze dell'uomo moderno. Cercheremo
di vedere le principali «varianti» apportate al precedente Breviario e
soprattutto di individuare la qualità specifica di ogni ora di
preghiera.
Le
Lodi mattutine e i Vespri
«Le
Lodi, come preghiera del mattino e i Vespri, come preghiera della sera,
che secondo la venerabile tradizione di tutta la Chiesa, sono il duplice
cardine dell'Ufficio quotidiano, devono essere ritenute le Ore
principali e come tali celebrate (IGLO 37).
Le
lodi mattutine:
sono destinate e ordinate a santificare il tempo mattutino come appare
da molti dei loro elementi. L'Inno
del martedì, ad esempio, canta: «Già l'ombra della notte si dilegua,
un'alba nuova sorge all'orizzonte: con il cuore e la mente salutiamo il
Dio di gloria».
Tale
caratteristica mattutina è espressa assai bene da queste parole di san
Basilio Magno:«La preghiera mattutina è fatta per consacrare a Dio i
primi moti della nostra mente e del nostro spirito in modo da non
intraprendere nulla prima di esserci rinfrancati col pensiero di Dio,
come sta scritto: Mi sono ricordato di Dio e ne ho avuto letizia (Sal
76, 4), né il corpo si applichi al lavoro prima di aver fatto ciò che
è stato detto: Ti prego, Signore, al mattino ascolta la mia voce; fin
dal mattino t'invoco e sto in attesa (Sal 5,45)».
Oltre
questa preoccupazione di carattere «cronologico», cioè la
santificazione delle prime ore della giornata, sta la necessità di
carattere «misterico» e cioè l'aggancio di questo tempo con la Pasqua
di Cristo in modo da renderlo tempo pasquale e quindi tempo di salvezza.
Le
Lodi mattutine, che si celebrano allo spuntare della nuova luce del
giorno, sono «memoriale» della risurrezione del Signore Gesù, «Luce
vera che illumina ogni uomo» (Gv 1,9) e «sole di giustizia» (Mal 4,
2), «che sorge dall'alto» (Lc 1,78).
Perciò
ben si comprende la raccomandazione di san Cipriano: «Bisogna pregare
al mattino, per celebrare con la preghiera mattutina la risurrezione del
Signore».
Pertanto,
se vogliamo stare con le direttive e lo spirito del Concilio, le Lodi
mattutine devono essere considerate come la preghiera ideale dei
cristiani per la mattina, specialmente per quanti fanno vita
comunitaria:
«Si
devono tenere in grandissima considerazione le Lodi mattutine come
preghiera della comunità cristiana: la loro celebrazione pubblica e
comune sia incoraggiata specialmente presso coloro che fanno vita in
comune. Anzi, la loro recita sia raccomandata anche ai singoli fedeli
che non possono partecipare alla celebrazione comune» (IGLO 40).
Vespri:
significano «tramonto» e in quanto tali «si celebrano quando si fa
sera e il giorno ormai declina» (IGLO 39).
Hanno
quindi un carattere marcatamente serale e non pomeridiano; vanno dunque
collocati nel tempo che comincia dal tramonto, come ben suggeriscono gli
Inni: «Accogli o Padre buono,
il canto dei fedeli nel giorno che declina» (martedì); «Ecco il sole
scompare all'estremo orizzonte; scende l'ombra e il silenzio sulle
fatiche umane» (giovedì).
Scopo
di questo secondo «cardine» dell'Ufficio quotidiano è quello di
santificare il tempo della sera: «per
rendere grazie di ciò che nel medesimo giorno ci è stato donato o con
rettitudine abbiamo compiuto»( san
Basilio ).
E'
la preghiera dell'azione di grazie e dell'offerta. Superato il culto dell'antica alleanza, Cristo ha voluto che
il «sacrificio della sera» fosse ormai costituito dal «levarsi delle
nostre mani» in preghiera «come incenso davanti al Signore» (Sal 140,2).
A
dar valore a questo «sacrificio vespertino» della nostra preghiera è
l'unione ad un duplice avvenimento pasquale di cui noi facciamo memoria
quando scende la sera:
«l'autentico
sacrificio vespertino è quello che il Signore e Salvatore affidò,
nell'ora serale, agli apostoli durante la Cena, sia quello del giorno
dopo, quando, con l’elevazione delle sue mani in croce, offrì al
Padre per la salvezza del mondo intero se stesso, quale sacrificio della
sera, cioè come sacrificio della fine dei secoli» (Cassiano).
Nell'ora
in cui Cristo celebra il suo sacrificio eucaristico nell'Ultima Cena e
quando questo stesso sacrificio lo compie sulla Croce, la Chiesa si
unisce al sacrificio pasquale del suo Sposo e Signore e canta:
«0
luce gioiosa della santa gloria dell'eterno Padre celeste, Gesù,
Cristo; giunti al tramonto del sole, vedendo il lume della sera,
celebriamo il Padre, e il Figlio e lo Spirito Santo Dio...» (san
Basilio).
Si
ricorderà che la preghiera del Vespro affonda le sue radici già nella
tradizione giudaica: era la preghiera di benedizione che gli ebrei
rivolgevano al Signore al momento di accendere la lampada quando si
faceva notte. Questo fatto
contribuì a dare alla preghiera cristiana del Vespro sia un significato
«escatologico» in quanto
indica la fine del tempo e l'eternità gloriosa, sia un significato «trinitario»
in quanto canta la gloria di Cristo il Verbo-luce, Luce da Luce,
splendore della gloria del Padre (Eb
1,3), datore dello Spirito Santo, Fiamma che viene dal Padre dei
lumi ( Gc 1, 17).
Da
quanto detto sulla natura e la funzione delle Lodi mattutine e dei Vespri si
dovrebbe concludere che oltre «le preghiere» del mattino o della sera,
vi è soprattutto «la preghiera» ecclesiale e liturgica delle Ore che
ogni cristiano (anche i laici e non solo i religiosi) dovrebbe
considerare come propria preghiera personale e comunitaria.
L'Ufficio
delle Letture
L'Ufficio
delle letture ha lo scopo di proporre al popolo di Dio, e specialmente a
coloro che sono consacrati al Signore in modo particolare, una
meditazione più sostanziosa della Sacra Scrittura e delle migliori
pagine degli autori spirituali. Sebbene, infatti, già la liturgia
eucaristica quotidiana offra un ciclo più abbondante di letture della
Sacra Scrittura, sarà di grande profitto per lo spirito anche quel
tesoro della rivelazione e della tradizione contenuto nell'ufficio
delle letture. Soprattutto i sacerdoti devono cercare questa ricchezza
per poter dispensare a tutti la parola di Dio, che essi stessi hanno
ricevuto, e per fare della dottrina che insegnano il nutrimento per il
popolo di Dio (IGLO 55).
L'ufficio
delle letture ha quindi un'intonazione contemplativa e meditativa che
gli deriva dal fatto di avere nelle letture della Scrittura e dei Padri
la parte preponderante.
Più
che nelle altre Ore, qui è accentuata l'azione di Dio che parla e si
manifesta. Ma la Parola di Dio provoca ed esige una risposta. Per
facilitare questo colloquio divino-umano, l'Ufficio delle letture
comprende anche un Inno, tre Salmi, un'orazione.
Non
dovrebbe sfuggire l'indicazione dell’Istituzione
Generale della Liturgia delle Ore (IGLO) che anche qui, come del
resto già nella parte generale (cf nn. 20. 28), dopo aver ricordato che
questa preghiera è di tutto il popolo di Dio, dichiara che essa
appartiene «specialmente a quelli che sono consacrati al Signore in
modo particolare» (IGLO 55).
Rispetto
al «Mattutino» del precedente Breviario, l'attuale Ufficio delle
letture «pur conservando il carattere di preghiera notturna per il
coro, deve essere adattato in modo che si possa recitare in qualsiasi
ora del giorno, e avere un minor numero di salmi e letture più lunghe»
(IGLO 57).
Questo
Ufficio ha dunque un duplice carattere: notturno e diurno. Per tale
ragione è stata predisposta una duplice serie di Inni, una per quando
si prega in ore notturne e una per quando si prega in qualsiasi ora del
giorno.
Il
tempo più adatto per pregare l'Ufficio delle letture è dunque «qualsiasi
ora del giorno» (IGLO 59), pur restando «lodevole» la tradizione di
coloro che volessero recitarlo di notte o di buon mattino prima delle
Lodi. In questo caso acquista il tono di celebrazione vigiliare e può
essere recitato «anche nelle ore notturne del giorno precedente, dopo
aver recitato i Vespri» ( IGLO 59 ) .
Celebrazioni
vigiliari.
Dopo
il ripristino, non senza lentezze, della Veglia pasquale «madre di
tutte le veglie» si è sentito il bisogno di estendere questa
consuetudine anche ad altre solennità come il Natale e la Pentecoste.
Questa tradizione merita di essere conservata e promossa; eventualmente
estesa anche ad altre solennità o in occasione di pellegrinaggi. I
Padri e gli autori spirituali, infatti, spessissimo hanno esortato i
fedeli, specialmente coloro che fanno vita contemplativa, alla preghiera
notturna, con la quale si esprime e si incita all'attesa del Signore che
tornerà: «A mezzanotte si levò un grido: Ecco lo sposo, andategli
incontro!» (Mt 25,6); «Vigilate, dunque, poiché non sapete quando il
padrone di casa ritornerà, se alla sera, o a mezzanotte, o al canto del
gallo, o al mattino, perché non giunga all’improvviso, trovandovi
addormentati» (Mc 13,35-36).
Sono
dunque degni di lode tutti coloro che conservano all'Ufficio delle
letture il suo carattere notturno (IGLO 70-72).
Ora
media.
Secondo
una tradizione antichissima i cristiani erano soliti pregare per
devozione privata in diversi momenti nel corso della giornata, anche
durante il lavoro, per imitare la Chiesa apostolica.
Questa
tradizione, con l'andar del tempo, si concretizzò in celebrazioni
liturgiche fissate a tempi determinati detti latinamente terza, sesta, nona, secondo la terminologia cronologica dei Romani
antichi.
Nel
precedente Breviario queste tre Ore erano obbligatorie. La riforma
liturgica del Vaticano II ha invece introdotto una duplice possibilità:
-
restano obbligatorie: per
coloro che fanno vita contemplativa, per coloro che sono tenuti al coro,
per coloro che l'hanno prescritta per Regola; sono raccomandate per
coloro che fanno dei ritiri, esercizi spirituali o convegni pastorali.
Il Concilio, quindi, non solo non le ha soppresse, ma le consiglia come
una forma più completa di preghiera per coloro che lo possono o lo
vogliono;
-
se ne può scegliere una:
quella che più si adatta al momento della giornata, in modo che sia
conservata la tradizione di pregare nel corso della giornata nel mezzo
del lavoro. Per questo motivo è stata chiamata «Ora media» in quanto
è destinata a santificare lo spazio intermedio fra Lodi e Vespri, fra
la mattina e la sera.
L'uso
liturgico di santificare ciascuna di queste tre Ore permise di
concentrare attorno a ciascuna ora qualche episodio della Pasqua del
Signore o della primitiva comunità apostolica:
-
ora terza: si fa memoria della
discesa dello Spirito Santo nella Pentecoste e della via dolorosa di
Cristo verso il Calvario;
-
ora sesta: si fa memoria
dell'Ascensione di Cristo, del suo aver sete sulla croce, delle tenebre
del mondo al momento della passione, della preghiera di Pietro e la
rivelazione che ebbe circa la salvezza dei pagani;
-
ora nona: si fa memoria
dell’agonia di Cristo, della supplica del buon ladrone e la risposta
del Crocifisso, della preghiera degli Apostoli al tempio e la guarigione
dello zoppo alla porta Bella, dell'apparizione dell'angelo a Cornelio.
L'ordinamento
di Terza, Sesta, Nona è
strutturato in modo da tener conto sia di coloro che dicono soltanto
un'Ora, cioè l'«Ora media», sia di coloro che devono o desiderano
dire tutte e tre le Ore. Per questo motivo ogni Ora ha gli elementi suoi
propri. Solo la salmodia è comune; è prevista però una salmodia
complementare per chi vuol recitare tutte e tre le Ore.
Compieta.
Compieta
è l'ultima preghiera canonica del giorno, da recitarsi prima del riposo
notturno (eventualmente anche dopo la mezzanotte) e pertanto, come dice
il significato della parola, è la preghiera che dà «compimento» e «conclusione»
al lavoro della giornata.
Essendo
la preghiera destinata a preparare e santificare il riposo notturno, ha
per tema generale la confidenza in Dio. Si sa infatti che, secondo
l'idea degli antichi, la notte è il tempo della pericolosità e delle
insidie. Per questo la Chiesa mette sulle nostre labbra espressioni di
fiducia nella protezione di Dio misericordioso. Ad essa è associato
anche l'esame di coscienza di tutta la giornata e quindi acquista anche
un carattere di pentimento e di richiesta di perdono a Dio.
Concludendo
questa riflessione sulla «orarietà» delle Ore e sulla natura e lo
scopo di ciascuna di esse, vorremmo sottolineare ancora l'elemento
specifico che le caratterizza: santificare tutto il corso del giorno e
della notte per mezzo della lode divina (SC 84).
L'Ufficio
divino diventa così «segno sacramentale» di santificazione di tutta
l'attività umana e, con i brevi momenti della preghiera delle Ore, mira
a ordinare tutto e tutte le cose alla glorificazione di Dio e a
coinvolgerli nell'economia della salvezza.
Avendo
come suo primo modello la lode trinitaria che è eterna, senza pause o
interruzioni, la Liturgia delle Ore diviene «segno sacramentale» anche
della lode trinitaria.
Ne
consegue che il rispetto dei tempi previsti per la preghiera delle Ore
non è una semplice esigenza rubricale o giuridica, ma piuttosto
l'esigenza di rispettare la «sacramentalità» di questa preghiera in
quanto memoriale efficace di un determinato tempo di salvezza. Celebrare
le Ore fuori del loro spazio sembra dare un tono falso alle preghiere
che pure sono legate al mistero di Cristo compiuto in un tempo ben
determinato. Per un principio di verità e di autenticità si richiede
pertanto che «nel celebrare la Liturgia delle Ore si rispetti, per
quanto è possibile, il loro vero tempo» (IGLO 29).
Dimensione
«personale» della Liturgia delle Ore
L'eccessiva
considerazione degli «elementi» della preghiera delle Ore e
l'insistenza sulla necessità di una loro celebrazione «comunitaria»
potrebbero creare il grosso equivoco di una preghiera estranea a colui
che prega, una preghiera che non riesce a coinvolgere la sua personalità
orante.
Occorre
dunque riflettere sulla dimensione «personale» di questa preghiera nel
senso che ciascuno è chiamato ad entrarvi dentro come nella propria
preghiera in modo che essa diventi fonte di pietà e nutrimento della
propria preghiera personale» (SC 90). In una parola: la Liturgia delle
Ore deve essere autenticamente pregata coinvolgendo tutta la persona in
un insieme armonico di tempo e di preghiere.
«Perché
questa preghiera sia propria di ciascuno di coloro che vi prendono parte
e sia parimenti fonte di pietà e di molteplice grazia divina, e
nutrimento dell'orazione personale e dell'azione apostolica, è
necessario che la mente stessa si trovi in accordo con la voce mediante
una celebrazione degna, attenta e fervorosa» (IGLO 19)
Tutto
questo suppone che al movimento esteriore delle labbra deve
accompagnarsi quello profondo dei pensieri, della volontà e degli
affetti. E' forse opportuno ricordare che le «formule di preghiera»
non sono preghiera, ma mezzi o strumenti per pregare.
Come
tutta la Liturgia, anche la preghiera delle Ore è una realtà
sacramentale composta di elementi sensibili chiamati «segni». Mediante
questi segni (salmi, letture, orazioni, ecc.) la realtà divina irrompe
nella nostra vita di uomini. La Chiesa offre dunque degli strumenti di
preghiera, dei «segni», ma il contenuto salvifico viene dall'alto.
Attraverso questo spazio orante che noi offriamo, Dio effonde nell'oggi
il suo mistero di salvezza.
Possiamo
pertanto dire che tutta la Liturgia delle Ore è azione santificante di
Dio mediante la grande intercessione di Cristo nostro Sommo Sacerdote.
Dal momento però che Cristo ha unito indissolubilmente a sé la Chiesa
come sua Sposa, la sua e la nostra voce formano un unico cantico di lode
al Padre. Ma come potrebbe Cristo assumere la mia preghiera e farla sua
se io di fatto non prego limitandomi a pronunciare dei suoni e a muovere
semplicemente le labbra?
«Se
il cuore non prega, la bocca si muove invano» e Cristo non può far
sua una preghiera che in me non esiste. Se da una parte è doveroso
occuparsi delle «tecniche» di preghiera e sul modo di recitare
decorosamente la Liturgia delle Ore, dall'altra si tenga presente che a
questi strumenti esterni deve fare riscontro una partecipazione
interiore e personale di colui che prega.
La
quantità sulla quantità.
Gesù
stesso aveva messo in guardia i suoi contro la comune concezione pagana
della preghiera che consisteva nello «stancare gli dei» moltiplicando
le parole. Egli al contrario dice: «Non moltiplicate le parole come i
pagani, i quali pensano di essere esauditi per la quantità delle loro
parole» (Mt 6,7).
Nel
riformare la Liturgia delle Ore, il Vaticano II si è preoccupato della
«qualità» della preghiera rivedendo la «quantità» della medesima.
Distribuendo ad esempio i Salmi nell'arco di quattro settimane (prima
erano concentrati in una settimana) non si è voluto certo incoraggiare
la pigrizia col pregare di meno, ma si è voluto privilegiare la qualità
aiutando a pregare meglio. Non si è voluto diminuire il tempo da
dedicare alla preghiera, ma si è voluto allargare la strada del Signore
perché possa più facilmente penetrare nel nostro cuore attraverso la
lenta «ruminazione» delle preghiere che pronunciamo («la mente si
trovi in accordo con la voce»).
Già
l'antico monachesimo orientale era arrivato alle stesse conclusioni
secondo quanto ci riferisce Cassiano:
«(I
monaci) non pongano la loro compiacenza nella quantità dei versi, ma
nella loro comprensione... Ritengano perciò molto più utile dire dieci
versi con la necessaria calma contemplativa, che eseguire tutto il Salmo
con quella confusione mentale che solitamente è generata dalla fretta
di arrivare alla fine» (Cassiano, Institutiones, 2. 11).
Nella
nostra comunità, pertanto, interroghiamoci se c'è davvero questo
desiderio di favorire una autentica preghiera «personale» ricercando
la «qualità» dell'orazione senza per questo rubare il tempo alla
preghiera.
Comunione
e comunità
Per
avere una Liturgia delle Ore che sia autentica preghiera «personale»,
occorre ricercare anche un giusto equilibrio con la sua dimensione «comunitaria».
Coloro che pregano non sono una giustapposizione di persone, ma una «comunità»
orante riunita e amalgamata dalla presenza dello Spirito del Signore
Risorto. Con le parole di s. Ignazio di Antiochia dovremmo parlare delle
nostre comunità in preghiera come di un coro che canta l'unica melodia
divina nell'armonia formata dalla diversità delle voci:
«Nel
vostro spirito unanime e nella vostra carità all'unisono si canta Gesù
Cristo. E formate tutti insieme un coro per cantare in un'armonia unica
e in un'unica tonalità a una sola voce per mezzo di Gesù Cristo al
Padre, affinché egli pure vi oda e riconosca, attraverso ciò che fate,
come voi siete membra di suo Figlio» (s. Ignazio, Agli Efesini IV.
1-2).
Lo
stesso santo martire, scrivendo ai cristiani di Magnesia, diceva:
«Quando
vi radunate insieme, una sola sia la preghiera, una la supplica, una la
mente, unica la speranza, nella carità, nella gioia santa che è in Gesù
Cristo, oltre il quale nulla vi è di superiore. Tutti correte insieme
come in un solo tempio di Dio, come a un solo altare, intorno all'unico
Gesù Cristo, che è uscito dal solo Padre, e presso quello solo dimorò,
e a quello solo è tornato» (s. Ignazio, Ai Magnesi, 8, 1) .
E
san Cipriano aggiungeva: «Vale più
l'orazione concorde di pochi, che quella discorde di molti».
Ne
consegue che per pregare bene la Liturgia delle Ore si deve creare una
«comunità in comunione» dove le singole voci oranti non sono
annullate ma piuttosto convergono con il loro personale contributo di
preghiera che si manifesta con la fusione delle voci nelle acclamazioni
e nel canto, nel ritmo della salmodia, nel modo di eseguire i gesti
previsti.
Ci
siamo soffermati a riflettere sulla Liturgia delle Ore mettendone in
risalto la dimensione «oraria» e «personale». Caratterizzandosi come
preghiera destinata, per antica tradizione cristiana, a «santificare
tutto il corso del giorno e della notte» (IGLO 10) esige che se ne
rispetti questa specifica dimensione «oraria» «celebrando le singole
Ore osservando, per quanto è possibile, il loro vero tempo» (IGLO 29).
Inoltre,
per il fatto di essere essenzialmente preghiera di Cristo e della
Chiesa, non si deve diminuire la portata «personale» di questa
preghiera: Cristo e la Chiesa, infatti possono assumere la mia preghiera
solo se di fatto io prego. Pronunciare parole ed emettere suoni dalle
labbra, non è ancora pregare. La preghiera nasce dall'accordo della
voce con la mente e con il cuore. Non dunque una preghiera anonima, ma
una preghiera di persone oranti che si fondono insieme per formare una
comunità in comunione e per essere membra armoniche dell'unico Corpo
sacerdotale di Cristo Signore.
5 - I SALMI
Il nome
- Il genere letterario
Proseguendo
la nostra riflessione sulla Liturgia delle Ore, siamo arrivati a parlare
di quella parte così preponderante costituita dai Salmi.
Già
la Costituzione sulla sacra Liturgia esortava a questo studio: «Poiché
l'Ufficio divino in quanto preghiera pubblica della Chiesa, è fonte di
pietà e nutrimento della preghiera personale, si esortano, nel Signore,
i sacerdoti e tutti gli altri che partecipano all'Ufficio divino a fare
in modo che, nel recitarlo, la mente corrisponda alla voce. A tale scopo
si procurino una maggiore istruzione liturgica e biblica, specialmente
riguardo ai Salmi» (SC 90; IGLO 102).
Se
vogliamo che la nostra mente si trovi in accordo con la nostra voce,
dobbiamo necessariamente conoscere quelle parole e quelle espressioni
che la Chiesa pone sulle nostre labbra. Iniziamo quindi con una certa
sistematicità a scoprire il senso e il valore di queste antichissime
preghiere in modo da avere una partecipazione più intelligente e
spirituale alla preghiera liturgica della Chiesa qual è appunto la
Liturgia delle Ore.
Il
nome
Il
nome «Salmo» ha la sua origine nella traduzione greca dei «Settanta»
che dà a questo libro della Bibbia il titolo di «psalmòi»,
cioè «cantici da eseguire al suono del salterio». Il verbo greco «psallein» significa infatti pizzicare con le dita uno strumento a
corda, detto «salterio». Furono quindi chiamati «psalmòi» quei cantici biblici che venivano cantati con
l'accompagnamento di uno strumento a corda (il salterio o anche la
lira).
Nelle
Bibbie ebraiche questo libro porta il nome di «tehillim», cioè «cantici di lode», ed occupava il primo posto
tra quei libri che noi siamo soliti chiamare «sapienziali».
I
Salmi pertanto non sono letture, né preghiere scritte in prosa, ma
poemi di lode. Quindi anche se talvolta sono stati eseguiti come
letture, tuttavia, in ragione del loro genere letterario, giustamente
furono chiamati dagli ebrei «cantici di lode» da pregare cantando. Ne
consegue che, per questo loro costitutivo carattere musicale, anche
quando vengono recitati senza canto, devono sempre conservare questo
stile musicale che tende a muovere il cuore di quanti li pregano.
L'origine.
Quasi
la metà di tutto il Salterio (150 Salmi) è attribuita a Davide. E'
probabile che tale attribuzione sia sostanzialmente vera anche se si
deve supporre che alcuni di questi Salmi molto antichi siano stati
rimaneggiati con aggiunte o soppressioni per esigenze liturgiche. Altri
autori sono: Asaf (cui vengono attribuiti 12 Salmi) capo di una famiglia
di cantori che sopravvisse fino all'esilio; Core (11 Salmi) capo di
un'altra famiglia di cantori; Mosè (1 canto), Salomone (2 Salmi), Heman
(1 Salmo). Gli altri Salmi sono anonimi, per lo più inni di lode e di
ringraziamento a Dio: fra di essi si distinguono i cosiddetti «Salmi
graduali» (120-134) di origine levitica e composti per il canto
processionale dei pellegrini in occasione della loro salita al Tempio
nelle tre grandi feste di pellegrinaggio (Pasqua, Pentecoste,
Tabernacoli).
Come
si vede, la formazione del Salterio non è stata fatta né a tavolino né
in un ristretto periodo di tempo. Per la sua lenta composizione sono
occorsi quasi un migliaio di anni lungo i quali ogni generazione ha
portato il suo contributo, trasfondendo in questi canti le fervide
preghiere di tutto un popolo, l'amore verso il proprio Dio, il lamento
sulle miserie della vita quotidiana, il desiderio ardente verso un
avvenire di serenità e di pace.
Per
avere un'idea sull'origine del Salterio possiamo fare un qualche
paragone con i nostri canti popolari: il più delle volte non sappiamo
chi sia l'autore, ma col passare delle generazioni i migliori di questi
canti si sono affermati con qualche rimaneggiamento fino a divenire
patrimonio comune di tutto un popolo. La stessa cosa possiamo dire dei
Salmi: lo Spirito Santo ha ispirato questi poeti dello spirito e della
preghiera mettendo sulle loro labbra quelle espressioni che Dio stesso
ha ritenuto adatte ad esprimere l'intenso amore che lega un popolo al
proprio Signore.
In
occasione della preghiera del sabato nella sinagoga, e soprattutto in
occasione del lento salire a Gerusalemme per il pellegrinaggio, tutta la
carovana dei pellegrini pregava cantando e lodando Dio per le immense
meraviglie compiute a favore del suo popolo. I fiori del campo, gli
uccelli dell'aria, sono tutti motivi che suscitano sentimenti di lode e
di gratitudine a Colui che ha creato con sapienza e amore tutte le cose.
La
liturgia della sinagoga o del tempio diviene il momento privilegiato di
esecuzione e di ascolto di questi canti; i migliori si imparano subito a
memoria e ritornando a casa sono ripetuti con profonda commozione e
rispetto quasi assaporando quei momenti indimenticabili trascorsi nella
casa del Signore.
All'epoca
dei Maccabei (2° sec. a.C.) il libro del Salterio è pressoché
definito così come noi oggi lo conosciamo. Dei numerosi canti ne sono
conservati 150: quasi tutti portano un titolo che serve ad indicare
l'autore, il genere poetico, il tono musicale con cui si deve cantare,
l’uso liturgico, la circostanza della sua composizione.
L'insieme
dei 150 Salmi formò dunque uno dei Libri della Bibbia dell'Antico
Testamento chiamato «Salterio». Al tempo di Gesù tale libro era già
stabilizzato nei contenuti e costituiva la base principale della
preghiera di ogni pio Israelita. Questo spiega come essi, dopo aver
risuonato per secoli sulle labbra dei fedeli e nei cori dei Leviti
ebrei, furono amati da Gesù che con parole tratte da essi espresse la
sua angoscia e la sua confidenza con il Padre durante tutta la sua vita
e soprattutto nei giorni della sua passione.
La
Chiesa li accolse come suo tesoro e da due millenni li ripete con quegli
stessi sentimenti con i quali Gesù offrì lodi e suppliche al Padre.
I
Salmi diventano cosi abituali anche presso i cristiani tanto da
suscitare questa testimonianza di S. Giovanni Crisostomo:
«Se
noi celebriamo le vigilie in Chiesa, Davide viene primo e ultimo e in
mezzo; se facciamo lutto per i trapassati, se le vergini in casa siedono
al telaio, ancora Davide è primo e ultimo e in mezzo. O meraviglia!
Molti che appena conoscono i primi rudimenti delle lettere sanno il
Salterio a memoria».
Il
Salterio.
Tra
i 46 Libri di cui si compone l'antico Testamento nella Bibbia cattolica,
il Libro dei Salmi è al 23° posto (dopo i Libri della Legge e i Libri
storici e prima dei Libri profetici). Per conoscere meglio questo libro
della Bibbia parleremo della sua divisione, del suo genere letterario,
della sua numerazione.
La
divisione del Salterio
Già
la tradizione ebraica prima di Cristo aveva diviso il Salterio in cinque
libri: come vi erano i cinque libri o «Pentateuco della Torah», cioè
della Legge, intesa come proposta di Dio al suo popolo, così dovevano
esserci anche cinque libri, il «Pentateuco della Tefillah», cioè
della preghiera e della lode intesa come risposta del popolo al proprio
Dio.
Ciascuno
di questi cinque libri della preghiera è concluso da una «dossologia»
o invocazione di lode (Salmo 41,14; 72, 18-20; 89, 52; 106, 48):
-
1° libro (Sal 1-41). E'
dedicato ai Salmi che descrivono l'affronto tra il giusto credente e
l'empio. Il Salmo 1, quello delle «due vie», apre la raccolta
mostrando l'inconciliabilità e la diversa sorte dell'uomo, a seconda
della sua posizione nei confronti di Dio. Il punto più profondo di
contrasto si ha nel Salmo 22, il Salmo con cui ha pregato Gesù sulla
croce («Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato»: Mt 27, 46)
quale massima espressione dell'angoscia e della fiducia in Dio espressa
dal giusto perseguitato. Il confronto continua fino al Salmo 41, dove si
parla del giusto che languisce nel suo letto di dolore mentre gli stessi
amici alzano il calcagno contro di lui: ma il Signore lo custodirà e
gli darà vita.
-
2° libro ( Sal 42-47 ). Si apre con Salmi che descrivono il
desiderio di Dio da parte dei fedeli che sono in esilio. Qui il nemico
non è l'empio, ma il peccato che ostacola la piena comunione con il
proprio Dio. Chiave di volta di questo libro è il Salmo 48 che canta la
bellezza inespugnabile di Sion ( = Gerusalemme): parallelamente alle
esperienze dell'Esodo, il Signore continua a liberare il suo popolo
dall'assalto dei nemici; «il nostro Dio è colui che ci guida».
-
3° libro (Sal 73-79). Come il corrispondente Levitico, contiene
Salmi di meditazione sul passato e proietta verso i tempi ultimi, quelli
messianici. Dio, che ha liberato il suo popolo, lo conduce mediante
Davide, il pastore (Sal 79). Questo libro insiste sul culto e trova nel
Salmo 84 il suo centro («Quanto amabili sono le tue tende... beati
coloro che abitano nella tua casa...»).
-
4° libro (Sal 9-106). E' la
celebrazione della potenza del Signore, vero pastore del suo popolo.
Egli è il Re della terra e dell'universo, il giudice che sta per
arrivare con grande spavento dei suoi nemici, colui che inaugura il suo
regno vittorioso.
-
5° libro (Sal 107-150). E' il
libro della lode sulla montagna ormai salita. E' il libro che esprime la
gioia per il Signore vincitore degli idoli, abitante in Sion sua città
santa. Chiave di questo libro è il Salmo 119, il Salmo della legge.
Come nel corrispondente libro del Deuteronomio, troviamo qui le
benedizioni per chi osserva la legge e le maledizioni verso i
trasgressori. Gli ultimi Salmi sono poi tutti una lode al Signore cui
partecipano tutte le creature dell'universo.
Il
«genere letterario» del Salterio
Non
va dimenticato che il Salterio è essenzialmente un libro di preghiera;
è questa la sua originalità nei confronti degli altri libri della
Bibbia. Una preghiera, però, non tanto «personale», ma piuttosto «comunitaria».
Fin dalla loro iniziale redazione i Salmi hanno avuto una evidente
destinazione liturgico-comunitaria: prevale quindi il «noi». Il che
non significa che poi non siano serviti anche come preghiera personale;
in questi casi dal «noi» si passa all'«io» della singola persona.
Il
culto ha giocato quindi un ruolo determinante nella composizione e
definizione dei Salmi; proprio questa loro struttura liturgica ci
permetterà di operare una certa catalogazione secondo alcuni «generi
letterari».
Riconoscere
il genere letterario di un Salmo è il primo passo da fare per capirlo.
Ci permetterà infatti di ritrovare l'intenzione del Salmista, di
entrare nella sua prospettiva.
I
biblisti hanno individuato ben 13 generi letterari:
-
le «Suppliche»: Ne
vengono elencate circa 32. Attenzione però a non farsi ingannare dal
termine; bisogna invece capire cosa era nell'antichità un supplice. Il
supplice era colui che si metteva sotto la protezione di un potente per
sfuggire ad un pericolo, che poteva venire dalla stessa persona
supplicata, se questa si preparava a punire. Con l'aiuto di vari gesti
simbolici, il supplice esprimeva la sua totale remissione alla persona
cui si rivolgeva e l'incondizionata dipendenza da questa. «Supplicare
Dio», nel linguaggio dei Salmi, significa presentarsi davanti a lui in
atteggiamento di supplice: alzare gli occhi, tendere le mani,
prosternarsi, rifugiarsi in lui...
Un
Salmo di supplica si può dividere, generalmente, in tre parti: a. un
preambolo ( ci si presenta a Dio e lo si invoca per alcune necessità);
b. la supplica (si espone il caso, si fa la supplica vera e propria, si
portano alcuni motivi di persuasione); c. conclusione innica (è un
anticipato rendimento di grazie per il beneficio che si suppone
ottenuto).
Non
abbiamo qui lo spazio per analizzare questi Salmi di «supplica»;
invitiamo il lettore ad analizzare lui stesso uno di questi Salmi, ad
esempio il Salmo 56 (Lodi, giov. I sett.).
-
gli «Inni». Sono
chiamati «tehillim» per il
loro carattere innico e laudativo. Sono Salmi legati alle feste
liturgiche, soprattutto alla festa delle «capanne», festa di gioia in
ricordo dell'alleanza. Questi Salmi nascono da un'esigenza gioiosa di
ringraziamento a Dio per i suoi prodigi operati nella storia, per
l'assistenza e la vicinanza al popolo. I verbi che maggiormente
prevalgono esprimono gioia e ripetono spesso 1'«alleluja». Si può
prendere in esame il Salmo 91 (lodi sab. II sett.: Inno a Dio creatore).
-
Salmi di «ringraziamento». Sono
legati al sacrificio di ringraziamento che il pio israelita faceva nel
tempio di Gerusalemme dopo aver ricevuto una grazia. Colui che deve
rendere grazie si avvicina all'altare del sacrificio seguito da parenti
ed amici e li invita ad associarsi alla sua azione di grazie. Poi fa il
racconto dell'intervento divino in suo favore e conclude con una
riflessione morale: se il Signore ha potuto salvare me che sono un
peccatore e che mi trovavo in una situazione senza vie di uscita, potete
capire qual è la sua potenza e quanto grande è il suo amore.
Si
può prendere in esame il Salmo 29 (Vespri, giov. I sett.: rendimento di
grazie per la liberazione dalla morte ).
-
Salmi «regali». Questi Salmi
venivano usati per l'intronizzazione del Re, il discendente di Davide,
il difensore dei poveri, il pastore del popolo. Si augura al Re un regno
senza fine, una dominazione universale. Si può prendere in esame il
Salmo 109 (2 Vespri dom. 1. 2. 3. 4. sett.: Il Messia re e sacerdote).
Molto
simili ai Salmi «regali», ma da essi distinti, sono invece i Salmi del
«regno» nei quali si canta
l'intronizzazione simbolica di Jahvè. Si cantavano in occasione della
processione dell'arca fin dentro il Tempio, nel Santo dei Santi, dove
Dio regna invisibile. Ricorrono grida di gioia, battiti di mani, suoni
di tromba e il grido «Jahvé regna!». Egli è il Vittorioso che ha
messo ordine nel caos fin dall'origine del mondo; per questo anche
l'universo lo acclama. Si veda come esempio il Salmo 23 (Lodi, mart. I
sett.: Il Signore entra nel suo tempio).
-
I «cantici di Sion». Nella
Bibbia, la parola «Sion» equivale a Gerusalemme. Il popolo di Israele
aveva una speciale celebrazione per esaltare l'elezione in questa città
da parte di Jahvé e la supremazia del Tempio destinato ad essere centro
di raccolta di tutti i popoli della terra. Si può prendere come esempio
il Salmo 75 (Ora media, dom II sett.).
-
Salmi «graduali». Sono
i Salmi che si cantavano durante la «salita» al tempio in occasione
del pellegrinaggio. Cantano la gioia, l’amore, la meraviglia di andare
e di stare presso il Tempio del Signore. I Salmi graduali o «canti
delle ascese» sono quindici e si susseguono dal Sal 120 al 134. Essi
descrivono il pellegrinaggio dal suo annuncio fino ai ringraziamenti al
momento del ritorno. La Liturgia delle Ore fa pregare questi Salmi nei
Vespri della terza settimana.
-
Salmi dell'«alleanza».
Sedici Salmi possono venire capiti solo nella prospettiva del
rinnovamento dell'Alleanza. L'alleanza è un elemento chiave nella
tradizione ebraica e lo sarà poi anche in quella cristiana dal momento
che Cristo con la sua morte e risurrezione ha stabilito l'alleanza nuova
ed eterna. Poiché Israele ha coscienza di esistere in forza
dell'alleanza, ogni anno, soprattutto nella festa delle capanne,
rinnovava il rituale dell'Alleanza. Le espressioni più ricorrenti sono:
l'adesione del popolo a Colui che è invocato come «Dio nostro»; le
benedizioni-maledizioni per la fedeltà o meno all'alleanza; le
condizioni per partecipare all'alleanza. Sulla scorta di Giosuè 8 e 24
si può prendere in esame il Salmo 114 (2 Vespri, dom. II sett.).
«Chi
recita i Salmi apre il suo cuore a quei sentimenti che i Salmi ispirano
secondo il loro “genere letterario”: di lamentazione, di fiducia, di
rendimento di grazie. Questi generi letterari giustamente sono tenuti in
grande considerazione dagli esegeti» IGLO I06).
La
numerazione dei Salmi.
Sarà
capitato qualche volta di dover rintracciare un Salmo nella Bibbia ed
accorgersi che il numero non corrisponde. Questo inconveniente è dovuto
al fatto che esiste una duplice numerazione dei Salmi:
-
la numerazione ebraica. E' la
numerazione che di solito si trova nelle nostre Bibbie e si rifà al
testo originale dei Salmi che è appunto in lingua ebraica. Questo testo
fu sistemato a partire dal 6° secolo avanti Cristo dai «Massoreti» («uomini
della tradizione»). Poiché l'ebraico, come l'arabo, veniva scritto
senza vocali, questi Massoreti vocalizzarono il testo ed è per questo
motivo che il testo ebraico è spesso chiamato «testo massoretico».
-
la numerazione greca e latina
(Volgata). A partire dal 3° secolo avanti Cristo, per rendere più
accessibile la Scrittura a quegli Ebrei che vivevano fuori della
Palestina, la si tradusse in greco dal momento che questa lingua era più
conosciuta che non l'ebraico. Questa traduzione greca dell'originale
Bibbia ebraica è chiamata dei «Settanta»
perché, secondo una leggenda, sarebbe stata tradotta da 70 uomini saggi
in 70 giorni.
A
sua volta, quando il greco non fu più la lingua comune del popolo, si
sentì la necessità di tradurre nella lingua corrente, il latino, il
testo sacro. Verso l'anno 384 d. C. il papa Damaso affidò a san
Girolamo quest'opera di traduzione e la Bibbia latina tradotta dal greco
fu chiamata «Vulgata»; questa è stata sempre la Bibbia «ufficiale» della
Chiesa e quindi adottata nella liturgia.
Sia
la traduzione greca che la sua derivazione latina seguirono però una
numerazione diversa da quella ebraica dei Massoreti. Dal Salmo 9 al
Salmo 147 la numerazione ebraica (usata nelle Bibbie) va avanti di un
numero rispetto al testo greco-latino (usato nella nostra liturgia).
Si
faccia quindi attenzione a questo scarto di numerazione.
La
poesia ebraica
Abbiamo
già detto che i Salmi non sono letture, né preghiere scritte in prosa,
ma «poemi di lode» composti per essere cantati. Questa loro originaria
caratteristica ci obbliga a tener conto dello stile poetico con cui
furono composti ed in particolare di quella tecnica chiamata «parallelismo»
che consiste nell’enunciare lo stesso concetto in due «stichi»
(versetti) consecutivi, equilibrati e simmetrici.
L'esempio
più interessante ci è dato dal Salmo 114 (113):
3
il mare vide e si ritrasse, il Giordano si volse indietro,
4
i montoni saltellarono come arieti, le colline come agnelli di un
gregge.
5
Che hai tu, mare, per fuggire, e tu, Giordano, perché torni indietro?
5
Perché voi monti saltellate come arieti e voi colline come agnelli di
un gregge?
Si
faccia dunque attenzione a questa tecnica poetica con cui furono
composti i Salmi poiché il «parallelismo», ben lungi dall'essere una
semplice ripetizione di una idea o di un'immagine, è piuttosto un
tentativo di approfondimento e di scavo per cogliere ogni dimensione ed
ogni valore di una determinata realtà.
Se
si vuole che i Salmi siano nostra autentica e intelligente preghiera
come lo furono per Cristo e lungo i secoli per la Chiesa, dobbiamo
procurarci quella «maggiore formazione biblica, specialmente riguardo
ai Salmi» (IGLO 102) che ci permetta di arrivare ad assimilare bene il
modo e il metodo migliore per pregarli come si conviene.
Per
aiutare ad entrare dentro questo mondo che di fatto è molto differente
alla nostra mentalità «occidentale» (mentre la mentalità dei Salmi
è «orientale» e semita), abbiamo iniziato col descriverne la veste
esterna: il nome, il genere letterario che ne ha ispirato la
composizione storica, la divisione, alcune caratteristiche (soprattutto
lo stile «poetico» del parallelismo ) .
Siamo
così pronti a recepire meglio il loro «valore spirituale» dettato dal
fatto che i Salmi sono essenzialmente «Preghiera di Cristo» e «Preghiera
della Chiesa» e proprio per questo anche «Preghiera nostra».
6
- SPIRITUALITÀ
DEI SALMI
Preghiera
di Cristo - Preghiera della Chiesa
La
conoscenza storica e letteraria del Salmi non è che un primo passo
verso quella loro piena utilizzazione che si ha unicamente con la
preghiera. Dobbiamo dunque ricercare nei Salmi quel profondo significato
teologico e spirituale come si addice ad un libro che, pur esprimendosi
con il linguaggio di uomini legati al loro tempo e alla loro cultura,
resta tuttavia un libro sacro, resta «Parola di Dio» scritta sotto
l'ispirazione dello Spirito Santo.
Questa
preghiera così sublime ha in un primo tempo alimentato la fede del
popolo di Israele; ha continuato a risuonare sulle labbra di Cristo e
degli Apostoli; è stata accolta con profonda convinzione dalle Chiese
di tutti i tempi; deve essere dunque anche nostra preghiera.
I
Salmi sono «Parola di Dio»
Le
eventuali difficoltà che possiamo incontrare nel pregare i Salmi non
devono farci dimenticare che questi canti venerandi sono stati scritti
sotto l'ispirazione dello Spirito Santo e quindi, come tutti i libri
della Bibbia, sono anch'essi «Parola di Dio». Costituiscono quel
meraviglioso dialogo tra Dio e il suo popolo dove Dio stesso prende
l'iniziativa ed offre alla sua creatura quelle parole necessarie a
lodare con purezza e con pienezza il proprio Signore. Il Salmista sa che
se Dio non prende questa iniziativa la sua bocca non può cantare le
lodi del Signore. Per questo prega: «Apri la mia bocca Signore e la mia
lingua canterà la tua lode» (Sal 51 17). Anche il Signore, che conosce
questa incapacità umana, apre lui stesso la bocca del Salmista e gliela
riempie della sua Parola: «( Apri la tua bocca ed io il Signore la
riempirò» (Sal 81,11).
Nei
Salmi sono numerosissime le espressioni con cui il Salmista pieno di
fiducia prega: «apro anelante la bocca... vienimi incontro ed abbi pietà
di me» (Sal 119,131).
Per
lui i Salmi sono più dolci del miele; sono il pane che il Signore fa
piovere dal cielo per nutrire coloro che sono incamminati verso la santa
montagna.
Nei
Salmi, dunque, più che in ogni altro libro della Scrittura, i Padri
ascoltavano il Canto dello Spirito Santo. «In
essi - dice s. Agostino - possiamo
intendere più la voce dello Spirito di Dio che la nostra perché non
potremmo dire quelle parole se egli non le avesse ispirate» (En.
in Ps. 26. 1).
I
Salmi: preghiera di Israele
I
Salmi sono nati in mezzo al popolo di Israele. Lo Spirito e il Verbo di
Dio, che erano all'opera nella storia sacra dell'Antica Alleanza, misero
sulla bocca di quelle generazioni quelle preghiere di lode a Dio e
quelle suppliche che dovevano preparare la pienezza della lode che
sarebbe apparsa sulle labbra del Salvatore con l'avvento dei tempi
messianici.
Ogni
pio Israelita, come ci testimonia il Salmo 55,1 8, ritmava la propria
giornata con i tre momenti principali della preghiera: «sera e mattino
e mezzodì voglio gemere e sospirare affinché oda la mia voce».
Soprattutto per la preghiera del sabato nella sinagoga o in occasione
della solenne liturgia del tempio, i Salmi costituivano l'ossatura della
preghiera giudaica. Così, tra preghiera pubblica e preghiera personale
avveniva quel fecondo scambio che permetteva di rivolgersi al Signore in
ogni tempo e in ogni occasione sempre imbevuti della Parola di Dio e mai
senza di essa. Una traccia di questa insostituibile base di preghiera
costituita dai Salmi la ritroveremo anche nel Nuovo Testamento sulle
labbra di Zaccaria, di Maria, di Simeone: il Benedictus o il Manificat
non sono altro che una sintesi personalizzata delle più belle
espressioni Salmiche che queste anime spirituali, imbevute di preghiera,
sapevano far sgorgare dall'abbondanza del proprio spirito orante.
I
Salmi sono dunque nati in mezzo ad un popolo che sapeva pregare sotto
l'ispirazione dello Spirito di Dio. Così, in occasione della
liberazione dall'Egitto, il canto di vittoria diventa un inno di
glorificazione per Colui che si è mostrato grande col suo popolo: «Mia
forza e mio canto è il Signore: è stato la mia salvezza... Io voglio
onorare... Io voglio esaltare» (Es 15 2). Oppure il cantico di Giuditta
dopo la liberazione di Betulia: «Inneggiate a Dio con i timpani,
cantate al Signore con cembali, componete per lui un Salmo di lode,
esaltate e invocate il suo nome! (Gdt 16 1).
Così,
mentre nel deserto marciavano verso la Terra promessa, o mentre si
recavano pellegrini alla città santa per lodare il Signore e portare
davanti a lui la loro lode e la loro supplica, la preghiera dei Salmi
era per essi luce e conforto.
E'
dunque con grande rispetto e venerazione che noi cristiani dobbiamo
accogliere queste antiche preghiere che esprimono un vivo senso di Dio e
una sapienza salutare per la vita dell'uomo. «Dio, il quale ha ispirato
i libri dell’ uno e dell’altro testamento e ne è l’autore, ha
sapientemente disposto che il Nuovo fosse nascosto nel Vecchio e il
Vecchio diventasse chiaro nel Nuovo» (Dei
Verbum 16 che cita s. Agostino).
I
Salmi: preghiera di Cristo
In
Palestina, al tempo di Gesù, ogni bambino che nasceva in una famiglia
timorata di Dio, apprendeva fin dall'infanzia a ritmare la propria vita
con le tre ore di preghiera quotidiane. Non c'è dunque motivo di
dubitare che anche nella santa Famiglia di Nazaret il bambino Gesù
abbia sùbito imparato ad iniziare la propria giornata unendosi alla
liturgia vespertina del tempio (si ricordi che il calendario ebraico,
come pure il nostro calendario liturgico, prevedono l'inizio del nuovo
giorno con il tramonto del sole). Prima di andare a dormire, avrà
certamente pregato col Salmo 4: «in pace, appena mi corico,
m’addormento poiché tu o Signore... in sicurezza mi fai riposare»
(v. 9). Al mattino, con tutta la famiglia riunita, recitava i Salmi di
lode (Sal 146-150) e le benedizioni prescritte.
Alla
scuola di Maria sua madre, che nel Magnicat ha dimostrato di conoscere
perfettamente il Salterio, Gesù ha ereditato quella sublime scuola di
preghiera che sono i Salmi.
A
12 anni, divenuto adulto, inaugurò la sua vita di membro dell'Alleanza
facendo il suo primo pellegrinaggio ufficiale al tempio (cf Lc 2,
41-42). Nella gioia della salita al tempio, cantò con tutti i
componenti della carovana i «Salmi graduali»: «Mi rallegrai quando mi
dissero: Andremo alla casa del Signore» (Sal 122,1).
A
Pasqua, come ci testimoniano Matteo 26,30 e Luca 14, 26, in occasione
della cena pasquale consumata con i suoi discepoli, recitò l'inno dei
prodigi di Dio per il suo popolo, il cosiddetto «Hallel» composto dai
Salmi 113-118.
L'uso
del Salterio da parte di Gesù ci viene però ampiamente riferito al
momento della sua passione, quando i racconti degli Evangelisti si fanno
più particolareggiati Così, nel Getsemani, è con le parole del Salmo
42, 6 che Gesù manifesta la propria fiducia nel Padre al momento
dell'estremo abbandono umano: «La mia anima è triste fino a morire...»
. E sulla croce, l'intenso e sofferto dialogo di Gesù con il Padre, è
ancora una volta espresso con le parole dei Salmi. Lo stesso grido
straziante del Crocifisso: «Dio mio Dio mio perché mi hai abbandonato»
(Mt 27,46), che altro è se non l'inizio del Salmo 22 che canta
appunto l'angoscia e la gioiosa esperienza del giusto che, perseguitato
dai nemici, trova in Dio la propria giustizia e salvezza? Solo gli
ignoranti delle Scritture hanno visto in questo grido del Crocifisso un
gesto di disperazione. E' al contrario un grido di preghiera; e quale
preghiera migliore di quella dei Salmi per esprimere al Padre sia il
dolore dell'ingiustizia, sia la certezza dell'imminente esaltazione?
L'Evangelista
Luca evita di riportare per i suoi lettori - ignoranti delle Scritture
come in parte lo siamo anche noi - queste parole «dure» di Gesù; non
rinuncia tuttavia a mettere sulla bocca di Gesù crocifisso alcune
espressioni di preghiera; lo fa con il Salmo 36, 6: «nelle tue mani
rimetto il mio spirito» ( cf Lc 23, 46 ).
Nella
vita di Gesù, pertanto, i Salmi sono la preghiera costante che risuona
sulla sua bocca da quando era fanciullo fino all’ultimo istante della
sua vita terrena. Proprio per questo motivo i Salmi sono da lui citati
più di ogni altro libro dell'Antico Testamento. Presentando se stesso
come «mite e umile di cuore (Mt
11, 29) usa espressioni del Salmo 34,19; oppure, quando ha voluto
svelare il dramma del tradimento dell'amico Giuda (cf Gv 13, 18), ha
fatto sue le parole del giusto sofferente e perseguitato: «Anche il mio
amico... quello che mangiava il mio stesso pane ha alzato il calcagno
contro di me (Sal 41,10).
La
lode di Dio è dunque risuonata nel cuore e sulle labbra di Cristo con
quelle espressioni di propiziazione, di adorazione, di intercessione,
che sono tipiche dei Salmi. Espressioni, però, che in Cristo, trovano
il loro significato più completo e la loro piena efficacia essendo Egli
il Figlio di Dio venuto per ristabilire nella sua pienezza il colloquio
tra Dio e l'uomo interrotto dal peccato umano. La sua voce è la sola
capace di oltrepassare l'abisso del silenzio prodotto dal peccato, di
farsi intendere dal Padre e di ottenere ciò che nei Salmi lo Spirito di
Dio domanda per noi. Senza la salvezza di Cristo, la preghiera dei Salmi
sarebbe inefficace: nessuno infatti può andare al Padre se non per
mezzo suo (cf Gv 14,6). I Salmi sono la preghiera di Cristo perché egli
è il Verbo di Dio rivelato nei Salmi, perché egli è il nuovo Adamo,
capo della nuova umanità, che in lui trova salvezza.
Per
capire meglio questo essenziale valore cristologico
dei Salmi, dopo aver mostrato come Gesù ha costantemente pregato con
queste espressioni ispirate, diciamo che: i Salmi parlano di Cristo,
Cristo parla nei Salmi.
I
Salmi parlano di Cristo
Gesù
stesso ha indicato questa lettura «cristologica» dei Salmi quando ha
detto: «Voi scrutate le Scritture... ebbene sono proprio esse che mi
rendono testimonianza» (Gv 5,39). Inoltre «tutto deve compiersi di me
come è stato scritto su di me nella legge di Mosè nei profeti e nei
Salmi (Lc 24,44).
Così,
quando in una disputa con i Giudei a Gerusalemme Gesù vuol presentare
se stesso come il vero Messia davidico atteso da tutto il popolo, citerà
il Salmo 110, considerato Salmo messianico dagli stessi Giudei (cf Mt
22,41-44). E' dunque sulla testimonianza di un Salmo che Gesù, in
questa occasione, afferma implicitamente la sua figliolanza divina.
Su
questo modo di interpretare in chiave cristologica i Salmi avviato dallo
stesso Gesù, si mossero più tardi le comunità cristiane e gli stessi
Evangeli. Giovanni, ad esempio, volendo indicare l'autorità con cui Gesù
aveva purificato il tempio cacciando gli estranei alla preghiera, cita
il Salmo 69, 10: «lo zelo per la tua casa mi divora» (Gv 2,17). Lo
stesso Salmo è citato anche da Gesù per indicare l'odio dei Giudei
verso di lui e verso il Padre: ..«Questo perché si adempisse la parola
scritta nella loro Legge: Mi hanno odiato senza ragione» (Gv 15, 25 che
cita il Sal 69,5). Ricorreranno a questo Salmo, v. 10, anche s. Paolo in
Rom 15,3 e s. Pietro che riferisce a Giuda traditore il v. 26: «Sta
scritto nel libro dei Salmi: “La sua dimora diventi deserta e nessuno
vi abiti e il suo incarico lo prenda un altro”» (At 1,20).
Sono
ancora i Salmi ad essere citati nei racconti della Passione quando si
vuol dimostrare che lo «scandalo della croce» non avviene a caso, ma
tutto era stato predetto dalle Scritture:
-
Salmo 69,22: gli diedero da bere vino mescolato con fiele;
-
Salmo 22,19: si spartirono le sue vesti tirandole a sorte;
-
Salmo 22,9: ha confidato in Dio; lo liberi lui, ora, se gli vuol bene
(Mt 27,43);
-
Salmo 34,21: non gli sarà spezzato alcun osso (Gv 19,36);
-
Salmo 22,16: «Ho sete» (Gv 19, 28).
Lo
stesso dicasi per i racconti della risurrezione:
-
Salmo 16,8-11: Dice Davide a suo riguardo... «né permetterai che il
tuo Santo veda la corruzione» (At 2, 25.27);
-
Salmo 110,1: Disse il Signore al mio Signore: siedi alla mia destra (At
2,34);
-
Salmo 118,22: la pietra scartata dai costruttori è diventata testata
d'angolo (At 4, 11).
E'
dunque evidente l'uso cristiano che la comunità primitiva ha fatto dei
Salmi: di Cristo essi parlano, annunciando e proclamando i misteri della
sua vita. Scrive in proposito s. Ilario: «tutto ciò che è scritto nei
Salmi è una rivelazione dell’avvento di Cristo della sua incarnazione
passione risurrezione, del suo regno e della nostra risurrezione». «Nei Salmi - afferma s. Ambrogio - non solo nasce a noi Gesù ma soffre, muore, risorge, ascende al cielo e
siede alla destra del Padre».
Che
i Salmi parlino di Cristo è tanto vero che, se per assurdo non avessimo
i Vangeli, con gli stessi Salmi si potrebbero annunciare gli avvenimenti
essenziali della vita di Gesù.
Cristo
parla nei Salmi
Per
cogliere la profonda spiritualità del Salterio dobbiamo riconoscere nei
Salmi non solo un messaggio «su» Gesù, ma il messaggio stesso «di»
Gesù che attraverso queste parole ispirate si rivolge al Padre e parla
anche a noi.
Abbiamo
già citato il Salmo 42,6 pregato da Gesù nel Getsemani per rivolgere
al Padre la propria tristezza e la propria angoscia (Mt 26,38), oppure
il Salmo 22,2 con cui Gesù prega sulla croce esprimendo cosi, allo
stesso tempo, il suo dolore per essere ingiustamente condannato dal
peccato degli uomini e la sua certezza che il Padre gli darà in eredità
le genti a motivo di questa sua fedeltà fino alla morte (cf Mt 27,46).
Quando,
dopo la risurrezione, si trattò di riempire il vuoto lasciato da Giuda
il traditore, fu proprio nel Salmo 69, 26 che Pietro trovò la soluzione
per ristabilire il collegio dei Dodici con l'elezione di Mattia. Nel
Salmo era la voce di Cristo che parlava alla sua Chiesa!
Oppure,
quando nella persecuzione vedono l'agitarsi dei nemici contro la comunità
cristiana, si rilegge il Salmo 2, 1-2 ritrovando in esso la voce del
Signore che sostiene i suoi servi per poter annunciare con tutta
franchezza la Parola (cf At 4 24-30).
Pertanto,
se vogliamo cogliere l'autentica spiritualità dei Salmi, dobbiamo
pregarli riconoscendo in essi «la preghiera che Cristo con il suo Corpo
(la Chiesa) rivolge al Padre» (SC 84). E con s. Agostino possiamo dire:
«è lui stesso unico salvatore
del suo Corpo che prega per noi prega in noi ed è pregato da noi...
riconosciamo dunque in lui le nostre voci e le sue voci in noi».
I
Salmi: preghiera della Chiesa.
Nonostante
la rottura-separazione delle prime comunità cristiane dalle tradizioni
giudaiche (si pensi alla rinuncia del Tempio, della circoncisione, delle
stesse preghiere così care agli Ebrei come lo «Shemà Israel» che si
ripeteva tre volte al giorno), i Salmi furono mantenuti senza alcun
indugio dalla Chiesa ed accolti come suo privilegiato libro di
preghiera. E questo non solo presso le comunità giudaiche che già
conoscevano questo libro della Scrittura, ma anche presso altri popoli e
razze come i Greci o i Romani che erano, tra l'altro, di una cultura e
una mentalità molto distanti dal linguaggio semitico orientale dei
Salmi.
Presso
le Chiese d'Oriente e d'Occidente, il Salterio divenne il libro più
letto, più proclamato, cantato e pregato, accanto ai Vangeli. Come
dall'antico Israele era sorto il Messia con i suoi misteri, Cristo
Signore, così ora la Chiesa accoglieva insieme a Cristo anche questi
bellissimi canti che proprio in vista di Lui lo Spirito Santo aveva
posto sulla bocca di coloro che con fede e speranza attendevano la
pienezza dei tempi.
Non
è dunque difficile comprendere come solo nella Chiesa che è il Corpo
di Cristo e il nuovo Israele di Dio, i Salmi rivelano il loro
significato più profondo. Il medesimo Spirito che aveva ispirato i
cantori della fede di Israele nell’attesa del Messia che doveva
venire, ispirava ora coloro che in quegli stessi canti riconoscevano la
piena e chiara voce del Verbo di Dio fatto uomo.
I
Salmi, preghiera di Cristo, devono dunque essere a pieno titolo anche
preghiera della Chiesa. Riassumendo la comune convinzione dei Padri, s.
Agostino esclama: «Nei Salmi parla la Chiesa in Cristo e parla il
Cristo nella Chiesa; il capo nel corpo e il corpo nel capo»
(Enarr. 2 in Ps. 30 4).
«Poiché
- dice ancora s. Agostino - il
Cristo e la Chiesa sono due in una sola carne, sono anche due in una
sola voce» (Enarr.
in Ps. 37,6). Proprio in forza di questa loro pienezza e ricchezza
di contenuti derivante dall'incessante azione ispiratrice dello Spirito,
i Salmi possono avere varie e sempre nuove possibilità di lettura:
-
ora è il Cristo che prega il Padre o come Sposo parla alla Chiesa
Sposa;
-
ora è la Chiesa Sposa che parla al suo Sposo e Signore;
-
ora il Cristo Capo e la Chiesa Corpo, in quanto «Cristo totale»,
fondono insieme la loro voce pregando il Padre.
Come
ben si esprime s. Paolo, il velo che copriva l'Antico Testamento è
stato rimosso da Cristo e noi che, a viso scoperto, rispecchiamo la
gloria del Signore, possiamo scorgere la realtà soprannaturale che
dietro a quell'antica storia si nascondeva ( cf 2 Cor 3, 14.18).
Se
i Salmi sono stati l'espressione privilegiata del colloquio di Israele
con Dio, quanto più ora, sulle labbra della Chiesa, questi canti
esprimeranno la grandezza e l'amore di Dio manifestatisi in Cristo. Non
più le a ombre dell'antica alleanza, ma la piena luce della verità
rivelata da Cristo stanno ora a significare questi canti e a proclamare
il nuovo esodo, suo e nostro, verso la terra promessa e la nuova ed
eterna alleanza stipulata nel suo sangue.
La
Chiesa, pertanto, recita i Salmi mentre va pellegrinando da questo mondo
al Padre. Si riproducono per lei i misteri dell'esodo, del ritorno
dall'esilio, del pellegrinaggio verso la santa città della celeste
Gerusalemme.
Come
per l'antico popolo dell'alleanza i Salmi erano conforto e speranza
dell'avvento del Regno messianico, così anche per la Chiesa, che già
possiede la caparra dello Spirito, i Salmi sono la preghiera che tiene
desta la speranza e la nostalgia del compimento supremo delle promesse
di Dio con la certezza della vittoria finale.
Nella
Chiesa i Salmi trovano anche quella più piena espressione liturgica che
certamente non avevano nel culto sinagogale o nel tempio di Gerusalemme.
Nella celebrazione liturgica della Chiesa, che fa ampio uso dei Salmi,
ciò che essi annunciano si compie, e ciò che per mezzo di essi
domandiamo a Dio ci viene elargito in Cristo.
I
Salmi: nostra preghiera.
In
quanto «preghiera di Cristo»o e «preghiera della Chiesa», i Salmi
devono essere anche per ciascuno di noi, proprio perché membra di
questo Corpo mistico, l'espressione migliore per la nostra preghiera e
per la nostra santificazione (cf IGLO 14). Con Cristo ed in Cristo, «guidati
dallo Spirito di Dio» (Rm 8, 14), diventiamo figli: abbiamo quindi
parte alla sua comunione col Padre, possiamo entrare nel suo stesso
dialogo.
In
un testo celebre e stupendo s. Agostino spiega il misterioso rapporto
orante tra noi e Cristo nella preghiera dei Salmi:
«Noi
dunque preghiamo a Lui per Lui ed in Lui; diciamo con Lui e Lui dice in
noi; noi diciamo in Lui e Lui dice in noi l’orazione di questo
Salmo... Nessuno dunque quando sente queste parole dica: non è Cristo
che le dice; o dica invece: non sono io che le dico; ché anzi se si
riconosce parte del Corpo di Cristo deve dire l’una e l’altra cosa:
Cristo le dice e io le dico. Non dir nulla senza di Lui ed Egli non dice
nulla senza di te» (Enarr. in Ps. 85, 1).
Perché
Cristo possa far sua la nostra preghiera e presentarla al Padre si
richiede che questa preghiera esista effettivamente in noi. Occorre
dunque entrare nello spirito dei Salmi e pregarli con quella
intelligenza e convinzione come se fossero nostra preghiera. Per noi i
Salmi non devono essere pezzi da museo o preghiere d'altri tempi; essi
sono opera dello Spirito del Dio vivente. S. Cassiano, già nel IV
secolo suggeriva ai suoi monaci di pregare i Salmi «non
come se fosse stato il profeta a comporli ma come se io stesso ne fossi
l'autore». Mediante quelle parole, lo stesso Spirito che le ha
ispirate ora suscita, orienta, dirige la nostra preghiera perché
diventi preghiera del Signore risorto e preghiera della Chiesa sua
Sposa.
Tutto
questo sarà possibile a patto che i Salmi siano effettivamente anche «nostra
preghiera». Cristo e la Chiesa non possono fare sua una preghiera se
questa preghiera non è in noi!
S.
Atanasio invitava a saper riconoscere nei Salmi non solo la vita di
Cristo, ma anche la nostra stessa vita: i nostri sentimenti, la gioia
delle nostre anime, la tristezza, la speranza, il timore...
«Ogni
Salmo fu dettato e composto in tal modo dallo Spirito Santo che in esso
sono raccolti tutti i moti dell’animo nostro come se fossero da noi
proferiti e come se realmente fossero nostri» .
Per
la preghiera dei Salmi dovrebbe avvenire qualcosa di simile a quello che
accade nella Messa quando le nostre offerte vengono trasformate in Corpo
e Sangue di Cristo dall'azione santificante dello Spirito. Attraverso le
parole dei Salmi, noi possiamo offrire a Dio i nostri dolori, i nostri
desideri, le nostre speranze, i nostri timori, immergendoli nelle
sofferenze e nelle speranze di Cristo che è l'orante principale dei
Salmi. Avviene così una misteriosa «transustanziazione»: noi abbiamo
messo nelle sue mani tutto quello che abbiamo, la nostra miseria... Egli
che è il tutto e tutto possiede, ha voluto renderci partecipi della sua
natura divina: per noi si è fatto povero, pur essendo ricco, per
arricchire noi con la sua povertà (cf 2Cor 8 9).
Nelle
sue mani la nostra miseria diviene ricchezza senza fine; nelle sue
sofferenze le nostre sconfitte si mutano in vittorie e la morte di lui
diventa la nostra vita che durerà in eterno.
La
preghiera dei Salmi dovrebbe essere per noi come un grande «offertorio»
nella solenne liturgia del «sacrificio della lode»: presentiamo
sull'altare di questo meraviglioso sacrificio spirituale tutta la varietà
dei sentimenti che i Salmi suggeriscono al nostro spirito e chiediamo a
Cristo di accettare questi doni, di consacrarli con la sua opera
redentrice, di offrirli al Padre a nome nostro, sue membra sacerdotali.
Parafrasando
un'espressione di s. Paolo, pregando i Salmi potremmo dire: «Prego io
ma non sono io che prego è Cristo che prega in me» (cf Gal 2, 20).
Oppure, come diceva Rodolfo di Tungres «Quando
mediti i Salmi Cristo è nella tua mente; quando li canti Cristo è
nella tua bocca».
«Chi
recita i Salmi nella Liturgia delle Ore li recita non tanto a nome
proprio quanto a nome di tutto il Corpo di Cristo anzi nella persona di
Cristo stesso» (IGLO 108).
«Seguendo
questa via i santi Padri accolsero e spiegarono tutto il salterio come
profezia di Cristo e sulla Chiesa; e con lo stesso criterio i Salmi sono
stati scelti nella sacra liturgia. Sebbene talvolta si proponessero
alcune interpretazioni alquanto complicate, tuttavia generalmente sia i
Padri che la Liturgia con ragione vedevano nei Salmi Cristo che si
rivolge al Padre o il Padre che parla al Figlio; anzi riconoscevano la
voce della Chiesa, degli apostoli e dei martiri» (IGLO 109).
7
- I GRANDI TEMI DEL
SALTERIO
Dio -
L’uomo - La creazione - La legge.
Per
pregare convenientemente i Salmi e far sì che essi diventino, oltre che
preghiera di Cristo e preghiera della Chiesa, anche nostra preghiera,
dobbiamo conoscerne il linguaggio ed i contenuti. Abbiamo già detto che
questi bellissimi canti non sono stati composti a tavolino da qualche
geniale poeta, ma sono sorti in un vasto arco di secoli in mezzo ad un
popolo credente dove lo Spirito di Dio ha ispirato uomini spirituali
capaci di interpretare tutta la ricchezza dei rapporti che intercorrono
tra Dio e il suo popolo. Tuttavia, in mezzo a questa diversità di
epoche, di culture, di Autori, il Salterio contiene una «unità di temi»
che formano la struttura portante di questo libro di preghiera.
Scorrendo
il Salterio cercheremo di individuare questi «leitmotiv» o «grandi temi» in modo da renderci più familiare il
linguaggio dei Salmi e contribuire così ad immedesimarci sempre meglio
in questa che deve essere «nostra preghiera».
Dio.
I
Salmi sono sgorgati da un cuore che crede e ama Dio. Al centro del
Salterio sta dunque Dio: i Salmi sono «teocentrici». Pregando i Salmi
si farà attenzione a tutta una varietà di sentimenti che legano l'uomo
al suo Dio. Non un Dio idealizzato o intellettuale, ma un Dio vivente,
concreto, presente, con cui si può entrare in dialogo o addirittura in
contesa. I Salmi sono il frutto di questa «esperienza», di Dio che, di
volta in volta, se ne percepisce la fedeltà, la lontananza, il
silenzio, la presenza, l'attesa: si desidera vederne il volto!
La
fedeltà.
Il
Dio dei Salmi è il Dio dell'alleanza che si lega al suo popolo con un
rapporto di amore-fedeltà-misericordia. Uno dei titoli che più
frequentemente viene dato a Dio è «il fedele», colui che mantiene le
promesse dell'alleanza per mille generazioni (Sal 40,10; 54,5;
89,1-1-5.8.33); anche quando il popolo diventa infedele alle promesse
fatte, rimane sempre la certezza che Dio non tradisce, non abbandona,
non rinnega le promesse (Sal 98,3; 146,6). Pregando i Salmi si faccia
dunque attenzione a questo linguaggio di alleanza-fedeltà che si
esplicita nelle forme più semplici di «Dio nostro» «popolo mio».
Verso il suo popolo il Dio-fedele ha sentimenti materni, ha viscere di
misericordia, ed anche se umanamente può capitare che una madre
abbandoni il proprio figlio, il Dio-fedele non abbandona né si
dimentica di questo «primogenito» faticosamente generato al tempo
dell'esodo (cf Es 4,22-23; Is 49, 1-15).
Si
trovano allora nei Salmi immagini ardite per cantare questa fedeltà: «Signore,
la tua fedeltà giunge alle stelle» (Sal 36,6); «Ti loderò tra i
popoli, Signore, a te canterò inni tra le genti, perché la tua bontà
è grande fino ai cieli e la tua fedeltà fino alle nubi» (Sal
57,1-11).
La
lontananza.
Per
colui che crede e ama, Dio non è mai trovato-amato abbastanza; Egli è
la fonte di cui si ha sete, è la persona che non si può afferrare
totalmente, proprio perché non è un «oggetto ma il «totalmente altro».
I
Salmi si fanno voce di questo desiderio di vedere-cercare Dio e di
sperimentare a volte la sua lontananza. Soprattutto nel momento del
dolore e della prova, l'uomo povero e sofferente piange nel suo letto e
pensa a Dio chiedendosi: ma Dio dov'è? La preghiera del Salmista si fa
grido di invocazione e supplica: «Perché, o Dio, ti nascondi durante
le mie sofferenze?» (Sal 10, 22); «Fino a quando Signore continuerai a
dimenticarmi? Fino a quando mi nasconderai il tuo volto?» (Sal 13, 2 ).
E'
il linguaggio semplice e confidente dei Salmi che fa oggetto del
colloquio con Dio persino la paura della sua lontananza.
Il
silenzio.
Alla
lontananza, a volte si aggiunge anche il silenzio e l'uomo resta solo
nel suo dubbio (Sal 44,23). La fede del salmista, però, è più forte
del silenzio e sa che Dio è pastore e custode del suo popolo: non
sonnecchia e non dorme il custode d'Israele, ma come un mantello copre e
protegge la vita di chi a lui si affida (Sal 121,4).
Il
Salmista sperimenta anche quella forma più terribile di silenzio che è
il dubbio e la tentazione nella fede: «Dov'è il tuo Dio?» (Sal
42,11). Subito però si riprende e dice: «Spera in Dio... salvezza del
mio volto e mio Dio " (v. 12).
Colui
che momentaneamente tace è Colui che «ti coprirà con le sue penne,
sotto le sue ali troverai rifugio» (Sal 91,4). Del resto, Gesù stesso
farà suo il gesto materno della gallina che raccoglie i pulcini sotto
le ali al sopraggiungere della tempesta (Mt 23, 37). I Salmi diventano
per noi sublime scuola di fiducia in Dio, di confidenza grande nella sua
protezione, anche nei momenti della prova in cui sembra essere lontano e
silenzioso.
La
presenza.
Il
Salterio ci dà un'immagine di Dio come una «presenza» nella quale ci
muoviamo, viviamo, gioiamo. Dio è davanti e dietro di noi, nell'alto
dei cieli e nelle profondità della terra: Egli è dappertutto e a Lui
non si può sfuggire (Sal 139). La presenza di Dio è, per il Salmista,
così profonda in noi che Egli già conosce le nostre parole prima
ancora che noi le pronunciamo (Sal 139,4); Egli scruta tutta la nostra
vita e conosce anche le nostre più recondite intenzioni. Più che una
presenza timorosa, però, la vicinanza di Dio è, per il Salmista, una
garanzia di guida e di sostegno. Se Dio è più intimo a noi di noi
stessi (cf GS 22), per l'uomo di fede ne deriva un intimo rapporto di
comunione, di alleanza. di collaborazione.
Il
volto di Dio.
L'esperienza
della divina presenza di Dio nella vita del credente suscita il profondo
desiderio di «vedere il suo volto» (Sal 4,6; 31,16; 67,1; 119,135). Se
si pensa alle parole dette dal Signore a Mosè («non potrai vedere il
mio volto, perché nessun uomo può vedermi e restare vivo... vedrai le
mie spalle, ma il mio volto non lo si può vedere»: Es 33,20.23), si può
anche immaginare con quanto ardire il Salmista ha osato chiedere: «il
tuo volto, Signore, io cerco. Non nascondermi il tuo volto» (Sal 27,
8-9).
Per
noi cristiani, che nel volto di Cristo possiamo vedere il volto del
Padre (2 Cor 4, 6), queste espressioni dei Salmi stanno a ricordarci che
anche in noi deve esserci il desiderio di raggiungere la Patria beata
per poter vedere finalmente Dio così come Egli è (1 Gv 3, 2). Ci
insegnano anche ad avere l'atteggiamento del servo fedele che attende il
proprio signore o quello della sentinella che, vigilante, attende il
mattino (Sal 130,6). I Salmi ci insegnano a fare della nostra vita un
tempo di attesa nell'umiltà e nella semplicità di ogni giorno: «Io
sono tranquillo e sereno come un bimbo svezzato in braccio a sua madre,
come un bimbo svezzato è l'anima mia» (Sal 131, 2).
Un
Dio unico, un Dio geloso.
In
mezzo a popoli politeisti e idolatri, Israele ha sempre difeso l'unicità
di Dio: «grande tu sei e compi meraviglie; tu solo sei Dio» (Sal
86,10). Dunque solo da Dio può venire la salvezza e quindi solo a lui
spetta l'adorazione e la lode. I Salmi richiamano con frequenza questa
assoluta necessità e per esprimerla adeguatamente ricorrono al tema
della «gelosia» (Es 20,45) o dello a zelo (Sal 78,58; 79,5). Gesù
stesso quando purificò il tempio dai venditori e dai cambiavalute
applicò a se stesso le espressioni del Salmo 69,9-10: «Lo zelo per la
tua casa mi divora» (Gv 2,17). Quale richiamo, anche per noi, contro
facili tentazioni idolatriche che ci impediscono di avere Dio come unico
amore o di introdurre nel tempio della nostra vita, purificata con il
Battesimo, inutili mercanzie, affetti, attenzioni... che non si addicono
alla santità che ci ha comunicato il Santo (1 Pt 1,14-16).
Con
queste ed altre immagini il Salmista descrive la sua profonda fede in
Dio. Con la rivelazione del volto del Padre compiuta da Cristo queste
immagini non hanno perduto la loro efficacia; restano valide anche sulla
nostra bocca per indicarci con quanto amore e quanta fiducia dobbiamo
anche noi «accostarci a Dio con cuore sincero nella pienezza della
fede, con i cuori purificati da ogni cattiva coscienza e il corpo lavato
con acqua pura» (Eb 10, 22).
L'uomo.
La
visione «geocentrica» del Salterio non impedisce al Salmista di avere
sufficiente attenzione anche all'uomo. L'uomo, anzi, è l'altro termine
di paragone, indispensabile per quel dialogo di amore e di alleanza che
caratterizza Dio e la sua creatura.
La
grandezza dell'uomo sta nel fatto di essere stato creato ad immagine e
somiglianza di Dio. Come leggiamo nel Salmo 8,4-5, Dio ha reso l'uomo di
poco inferiore a se stesso e l'ha collocato al di sopra di ogni
creatura. Nell'uomo, Dio ha raccolto e sintetizzato la gloria e lo
splendore dell'universo; per mezzo della sua intelligenza, l'uomo
diviene il collaboratore di Dio nella gestione del creato. Per mezzo
dell'uomo, infine, tutto il creato può parlare al suo creatore: l'uomo
è l'interprete e il sacerdote dell'universo presso Dio.
Più
spesso ancora che la grandezza, però, i Salmi mettono in rilievo la
limitatezza dell'uomo: colui che «è fatto e plasmato da Dio» (Sal
119) è anche colui che «ritorna alla terra» (Sal 146) e non può
sfuggire né alle sofferenze della vita né tantomeno alla morte. I
Salmi descrivono con attenzione i momenti di debolezza dell'uomo: la
malattia, la solitudine, la persecuzione, il tradimento, la calunnia...
Mai però con un intento psicologico, ma unicamente per mettere in
rilievo la fiducia e l'abbandono del «povero» in Colui che solo può
aiutarlo e fargli giustizia.
Quando
preghiamo i Salmi, pertanto, dobbiamo fare attenzione che quell'uomo
concreto di cui si parla siamo anche noi, con tutta la nostra grandezza
derivante dalla dignità filiale che il Padre ci ha concesso mediante il
dono dello Spirito (Rm 8,14-17), e con tutta la nostra debolezza
derivante dalla solidarietà con il primo Adamo. Impariamo dunque dal
Salmista a «gettare sul Signore il nostro affanno ed egli ci darà
sostegno» (Sal 55,23). Questi, del resto, furono anche i sentimenti di
Cristo durante la sua passione, e questi stessi sentimenti egli li
insegnò alla nostra umanità peccatrice e sofferente per liberarla dai
suoi travagli, dal male del peccato, conseguenza dell'orgoglio e
dell'allontanamento da Dio.
L'uomo
di cui si parla nei Salmi, però non è un uomo generico o un uomo che
vive fuori della storia: è invece un uomo «giusto» o un uomo «empio»:
tutto dipende dalla via che decide di scegliere (cf Sal 1: le due vie).
L'uomo
giusto.
E'
il credente, l'oppresso, il povero, il fedele, il cercatore di Dio, lo
zelante, l'alleato, l'ospite di Dio. Il suo volto è pieno di luce, sta
lontano dal male, fa il bene, cerca la pace, rivolge al Signore le
proprie suppliche, ripone in lui completa fiducia ( Sal 34 ).
L'uomo
giusto dei Salmi è colui che non ripone la propria fiducia negli idoli
d'argento o d'oro; sua unica eredità invece, è il Signore (Sal 16,5:
Il Signore è mia parte di eredità e mio calice) .
Giusto
è colui che rinuncia a farsi giustizia da solo, che non viene meno
nella fede neppure dinanzi ai prolungati silenzi di Dio, che si sforza
di camminare nella perfezione.
Giusto
è colui che è convinto che Dio è preferibile al mondo intero e che la
suprema felicità consiste nel vivere con lui, in attesa del grande
momento in cui si apriranno i nostri occhi, dopo l'esistenza terrena,
per saziarci nella contemplazione del suo volto (cf Sal 17,15).
L'uomo
malvagio.
E'
il nemico, il mentitore, lo stolto, il violento, l'operatore di
ingiustizie, l'orgoglioso, l'oppressore, il peccatore, il bestemmiatore,
la lingua perfida, il bugiardo...
Egli
sa che Dio esiste, ma vive come se non esistesse. Di lui, proprio il
primo Salmo dice: «come pula che il vento disperde non reggeranno gli
empi nel giudizio, né i peccatori nell'assemblea dei giusti (Sal 1,45).
Tutta
la sua forza poggia nella negazione di Dio: Dio non c'è (Sal 53,1).
Astuto, perseguita i deboli e nella sua avarizia cerca di fare soldi con
tutti i mezzi, approfittando del povero e del debole. Disprezzo di Dio e
violenza contro il prossimo sono il suo comportamento. Dalla descrizione
particolareggiata dell'uomo malvagio che troviamo, ad esempio, nel Sal
10, appare che un tale comportamento costituisce una forte tentazione
per i giusti: mentre infatti questi si vedono continuamente perseguitati
e sopraffatti, costatano invece che «le imprese dell'empio riescono
sempre!» (Sal 10,26).
Quante
volte anche a noi sarà successo di ragionare, pieni di sfiducia, come
questo Salmista: ai furbi sembra che tutto vada liscio, e a me che cerco
di fare il mio dovere sembra che tutto vada a rovescio!
Già
il Salmista, però, pieno di fiducia in Dio, risponde: «A te si
abbandona il misero... Tu accogli il suo desiderio, rafforzi il suo
cuore, porgi l'orecchio per far giustizia all'orfano e all'oppresso»
(Sal 10,35-39).
Pregando
i Salmi troveremo in continuazione questa duplice categoria di uomini
concreti. Troveremo soprattutto il lamento del povero che grida
giustizia al Signore contro le sopraffazioni dei malvagi. In questi
Salmi dovremo riconoscere la preghiera di Cristo al Padre che chiede di
essere liberato dal calice dell'amarezza (Mt 26,39). Molte volte capiterà
che questo stesso Salmo si addica anche alla nostra concreta situazione.
Quale sollievo, allora, poter ripetere con il Salmista: «Gioiscano
quanti in te si rifugiano, esultino senza fine. Tu li proteggi e in te
si allieteranno quanti amano il tuo nome. Signore, tu benedici il
giusto: come scudo lo copre la tua benevolenza» (Sal 5,12-13)
La
creazione.
Nei
Salmi la creazione è molto più che un semplice scenario che fa da
sfondo all'agire di Dio e dell'uomo nella storia di un popolo. La
creazione è «personalizzata» e diventa, in quanto creatura di Dio, un
interlocutore nel dialogo di salvezza tra Dio e il suo popolo. Prendiamo
ad esempio il Sal 8: è l'esaltazione della grandezza di Dio che si
manifesta nell'opera della creazione. Nel silenzio notturno il Salmista
contempla le meraviglie del cielo stellato e davanti a tanta
magnificenza si domanda con stupore come abbia potuto Iddio ricordarsi
di lui e dimostrargli tanta bontà; ed esclama: «O Signore, nostro Dio,
quanto è grande il tuo nome su tutta la terra». In questo senso la
creazione è uno specchio della grandezza e bontà del Signore. Anche se
il peccato ha offuscato la trasparenza di questo specchio, i Salmi
cercano di recuperare la giusta lettura delle cose create alla luce di
Dio. Parlando a tutto l'uomo, ai suoi occhi, alle sue orecchie, a tutta
la sensibilità del credente, i Salmi ci aiutano a ritrovare il senso
sacro dell'universo presentandocelo in quel contesto di bellezza e di
bontà con cui Dio lo aveva creato. Dinanzi a questo squarcio di
paradiso, il Salmista si sente spontaneamente ricondotto a Dio salendo a
lui per questa scala che serve di comunicazione tra il Creatore e le sue
creature.
Altre
volte, nei Salmi, le creature stesse prendono voce per dare lode al
Creatore. E' il caso del Sal 104, l’inno a Dio creatore, dove la
creazione non è più «strumento» per l'uomo per cantare la grandezza
di Dio, ma «soggetto» che per il fatto di esistere già da sé è lode
della sapienza del Creatore. La creazione quindi non è muta, ma canta
anch'essa le lodi di Dio nel modo che le è proprio.
Dovremmo
anche noi imparare dai Salmi questa semplice pedagogia della preghiera e
dinanzi alla bellezza delle realtà create (s. Francesco le chiamava «sorella»
acqua, terra, stelle...) saper riconoscere l'epifanìa della grandezza e
misericordia di Dio che fa sorgere tutte queste cose belle sui giusti e
sugli ingiusti (Mt 5, 45). Come nella celebrazione della Messa il pane e
il vino diventano «Eucaristia», sacrificio dell'azione di grazie per
la meravigliosa opera della Redenzione compiuta per noi da Cristo, così
nella celebrazione dei Salmi tutte le realtà della creazione dovrebbero
diventare, sulla nostra bocca una «eucaristia», una
lode-glorificazione a Dio per la bontà e sapienza che ha riversato su
di noi mediante queste sue creature. In questo senso possiamo esercitare
quel meraviglioso dono del «sacerdozio battesimale» che fa di noi i «sacerdoti
del creato», come dice la IV Preghiera eucaristica: «fatti
voce di ogni creatura, esultanti cantiamo...».
La
legge.
Un
altro tema che percorre tutto il Salterio è la Legge. Per pregare bene
i Salmi dobbiamo capire il significato e il ruolo che aveva la «legge»
presso gli Ebrei.
Essa
è la rivelazione della volontà di Dio nei confronti del suo popolo, e
per Israele il mezzo per sapere ciò che il suo Dio attende da lui. La
legge è dunque legata all'alleanza, e per Israele sarà sempre un vanto
avere la legge perché essa sta a significare il particolare amore che
Dio ha avuto verso Israele e non verso gli altri popoli. La legge è
dunque il segno dell'alleanza: Dio l'ha data unicamente al suo popolo
eletto che deve ormai dimostrare la sua fedeltà con l'obbedienza a
questa legge. In essa si vede non tanto l'imposizione tirannica di un
sovrano, ma piuttosto la manifestazione di una grazia misericordiosa di
Dio verso il suo popolo, una prova del suo amore e della sua benedizione
(cf Dt 7,6-15).
Nel
Salmo 119, il più lungo di tutto il Salterio (22 strofe, 176 versetti:
è il primo Salmo dell'Ora Media nelle 4 settimane), è concentrato il
pensiero di Israele sulla Legge. Sembra essere sorto dopo la triste
esperienza dell'esilio (VI sec. a.C. ) in un momento in cui la Legge del
Signore restava l'unica espressione dell'alleanza di Dio con Israele,
l'unica difesa e baluardo contro i nemici esterni e contro le tentazioni
interiori di sfiducia e di amaro scoraggiamento. Scomparsa l'arca
dell'alleanza, la pietà di Israele si concentrò sulla Legge; e come
l'arca era gelosamente custodita nel Tempio di Gerusalemme, così il
libro della Legge era custodito nelle Sinagoghe: ogni sabato si leggeva
alla presenza della comunità riunita ed era così grande il rispetto
verso questo libro che si evitava di toccarlo con le dita durante la
lettura.
In
questo Salmo 119 troviamo dunque espresso il continuo e interiore frutto
della contemplazione della Legge di Dio. Il pio salmista riversa qui la
sua meravigliosa e ineffabile esperienza spirituale esaltando la legge
del Signore e dichiarando il suo attaccamento e il suo amore ad essa. La
si chiama: verità, via, luce, saggezza, bontà, amore e grazia,
misericordia; è dolce più del miele, dona pace grande, dona
consolazione e gioia, dona salvezza, saggezza, intelligenza; essa è la
vita.
Noi
sappiamo che Gesù stesso trattò con rispetto questa Legge quando
disse: «Non pensate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti;
non sono venuto per abolire, ma per dare compimento» (Mt 5,17). Quando
dunque nei Salmi troviamo espresso l'amore verso la Legge possiamo
benissimo far nostre quelle espressioni ricordando che la nostra legge
è Cristo e il suo Spirito che abita in noi e che ci sospinge all'amore
del Padre e del prossimo. Pronunciando la parola «Legge», il nostro
pensiero andrà a Colui che ne è l'espressione massima, cioè il Verbo
di Dio, la sua Parola fatta carne. Con le parole del Salmo potremo dire
a Cristo, Sapienza incarnata del Padre: ho un desiderio ardente di
conoscerti, di comprenderti, di impararti; te desidero, te anelo, te
bramo; te ricordo, te medito, di te parlo; te ho scelto, te preferisco,
te amo, te prediligo; per te mi struggo, verso te mi volgo e corro, a te
aderisco; in te confido, in te spero, in te gioisco più che per le
ricchezze; tu sei la mia delizia, il mio consigliere.
Solo
un cieco non può vedere la bellezza e la ricchezza di questi sentimenti
che la Sapienza divina ci offre mediante i Salmi. Con umiltà restiamo
aperti a queste espressioni poetiche e come gli stessi Padri della
Chiesa hanno insegnato, vediamo in esse un annuncio profetico della vita
evangelica, dell'avvento del Regno di Dio nelle anime e quasi una
introduzione alla vita beatifica nel cielo, di cui i versetti del Salmo
possono essere considerati come i raggi luminosi pieni di calore e di
sapore.
Il
nemico.
Sotto
la voce «nemico» vogliamo condensare tutta una serie di espressioni
che frequentemente incontriamo nei Salmi: nemico è il malvagio,
l'avversario, colui che non teme Dio e non si cura della sua legge;
nemico è il dolore, la morte, lo «Sheol» (tradotto con «inferi»: è
il luogo sotterraneo dove vanno le anime dei defunti; luogo di oblio e
di non ritorno ); nemico può essere il mare o il mostro «Leviathan»
del Sal 74,14.
Più
di un terzo dei Salmi esprime il «lamento» del povero verso il Signore
perché intervenga in suo aiuto e lo difenda dal «nemico». Questi
Salmi hanno uno schema facile da seguire: si aprono con un «Perché?».
Dopo aver rievocato un passato felice, si espone lo squallore del
presente tragico. Il grido del povero per essere aiutato contro il
nemico non cade mai nella disperazione: questi Salmi terminano sempre
con una visione di speranza e di liberazione e sono espressione della
fede del Salmista nella misericordia e nella giustizia divina. In queste
suppliche si fa leva sull'onore di Dio il quale non può tollerare il
trionfo del male e dell'ingiustizia. Di fronte al nemico sta dunque la
certezza che Dio prenderà posizione e dopo un momentaneo periodo di
prova, accettato come purificazione dei propri peccati, Dio farà
giustizia: il povero sarà liberato dal nemico e Dio sarà glorificato
nella sua potenza.
Dinanzi
a questi Salmi si è confrontato lo stesso Gesù che «nei giorni della
sua vita terrena offrì preghiere e suppliche con forti grida e lacrime
a colui che poteva liberarlo da morte e fu esaudito per la sua pietà»
(Eb 5,7).
Quante
volte, anche noi, dovremo ripetere in prima persona quelle stesse parole
espressione della nostra vita terrena intessuta di miseria e di
tribolazione, di angoscia e di tentazione e che tuttavia trova in Dio la
roccia sicura su cui poggiare la propria fede e la propria speranza;
dopo questo intimo tormento Egli farà risplendere la giustizia.
Questi
Salmi, espressione di una umanità sofferente ma fiduciosa, perseguitata
ma non sopraffatta, devono diventare nostra autentica preghiera. E'
nella preghiera supplice e fiduciosa che il nostro vuoto si incontra con
la ricchezza di Dio, il nostro buio con la sua luce, la nostra debolezza
con la sua forza.
Sapersi
abbandonare nelle mani di Dio, come il bambino si abbandona nelle
braccia della madre (Sal 131,2), è segreto di ogni vittoria e di ogni
progresso spirituale.
Lo
Spirito è libertà e soffia dove vuole: non bisogna estinguerlo o
limitarlo entro categorie umane (1 Ts 5,19). Con assoluta libertà guidò
gli autori sacri a comporre questi bellissimi canti-preghiere che sono i
Salmi; con altrettanta libertà guida coloro che pregano i Salmi come se
essi stessi ne fossero oggi gli autori.
8
- I SALMI: PREGHIERA
DIFFICILE?
Pur
convinti che la Liturgia delle Ore rinnovata e restaurata dalla riforma
liturgica del Vaticano II costituisce, assieme alla celebrazione
dell'Eucaristia, quel duplice pilastro su cui poggia tutta la vita
orante della Chiesa, tuttavia si constata ancora una notevole lentezza
nell'accogliere questo strumento indispensabile di preghiera offerto
indistintamente a tutto il popolo cristiano.
Uno
dei principali ostacoli che impediscono una vasta penetrazione della
Liturgia delle Ore, sembra essere la difficoltà a pregare con i Salmi.
Le contestazioni più frequenti a questo tipo di preghiera si riassumono
in questa frase: i Salmi sono una preghiera difficile!
Dire
che i Salmi sono una preghiera «non facile», non è una novità. La
stessa Istruzione Generale sulla Liturgia delle Ore (IGLO), pur
ammettendo che i Salmi sono «bellissimi canti composti sotto
l'ispirazione dello Spirito Santo... ed hanno una capacità tate da
elevare la mente degli uomini a Dio...» (IGLO 100), non nasconde che
essi comportino alcune difficoltà:
-
sono un'immagine imperfetta di quella pienezza dei tempi che apparve in
Cristo Signore;
-
può dunque accadere che, pur concordando tutti i cristiani nella somma
stima dei Salmi, trovino qualche difficoltà quando cercano farli propri
nella preghiera (IGLO 101).
E'
dunque lecito affermare che per i Salmi non è ancora finita l'epoca
dell'esilio come lo è stato fino a qualche tempo fa per la Parola di
Dio? Assolutamente no! Dice infatti la stessa Istruzione sulla Liturgia
delle Ore:
-
lo Spirito Santo, sotto la cui ispirazione i Salmisti hanno cantato,
assiste sempre con la sua grazia coloro che eseguono tali inni con fede
e buona volontà;
-
è tuttavia necessario che ciascuno, secondo le sue possibilità, si
procuri una maggiore formazione biblica, specialmente riguardo ai Salmi;
-
inoltre si deve arrivare ad assimilare bene il modo e il metodo migliore
per pregarli come si conviene (IGLO 102).
Queste,
dunque, le ricette contro una certa ostilità verso i Salmi: spirito di
fede, buona volontà, maggiore formazione, migliore modo e metodo nel
pregarli.
Proseguendo
nel nostro servizio destinato ad offrire una adeguata formazione biblica
e liturgica sulla Liturgia delle Ore, con particolare riguardo ai Salmi,
si cercherà qui di rispondere ad una domanda: perché i Salmi non
possono essere una preghiera difficile. Si dirà allora che: se Cristo e
la Chiesa hanno pregato con i Salmi, perché proprio noi dovremmo farne
a meno? Sono vere o false certe difficoltà che noi attribuiamo ai
Salmi? Qual è il modo e il metodo migliore per pregarli come si
conviene ?
Cristo
e la Chiesa hanno pregato con i Salmi.
I
Salmi sono stati preghiera di Cristo.
Gesù
è nato ed è cresciuto in mezzo ad un popolo che faceva grande uso dei
Salmi soprattutto in connessione con i tre momenti principali della
preghiera quotidiana: al mattino, al vespro e prima di coricarsi.
Gesù
conosceva e praticava la preghiera dei Salmi tanto che essi sono il
libro da lui citato più di ogni altro scritto dell’Antico Testamento.
I
Salmi sono stati da sempre anche preghiera della Chiesa. Mentre la prima
comunità cristiana prese chiara distanza da tutte le istituzioni
giudaiche (es. il tempio, la sinagoga) dando vita a sue proprie feste e
luoghi di culto, non così fece per i Salmi. Nei Salmi la Chiesa vede
proclamato il mistero del suo Signore morto e risorto.
I
Salmi divennero il libro di preghiera della prima comunità cristiana
(At 4, 23-28; 1 Cor 14, 26; Ef 5, 19; Col 3,16). Non ci fu dunque
difficoltà per la Chiesa ad appropriarsi di quanto i Salmi dicevano
dell'antico popolo di Israele, dell'alleanza, del tempio. Sotto la guida
dello Spirito la Chiesa percepì subito che tutti gli annunci contenuti
nei Salmi trovavano il loro pieno compimento in Cristo e nel Nuovo
Popolo che Egli si era acquistato con il Sangue della Nuova Alleanza.
Così
dalla liturgia del tempio e della sinagoga, i Salmi passarono nella
liturgia della Chiesa per cantare con la stessa voce le meraviglie della
nuova Pasqua e dell'alleanza eterna celebrata nell'Eucaristia, nei
Sacramenti e in quella che divenne la Liturgia delle Ore.
Solo
in certe epoche di decadenza spirituale venne meno la preghiera dei
Salmi da parte di tutto il popolo cristiano, dovuta alla incomprensione
della lingua latina e alla mancanza di istruzione religiosa (forse già
verso il sec. VIII-IX). Secondo alcuni studiosi la stessa origine del
Rosario con le 150 Ave Maria distribuite in 5 misteri, sarebbe da
legarsi al cosiddetto «salterio dei poveri» in sostituzione dei 150
Salmi e dei 5 libri in cui sono divisi (o delle 5 antifone di cui era
composta ogni ora canonica). Nonostante tutto, però, nelle parrocchie
sempre si era mantenuta la tradizione di cantare il Vespro la Domenica
sera, anche con i Salmi in latino.
Ecco
perché è sommamente triste vedere certa contestazione verso i Salmi (e
quindi verso la Liturgia delle Ore), anche da parte di coloro che
dovrebbero essere invece gli «apostoli» di questa preghiera in modo
che essa «pervada profondamente,
ravvivi, guidi ed esprima tutta la preghiera cristiana e alimenti
efficacemente la vita spirituale del popolo di Dio» (Paolo VI, Laudis canticum, n. 8).
Ma
a che serve lamentarsi? Resta pur sempre vero che senza una adeguata
istruzione biblica e liturgica specialmente riguardo ai Salmi
(espressamente raccomandata da SC 90 e IGLO 23.102) essi continueranno
ad essere «una preghiera difficile». Spesso chi prega i Salmi si trova
nella situazione dell'eunuco della regina d'Etiopia: «come posso
capire, se nessuno me lo spiega?» (cf At 8, 31).
Vere
o false difficoltà?
Proveremo
qui a riassumere alcune tra le principali difficoltà che si
attribuiscono ai Salmi e cercheremo di riflettere se siano vere o false
difficoltà.
I
Salmi preghiera antiquata?
Qualcuno
dice: se lo Spirito Santo ha ispirato, molti secoli fa, gli autori sacri
che composero questi canti in un contesto storico e culturale molto
diverso dal nostro, non può oggi ispirare dentro la Chiesa altre
persone capaci di comporre preghiere adatte per il nostro tempo e con il
nostro stesso linguaggio?
A
questa obiezione risponde la stessa Istruzione sulla Liturgia delle Ore
quando dice:
«Chi
vuole salmeggiare con spirito di intelligenza deve percorrere i Salmi
versetto per versetto e rimanere sempre pronto nel suo cuore alla
risposta. Cosi vuole lo Spirito, che ha ispirato il salmista e che
assisterà ogni uomo di sentimenti religiosi aperto ad accogliere la sua
grazia» (IGLO 104 ).
Se
si desse retta a questa obiezione si dovrebbe ritenere antiquata tutta
la Bibbia e gli stessi Vangeli. Se invece si considera che, terminata la
fase della «scrittura», lo Spirito Santo continua a presiedere la fase
inesauribile della «lettura» e della «preghiera», si dovrà
costatare che quella Scrittura non sarà mai antiquata nello spirito di
coloro che la proclameranno con la gioia del cuore e ispirati
dall'amore. Già Cassiano, nel IV secolo, insegnava a recitare i Salmi
«non come se fosse stato il profeta a comporli, ma come se io stesso ne
fossi l'autore». Ed il Concilio, nella Costituzione Dei Verbum ha insegnato che «la
Sacra Scrittura deve essere letta e interpretata con l'aiuto dello
stesso Spirito mediante il quale è stata scritta» (DV 12).
Ciò
non significa chiudere la porta ad ogni spontaneità creatrice, quasi
che nessun'altra espressione moderna debba esistere al di fuori della
Scrittura. Il Salmo, tuttavia, resta sempre una preghiera ispirata,
divina, e con s. Agostino si dovrà ripetere: «Dio, volendo essere
lodato dagli uomini, si è lodato lui stesso». Dobbiamo dunque vedere i
Salmi non come una preghiera «antiquata», ma come una preghiera che
Dio stesso ha offerto agli uomini ispirandola mediante il suo Spirito
affinché gli uomini di tutti i tempi, mossi dal medesimo Spirito,
potessero restituirgliela come loro propria preghiera. Se pregheremo i
Salmi secondo questa luce, essi saranno per noi non una preghiera
antiquata di altri tempi, ma una preghiera giovane; non a caso,
all'inizio delle Ore, la Chiesa ci fa ripetere: «Apri la mia bocca e la
mia lingua canterà la tua lode» (Sal 51,17), che significa: «Apri la
tua bocca ed io il Signore la riempirò» (Sal 81,11).
I
Salmi preghiera poco cristiana?
Non
si può nascondere che in alcuni Salmi si trovano espressioni che a
prima vista mal si conciliano con il messaggio evangelico: il concetto
della vita oltre la morte e le invettive.
Il
concetto della vita oltre la morte.
Israele ha maturato molto lentamente l'idea di una vita oltre la morte.
Si incomincia a parlare di risurrezione dei morti solo all’epoca dei
Maccabei (circa 180 a. C.). Ecco perché in molti Salmi si parla solo di
una vita presente da vivere serenamente, mentre l'aldilà è visto solo
come un baratro oscuro senza ritorno: «nella morte nessuno può
ricordarsi di te: nello sheol chi potrà lodarti?» (Sal 6,5-6). E' la
preghiera di coloro che ancora non hanno ricevuto la luce di Cristo,
Colui che morendo ha distrutto la morte e risorgendo ha ridato a noi la
vita.
La
Chiesa, però, pregando questi Salmi sa che li prega unita a Colui che
è il Signore Risorto, il Dio dei viventi, non il Dio dei morti (cf Mt
22,32). Quando questi Salmi scorrono sulla mia bocca e penetrano nella
mia mente dovrò dire: che cosa sarebbe della mia vita se Cristo non mi
avesse dato la certezza della risurrezione? Sono creato per la vita, non
per la morte. Ma quando il peccato intacca la radice profonda di questa
vita nuova che mi è stata data nel Battesimo, non sono anch’io nel
baratro della morte? Sulle mie labbra il Salmo avrà allora questo
significato: liberami dalla morte vera, quella del peccato, perché
quando verrà la morte di questo corpo possa lodarti per sempre alla tua
presenza nella luce e nella pace.
Le
invettive contro i nemici.
Come è possibile chiamare preghiera cristiana la frase del Salmo 137,9
«benedetto chi afferra e stritola i tuoi bambini contro la pietra»? In
questi casi si dovrà tener conto dello stile particolare della poesia
orientale che ama esprimersi con immagini forti e colorite fino
all'esagerazione. E' un modo molto efficace per esprimere la distanza
che il giusto deve prendere dal peccatore; per indicare che noi vogliamo
restare fedeli all’alleanza senza patteggiamenti con i nemici dl Dio.
A
ben riflettere, però, ci sono anche nella nostra vita situazioni molo
simili. Quando non riesco a perdonare, ad amare chi mi ha fatto del
male... devo constatare di essere rimasto fermo all'Antico Testamento e
che la novità del Vangelo ancora non ha permeato la mia vita. In quei
momenti, Colui che sulla croce ha perdonato i suoi crocifissori (Lc
23,34), viene a tendermi una mano là dove mi trovo per farmi passare
dal Vecchio al Nuovo Comandamento; viene non per cancellarmi dalla sua
presenza, ma per completare in me quello che mi manca in rapporto al
comandamento nuovo dell'amore.
I
Salmi preghiera impersonale? La
mentalità moderna che sopravvaluta 1'«io» e tende a rifiutare ciò
che è imposto dall'esterno, produce anche dentro la Chiesa quei
fenomeni di allergia e di rigetto verso tutto ciò che è precostituito:
non si accettano le Preghiere eucaristiche della Chiesa universale per
improvvisarne di nuovo ritenute più adeguate e personalizzanti; si
mettono da parte i vecchi Salmi per accoglierne di nuovi molto
solleticanti all'udito.
Ma
è proprio vero che i Salmi siano cosi distanti dalla mentalità
dell'uomo moderno e, pur cosi antichi, non abbiano nulla di dire oggi?
Quante volte ci sarà capitato di recitare un Salmo e accorgerci che
aveva ancora qualcosa di nuovo da dirci ed a cui non avevamo ancora
fatto esperienza...
Non
dunque una preghiera .«prefabbricata», ma una preghiera universale che
la Chiesa mi offre ricordandomi che:
Sono
espressione della comunione ecclesiale. Quando li recito mi sento in comunione con tutti coloro che,
prima di me sia giudei che cristiani, si sono riconosciuti e si sono
espressi in queste formule di lode e di amore verso il Signore; mi sento
soprattutto in comunione con Cristo che ha cantato questi stessi Salmi
«con la sua voce e la sua vita» (s. Agostino), ed in comunione con la
Madre del Signore, Maria, che nel Magnificat ha lodato Dio facendo
scaturire dal suo cuore la ricchezza del Salterio.
Mi
liberano dai limiti del mio personalismo.
Dal momento che la Liturgia delle Ore è essenzialmente una preghiera
ecclesiale, colui che prega deve avere la capacità di amalgamarsi con
una preghiera comune ed oggettiva. La libertà dei figli di Dio non
viene coartata da formule preordinate che limitano lo spazio della mia
inventiva personale: mi inserisco invece in una realtà ben più grande
di me e, facendomi uscire dai limiti angusti della mia povertà
spirituale, dilata il mio spirito verso gli orizzonti sconfinati del
respiro orante della Chiesa e della sua secolare esperienza di
preghiera. In questo caso la mia voce non è più singola ma diventa
coro congiungendosi all'universale armonia di coloro che con Cristo e la
Chiesa soffrono, gioiscono, credono, amano, sperano. E tutto questo non
è un perdersi, ma un ritrovassi, non un impoverimento, ma una
ricchezza.
Mi
insegnano a pregare.
Mettendomi alla scuola della Chiesa che prega, anch'io imparerò a
pregare modellandomi su quelle espressioni che portano in sé tutta la
ricchezza dell'esperienza orante della Chiesa nel suo impegno di
celebrare la pienezza del Mistero cristiano.
I
Salmi diventano così la «forma normativa di preghiera», il modello
universale cui ispirarsi per avere una preghiera personale ben fatta;
diventano per noi «lex orandi, regola del pregare». Mi aiutano a
liberarmi dal banale, dall'utilitarismo, dal contingente, e mi spingono
verso il gratuito della lode divina. Lo stesso Tagore, un poeta non
cristiano, descrive la preghiera come un perdersi nell'amore divino: «Nell'ebbrezza
del canto dimentico me stesso, e chiamo te amico, che sei il mio Signore».
Il
Salmi mi insegnano anche a rifuggire da quel certo psicologismo e
servilismo di tante preghiere moderne che sono solo «prurito alle
orecchie» (2 Tm 4,3). I Salmi no! I Salmi sono autentica scuola di fede
quando ci insegnano a orientare tutto a Dio senza ripiegamenti su noi
stessi in sterili narcisismi.
Lo
stesso Lutero ha avuto parole di incoraggiamento all'uso dei Salmi
quando, nell'introduzione alla sua traduzione del Salterio, scriveva: «Che
cosa c'è di più grande dei Salmi, di questo serio parlare in mezzo a
questi venti impetuosi di ogni genere? Dove trovare parole di gioia più
adatte di quelle dei Salmi... Di qui viene che il Salterio è il libro
di tutti i santi. E dunque, in qualsiasi situazione possa trovarsi,
trova Salmi e parole che si adattano al suo caso, che si accordano alla
sua situazione come se fossero stati composti per lui, così che egli
non potrebbe farne di migliori o trovare o desiderare qualcosa di meglio».
A
conclusione di questo punto dedicato alle vere o false difficoltà nel
pregare i Salmi, vorremmo formulare una ipotesi per assurdo: e se
mancassero i Salmi? Con s. Girolamo dovremmo dire: «Al di là dei Salmi
c'è il silenzio». Come potremmo pregare nei giorni di aridità
spirituale, nei giorni di stanchezza, senza il sicuro sostegno dei
Salmi? Ripensando al travaglio della sua conversione, s. Agostino
scriveva a proposito dell'aiuto trovato nella preghiera dei Salmi:
«Leggevo
i tuoi cantici fedeli; come me ne infiammavo, come mi accendevo a
recitarli, se avessi potuto, per tutta la faccia della terra» (s.
Agostino, Confessioni, IX, 4).
E
s. Basilio, per esprimere la stima sconfinata che aveva verso i Salmi,
scriveva:
«Un
Salmo mette in fuga il demonio, attira il soccorso degli angeli. É
un’arma nei terrori della notte, un riposo nei lavori del giorno.
Preserva dal cadere i fanciulli, serve da ornamento ai giovani, dà
consolazione agli anziani. Anche per le donne non c'è monile migliore»
(s. Basilio, Hom. in Ps. 2).
Vediamo
piuttosto di offrire proposte concrete che aiutino a superare le
difficoltà esistenti nel pregare i Salmi.
Proposte
per pregare i Salmi.
La
Liturgia non è opera di improvvisazione. Fin dall'antichità si
accedeva ai santi misteri dopo un adeguato tempo di
catechesi-catecumenato ed anche dopo il Battesimo proseguiva la
istruzione con la cosiddetta «mistagogìa». I Padri del Concilio hanno
avuto estrema lungimiranza quando hanno detto che non ci sarebbe stata
autentica riforma liturgica senza una «adeguata formazione» anzitutto
del clero e poi dei laici (cf SC 14). La stessa raccomandazione è stata
fatta a proposito dei Salmi: «si procurino una maggiore istruzione
liturgica e biblica, specialmente riguardo ai Salmi (SC 90 e IGLO 102).
Si
avrà dunque l'accortezza di arrivare alla preghiera dei Salmi,
soprattutto con i laici, dopo una adeguata catechesi biblica e
liturgica.
Occorre
poi una preparazione prossima che aiuti ad entrare nel clima adatto alla
celebrazione. A volte il passaggio immediato dal ritmo frenetico della
nostra giornata ai momenti di preghiera è così repentino che, senza
aver creato un clima di silenzio e di adorazione, finisce per vanificare
la stessa preghiera.
Una
volta entrati nella preghiera, si dovrà creare armonia dentro di noi
tra mente, voce, cuore, corpo, in modo che tutte le nostre facoltà
partecipino attivamente alla preghiera. Si inizia così a recitare i
Salmi: non tanto a nome nostro, quanto a nome di tutto il Corpo di
Cristo, anzi nella persona di Cristo stesso ed a nome di tutta la
Chiesa. Attraverso questa apertura «cristologica» ed «ecclesiale»,
scopriremo nei Salmi il volto, il pensiero, i sentimenti di Dio;
sperimenteremo la dolcezza del colloquio con Dio che ha voluto darci la
sua stessa Parola sempre pronti e restituirgliela come dialogo orante
sotto la potente intercessione dello Spirito: lo Spirito infatti viene
in aiuto della nostra debolezza ed intercede per noi secondo i disegni
di Dio (cf Rm 8,26-27).
Sussidi
per pregare i Salmi.
Per
facilitare la preghiera «cristiana» dei Salmi, la Liturgia stessa ci
fornisce degli elementi utili:
I
titoli dei Salmi.
«Nel
salterio della Liturgia delle Ore, ad ogni Salmo è premesso un titolo
sul suo significato e la sua importanza per la vita umana del credente»;
sotto il titolo, in corsivo, «si aggiunge una sentenza del Nuovo
Testamento o dei Padri che invita a pregare in senso cristologico» (IGLO
111).
Sia
il titolo che la sentenza non si recitano a voce alta, ma devono
ugualmente essere tenuti in considerazione per rendere più facile la
lettura cristologica ed ecclesiale del Salmo. Sarebbe dunque opportuno
che, proclamata l'antifona, si facesse un adeguato spazio di silenzio
per amalgamare insieme antifona-titolo-sentenza quali elementi che mi
permettono di fare una lettura «cristiana» del Salmo.
Le
antifone.
L'antifona
è un ritornello che ha una doppia funzione: la prima è musicale
(segnala e prepara il tono sul quale si deve cantare il Salmo), la
seconda è di contenuto (suggerisce il significato che si vuol dare al
Salmo in rapporto al Mistero celebrato; aiuta ad illustrare il genere
letterario del Salmo; trasforma il Salmo in preghiera personale; aiuta a
sottolineare una qualche frase degna di attenzione).
Le
collette salmiche.
Purtroppo
queste antiche «collette» non si trovano nelle edizioni ordinarie
della liturgia delle Ore (esistono tuttavia in edizioni particolari). «Le
orazioni salmiche hanno lo scopo di aiutare coloro che recitano i Salmi
a interpretarli in senso cristiano... Così terminato il Salmo e fatta
una pausa di silenzio, la orazione raccoglie e conclude i sentimenti di
coloro che hanno recitato il Salmo» (IGLO 112).
Possiamo
richiamare in sintesi le attitudini essenziali che permettono una
autentica e fruttuosa preghiera dei Salmi.
I
Salmi sono Parola di Dio. Dal momento che questa Parola si è fatta
Carne, nei Salmi è Cristo stesso che prega ed i Salmi pregano Cristo. I
Salmi diventano per la Chiesa un momento privilegiato di dialogo e di
comunione tra Dio e l'uomo sotto la continua assistenza dello Spirito
che, come ha presieduto alla scrittura, così presiede anche alla
lettura- preghiera del Salmo stesso. Nei Salmi non si dovrà dunque
cercare in primo luogo ciò che può interessare o piacere al nostro
gusto, le risposte ai nostri interrogativi, quanto piuttosto il disegno
divino di salvezza, il Mistero di Cristo e della Chiesa. I Salmi
diventano così una guida che ci aiuta ad immergerci in questo disegno,
ad incontrare il pensiero di Dio, a porre Dio e Cristo al centro della
nostra esistenza, a perdere la nostra vita per ritrovarla in Cristo.
Concludiamo
con queste significative espressioni di s. Ambrogio:
«Tutta
la Scrittura divina spira la bontà di Dio, tuttavia lo fa più di tutto
il dolce libro dei Salmi. Che cosa di più dolce di un Salmo? Per questo
lo stesso Davide dice splendidamente: “Lodate il Signore: è bello
cantare al nostro Dio dolce è lodarlo come a lui conviene” (Sal
146,1). Davvero! Il Salmo infatti è benedizione per i fedeli, lode a
Dio, inno del popolo, plauso di tutti, parola universale, voce della
Chiesa, professione e canto di fede, espressione di autentica devozione,
gioia di libertà, grido di giubilo, suono di letizia. Mitiga l'ira,
libera dalle sollecitudini, solleva dalla mestizia. E' protezione nella
notte, istruzione nel giorno, scudo nel timore, festa nella santità,
immagine di tranquillità, pegno di pace e di concordia che, a modo di
cetra, da voci molteplici e differenti ricava un'unica melodia.
Il
Salmo canta il sorgere del giorno, il Salmo ne fa risuonare il tramonto.
Nel Salmo il gusto gareggia con la istruzione» (s Ambrogio,
Commento sul Salmo 1).
9 - Come
pregare i Salmi
Celebrarecon
l’anima, con il corpo
Dopo
esserci soffermati a riflettere sulla Liturgia delle Ore ed avendo
dedicata particolare attenzione ai Salmi, e giunto il momento di
chiederci: come dobbiamo pregare i Salmi? La stessa Istruzione Generale
sulla Liturgia delle Ore dice infatti: «si deve arrivare ad assimilare
bene il modo e il metodo migliore per pregare i Salmi come si conviene»
(IGLO 102).
Compito
non facile perché la stessa Istruzione non dà un criterio unico di
celebrazione, ma indica una varietà di possibilità tra le quali
scegliere a seconda delle esigenze pastorali delle singole comunità. Le
indicazioni che daremo qui, pertanto, sono solo orientative. Ci
sforzeremo piuttosto di creare una mentalità capace di stabilire una
celebrazione ottimale della Liturgia delle Ore.
«Celebrare»,
più che recitare.
Le
parole hanno un loro significato. Parlando di «recita» è facile
intendere quell'attività che consiste nel ripetere una parte che altri
hanno preparato per noi. Può ingenerare un senso di «passività»,
mentre al contrario abbiamo più volte ripetuto che la Liturgia delle
Ore è un'azione che ci vede protagonisti, con Cristo e con la Chiesa.
di quel cantico di lode che il Signore Risorto ha lasciato come
meravigliosa eredità alla Chiesa sua Sposa E' più corretto invece
parlare di «celebrazione» (cf IGLO 32, 243). Per avere una
celebrazione però, si richiedono le seguenti condizioni:
Un'assemblea
celebrante.
«La
Liturgia delle Ore come tutte le altre azioni liturgiche non è
un’azione privata, ma appartiene a tutto il Corpo della Chiesa lo
manifesta e influisce su di esso . (IGLO 20). Essendo un'azione
altamente liturgica e quindi ecclesiale «è da preferirsi la
celebrazione comunitaria... alla celebrazione individuale e quasi
privata» (SC 27)
Quest'assemblea
celebrante, meglio se sotto la presidenza di un Ministro, non compie
dunque una recita di testi prestabiliti, ma è convocata per celebrare
un evento di salvezza, l'incontro con Cristo che si fa trovare nei suoi
Misteri!
Non
è dunque giusto scusarsi dicendo: anche se non vado a celebrare le Ore
con la Comunità, basta che le reciti per conto mio. No! Le Ore sono una
«preghiera corale» e per fare un coro bisogna cantare tutti insieme,
nell'unica armonia che detta lo Spirito accordandoci al cantico dello
Sposo e della Sposa.
Un
clima di festa e di gioia.
Non
possono essere tristi gli invitati quando lo Sposo è con loro. La
presenza del Signore Risorto in mezzo all'assemblea deve creare quel
senso di festa e di gioia tale da rendere ogni celebrazione un
avvenimento pasquale. Che dire allora di certe preghiere che si
trascinano con monotonia, con stanchezza, senza alcun entusiasmo
interiore, senza quella gioia che dovrebbe derivare dal sentirsi in
comunione con gli Angeli e con i Santi nel cantare le lodi del Signore?
Per questo, come si dirà più avanti, è opportuno dare ampio spazio al
canto nella celebrazione delle Ore quale espressione della gioia che
sgorga da cuori in festa, traboccanti di fede per essere fatti degni di
stare alla divina Presenza per cantare le sue lodi.
Quale
gioia, inoltre, nel sapere che l’adorazione, la lode e il
ringraziamento sono assunti dalla voce di Cristo e acquistano una
perfezione e una pienezza che ci permette di essere fin d'ora membri
della Liturgia celeste. Le parole del Salmo, ad esempio, mentre
esprimono il pentimento del cuore ci fanno assaporare la misericordia di
Dio, mentre si fanno grido di supplica già ci pongono nelle mani ciò
che si implora.
Celebrazione,
dunque, non semplice recita.
Varietà
dl celebrazioni.
La
nuova Liturgia delle Ore ha evitato volutamente di dare una forma rigida
di celebrazione sia perché ha voluto rispettare la legittima creatività
di ogni assemblea liturgica, sia per permettere che questa comunità si
inserisca adeguatamente nel mistero celebrato nel corso dell'anno
liturgico. Questa creativita però non deve diventare anarchia. Pur
nella varietà delle celebrazioni, vi deve essere l'osservanza delle
norme generali che permetta alla Liturgia delle Ore di mantenere la sua
specifica caratteristica. Ad ogni modo, sia nelle piccole comunità, sia
in assemblee composte da persone di diversa provenienza, si dovrà
sempre stabilire in precedenza la modalità di celebrazione.
Improvvisazione e creatività non vanno certo d'accordo.
Per
facilitare una corretta utilizzazione dei singoli elementi che
compongono la Liturgia delle Ore, diamo qui una loro descrizione ed
indichiamo anche alcune modalità di esecuzione.
Varietà
di
elementi.
La
Liturgia delle Ore è composta da una varietà di elementi che vanno
dalla acclamazione-invocazione, alla proclamazione, al canto, alla
salmodia, all'inno. Per pregare bene con la varietà di queste formule,
occorre conoscerne le caratteristiche.
L'acclamazione-invocazione.
Rientrano
sotto questo genere espressivo le parti iniziali e conclusive della
celebrazione (es. O Dio, vieni a
salvarmi), gli Alleluia,
gli Amen, i ritornelli delle
invocazioni ed intercessioni. Data la loro forma breve, richiedono
incisività di espressione e coralità di intervento Devono scuotere
l’attenzione, immettere nella preghiera, fondere l’assemblea. La
forma più adatta è dunque il canto che, come un pugno di lievito,
fermenta tutto il resto
L'inno.
Trovandosi
all'inizio di ogni celebrazione, l’inno ha lo scopo di creare il clima
della celebrazione, di immettere nel mistero celebrato, di dare tono e
colore, di suscitare gioia e letizia spirituale ( IGLO 42. 173).
Anche
l'Inno ha una sua natura musicale ed è quindi preferibile cantarlo.
Attenzione però alla scelta degli Inni; è preferibile dare la
preferenza a quelli proposti dalle Ore evitando quei canti «passe-partout»
che non sono affatto adatti a quel tempo liturgico e a quella
celebrazione.
La
lettura.
Rientrano
in questo genere le Letture della Scrittura e dei Padri, le Orazioni.
Hanno lo scopo di dare un annuncio, di trasmettere un messaggio.
Richiedono dunque una proclamazione solenne, con dizione chiara, con
voce sufficientemente elevata capace di raggiungere tutta l'assemblea,
con ritmo pacato che permette assimilazione, con enfasi e gioia come si
addice ad un lieto annuncio.
E'
evidente che tutte queste qualità si acquistano con esercizio e
preparazione. Il rispetto per la Parola di Dio esige di prepararsi
sempre prima della proclamazione delle letture.
La
stessa cosa si può dire delle Orazioni. Queste, però, possono essere
anche cantate, in certe solennità, od anche « cantillate
» cioè proclamate con tono elevato che sta tra il canto e il parlato.
Il
responsorio.
E'
strettamente legato alla lettura; se nella lettura è Dio che parla, nel
responsorio è l'assemblea che risponde. Essendo una risposta, necessita
di essere preceduto da un minimo di riflessione. Pertanto è
consigliabile di creare uno spazio di silenzio prima del responsorio (cf
IGLO 202). Il responsorio diventerà allora un grido di riconoscenza e
di lode che permetterà alla Parola di Dio di penetrare più
profondamente nella nostra vita.
Per
questi motivi è preferibile che il responsorio sia cantato.
La
salmodia.
I
Salmi costituiscono la parte più caratteristica e predominante della
Liturgia delle Ore, e sono anche l'elemento che richiede maggiore
attenzione nella celebrazione. Per pregare correttamente i Salmi occorre
tener presente la loro costituzione: « I salmi non sono letture, né
preghiere scritte in prosa ma poemi di lode. Quindi anche se talvolta
fossero stati eseguiti come letture, tuttavia in ragione del loro genere
letterario, giustamente furono detti dagli ebrei “Tehillim”,
cioè “cantici di lode” e dai greci “psalmoi”
cioè cantici da eseguire al suono del salterio (IGLO 103).
Essendo
dunque composizioni poetico-musicali, i Salmi sono strettamente connessi
con la musica e con il canto. Senza tuttavia dimenticare che il canto ha
la funzione di mettere in rilievo il testo: non deve dunque prevalere,
ma servire.
Tenuto
conto di questo loro « genere letterario», i Salmi possono essere
pregati secondo alcune modalità:
recita
continua di un solista:
l’assemblea ascolta in silenzio. Si richiede capacità di
proclamazione c scelta dei Salmi adeguati (ad es. i Salmi didattici o i
salmi storici posti di preferenza nell'Ufficio delle letture);
recita
continua collettiva:
due cori si alternano nel proclamare i versetti. Questi versetti,
nell'edizione italiana, sono generalmente raggruppati in quartine
quasi ad indicare che la unità di preghiera è costituita dai due
stichi messi insieme. Si suppone infatti che il passaggio troppo
frequente da un coro all'altro ad ogni singolo stico sia troppo
incalzante e quindi rischi di soffocare il respiro della preghiera
personale. Per questo stesso motivo, seguendo l'antica tradizione
monastica, è anche consigliabile che tra un coro e l'altro il passaggio
non sia immediato e precipitoso, ma si lasci piuttosto un abbondante
respiro senza tuttavia perdere il ritmo della preghiera;
recita
responsoriale:
al solista o alla scola che proclamano le strofe del salmo, risponde
l'assemblea con una antifona-ritornello dopo un certo numero di strofe.
Ha il vantaggio di combinare le due forme precedenti: concilia l'ascolto
contemplativo e l’intervento attivo (soprattutto in grandi assemblee,
con un ritornello di facile esecuzione).
Il
canto del Salmi.
Occorre
riaffermare che il canto dovrebbe essere la forma ordinaria di pregare i
Salmi. Realisticamente bisogna riconoscere, però, che non sempre è
possibile osservare questa regola ottimale. Si dovrà allora ricercare
un certo equilibrio all'interno delle comunità tenendo conto sia dei
tempi liturgici, sia delle esigenze pastorali in cui la comunità si
trova.
Per
essere in grado di fare una scelta ragionata, è necessario avere idee
chiare sul valore del canto nella preghiera dei Salmi.
«Il
canto non si deve considerare come un certo ornamento che si aggiunge
alla preghiera quasi dall’esterno ma piuttosto come qualcosa che
scaturisce dal profondo dell’anima che prega e loda Dio e manifesta in
modo pieno e perfetto il carattere comunitario del culto cristiano»
(IGLO 270 ) .
«É
risaputo che i Salmi sono strettamente connessi con la musica; lo
dimostra la tradizione sia giudaica che cristiana. In verità alla piena
comprensione di molti Salmi contribuisce non poco il fatto che essi
vengano cantati o almeno siano sempre considerati in questa luce poetica
e musicale» (IGLO 278).
Il
canto, dunque, non è un semplice abbellimento della preghiera, ma una
sua esigenza interiore, una manifestazione più intensa della lode e
dell’amore di colui che prega. Con s. Agostino si può ripetere: «il
cantare è proprio di chi ama; e già dall'antichità si formò il
detto: «Chi canta bene prega due volte».
Coloro
che si radunano in preghiera nell'attesa del loro Signore, sono esortati
dall'Apostolo a cantare insieme Salmi, inni e cantici spirituali (cf Col
3,16).
Nel
pregare i Salmi si dia dunque grande importanza al canto, tenendo
ovviamente conto della capacità di ciascuna comunità e del debito
equilibrio tra le parti da cantare.
A
questo proposito si possono suggerire alcuni criteri operativi:
Esecuzioni
differenziate.
Non
è necessario cantare sempre e tutto: si deve tener conto dei tempi,
delle persone, dei testi da cantare. Un indiscriminato livellamento
delle parti e dei toni, ucciderebbe lo spirito della preghiera. Ogni
parte dell’ufficio va pregata secondo il suo stile più appropriato.
Una esecuzione variata può essere anche un'esigenza psicologica per
tener più desta l'attenzione, l'interesse, il gusto e,
conseguentemente, la qualità della preghiera e dei suoi benefici.
Varietà
di esecuzione, ad esempio, può significare alternanza tra parlato e
cantato; fra solista e assemblea; fra due cori della stessa assemblea;
fra monodia e polifonia; fra le differenti possibilità dei toni
melodici.
Varietà
di ministeri.
La
preghiera delle Ore deve fare spazio ai seguenti ministeri: il salmista
(che canta o proclama un salmo), il lettore (che proclama le letture),
il coro (che esegue, eventualmente, anche brani a più voci cui si
unisce l'assemblea con un ritornello di facile esecuzione), i suonatori
di strumenti musicali ( oltre l'organo o l'armonium, sono possibili
anche altri strumenti secondo le varie culture).
Gradualità.
Non
si può pretendere che una comunità raggiunga subito l'ottimo della
celebrazione. Senza indulgere a pigrizie, si dovrà tuttavia attendere i
necessari tempi di maturazione secondo la legge della gradualità: «
Anche se la celebrazione tutta in canto è la più raccomandabile
sempre,... tuttavia in alcuni casi si potrà seguire utilmente il
criterio della gradualità... (seguendo) il principio della solennizzazione progressiva che ammette vari gradi
intermedi tra l’Ufficio cantato integralmente e la semplice recita di
tutte le parti » ( IGLO 273 )
Il
sacro silenzio.
Non
va dimenticato che tra gli elementi costitutivi della Liturgia delle Ore
c'è anche quello di « osservare a suo tempo il sacro silenzio» (IGLO
201).
I
motivi principali per cui si deve osservare il silenzio nella Liturgia
delle Ore, come in ogni liturgia, sono:
-
favorire la risonanza della lettura o della preghiera nell'animo;
-
permettere alla Parola di Dio di penetrare più profondamente nella
nostra vita per essere assimilata vitalmente;
-
favorire la sintonizzazione con la preghiera di Cristo e della Chiesa;
-
preparare ad una partecipazione più intensa ai testi e alle azioni che
seguiranno;
-
permettere di accogliere nei cuori la piena risonanza della voce dello
Spirito;
-
facilitare una maggiore personalizzazione della preghiera.
Il
silenzio è dunque un valore
attivo e non semplice assenza di suoni! Esso deve scavare nei cuori
una fame, «una capacità di Dio». Per questo è stato scritto: il
silenzio talvolta è tacere, sempre è ascoltare; non e una evasione, ma
un raccogliere noi stessi in Dio.
La
stessa Istruzione generale (IGLO
202)prevede questi momenti di silenzio:
*
dopo i singoli Salmi, appena ripetuta l'antifona e specialmente se, dopo
il silenzio, si aggiunge l'orazione salmica (cf IGLO 112);
*
dopo le letture, sia brevi che lunghe, e precisamente prima o dopo il
responsorio;
«Si
deve pero evitare di introdurre momenti di silenzio che potrebbero
deformare la struttura dell’Ufficio o recare molestia o fastidio ai
partecipanti» (IGLO 202)
Regola
saggissima, tenuto conto che la preghiera in assemblea deve pur avere un
suo « ritmo» da non interrompere frequentemente, lasciando invece alla
preghiera individuale una più ampia possibilità di fermarsi nella
meditazione di qualche formula che stimoli gli affetti dello spirito,
senza che l'Ufficio perda per questo la sua caratteristica di preghiera
pubblica (cf IGLO 203).
La
recita non diventi quindi una lagna, sottraendole quel carattere
gioioso, solenne, ritmato, che prevede una globale armonia tra parlato, cantato, recitato,
silenzio.
Gli
atteggiamenti del corpo.
Pregando
i Salmi riceviamo spesso l'invito del salmista a lodare Dio con la danza
(Sal 86 7; 149,3; 150,4), ad applaudire battendo le mani (Sal 46,1), ad
alzare le mani (Sal 62 5; 76 3; 87,10), a prostrarsi davanti al Signore
(Sal 28 2; 131,7), ecc.
Generalmente,
però, non attuiamo mai questo invito e ce ne restiamo ben fermi ed
immobili nel nostro « raccoglimento».
Non
va invece dimenticato che coloro che si riuniscono per la preghiera sono
persone vive, che si esprimono ed agiscono non come automi, ma come
persone coscienti della loro libera adesione all'incontro orante con
Cristo presente nella sua Chiesa.
I
gesti e l’atteggiamento esteriore del corpo devono dunque essere
l’espressione di un impulso interiore; devono essere sostenuti,
animati, giustificati dalla dinamica spirituale, senza indulgere a
formalismo o ad ostentazione. La loro esecuzione sarà tanto più degna
di Dio quanto più sarà illuminata e riscaldata dallo spirito interiore
di preghiera.
I
principali gesti previsti dalla Liturgia delle Ore sono:
-
stare in piedi: introduzioni,
inni, cantici evangelici, preci, orazioni;
-
stare seduti: durante le
letture ed i relativi responsori; durante la salmodia (si consiglia di
sedersi già prima dell'antifona, lasciando eventualmente che rimanga in
piedi chi proclama l'antifona; questo per evitare di compiere movimenti
mentre si esegue un canto o si recita una formula); nulla però vieta
che si stia in piedi durante il canto di alcuni salmi;
-
segni di croce: all'inizio
delle Ore e prima dei canti evangelici.
Oltre
a questi gesti principali già previsti dalla Liturgia, non andrebbe
trascurata tutta un'altra gamma di gestualità che potrebbe comprendere
l'inchino profondo alle
dossologie (gloria...), le mani
alzate al Padre nostro come nella Messa, il
battere le mani in certi salmi cantati con un ritmo appropriato.
In
altre parole: non possiamo mettere da parte il nostro corpo durante la
preghiera, ma dovremmo piuttosto coinvolgerlo in una totale
collaborazione con il nostro spirito in modo che tutte le forze che sono
in noi diano lode al Signore e cantino la sua gloria.
Come
già dicevamo a proposito del silenzio, anche per i gesti e gli
atteggiamenti del corpo si richiede equilibrio e buon senso.
Si
ricordi allora che:
*
la comunione esterna dei gesti è espressione della comunione interiore
dei cuori;
*
rinuncio volentieri ad un mio gusto per unirmi all'armonia
dell'assemblea;
*
fare il contrario degli altri non è manifestare la propria personalità
ma piuttosto il proprio individualismo (lo stesso dicasi per chi corre
troppo o va troppo lento nella recita dei salmi );
*
rimanderò ai momenti di preghiera personale l'attuazione di quei gesti
che non fossero serenamente accolti da tutta la comunità.
Ritualità
e solennità.
La
Istruzione generale sulla Liturgia
delle Ore non ci offre elementi specifici circa l'aspetto rituale
della celebrazione. Troviamo queste indicazioni:
-
le vesti liturgiche: il
sacerdote o il diacono che presiedono la celebrazione possono indossare
la stola sopra il camice o la cotta; il sacerdote può indossare anche
il piviale (IGLO 255).
-
l’incenso: si può usare per
incensare l'altare, il sacerdote e il popolo mentre si esegue alle Lodi
mattutine e ai Vespri il cantico evangelico (IGLO 261); aiuta a
percepire il significato di «sacrificio
della lode» tipico della Liturgia delle Ore: « Salga la mia
preghiera come incenso davanti a te; l’elevazione delle mie mani come
il sacrificio della sera» (Sal 141,2).
-
le candele accese: non vengono
nominate (e quindi richieste); non va tuttavia dimenticato che l'uso dei
lumi nella liturgia oraria (come in quella eucaristica, è stato sempre
segno di onore, di decoro, di festosità, di gioia, di solennità, in
quanto simbolo di Cristo luce divina, sole che sorge dall'alto per
illuminare coloro che sono nelle tenebre e nell'ombra della morte (cf il
cantico del Benedictus) E'
dunque più che opportuno accendere i lumi durante la celebrazione delle
Ore: per assonanza con il cero pasquale indicheranno la presenza del
Cristo Risorto in mezzo all'assemblea dei suoi discepoli che lo
attendono con le lampade accese (cf Lc 12,35; Mt 25,1-8).
Il
concetto di ritualità richiama necessariamente quello di solennità.
Dobbiamo dunque chiederci: quando è che una celebrazione è solenne?
Come rendere solenne una celebrazione? Qualcuno, almeno in passato,
calcolava la solennità in rapporto al numero di lampade accese, al
numero di fiori sull'altare, ecc. E' evidente che questo e un metro di
misura molto corto. La vera solennità di una celebrazione non è data
tanto dagli elementi esterni, quanto piuttosto dal grado di
partecipazione attiva-piena-consapevole (cf SC 14) di coloro che
prendono parte alla celebrazione. Un secondo criterio è questo: la
solennità è data dalla completa utilizzazione di tutti gli elementi
celebrativi messi a disposizione dalla liturgia. In una parola: tutto il
rito, tutta la persona, valorizzati in pienezza, danno il vero concetto
di solennità. Le luci ed i fiori da soli, sarebbero solo coreografia
per gli occhi. Acquistano un senso solo se ad essi si uniscono persone
che autenticamente pregano con tutte le possibilità messe a
disposizione dai testi e dal rito. Ad esempio: una liturgia cantata, sarà
certamente più solenne di una recitata. Il rispetto degli spazi di
silenzio, la presidenza di un ministro, la corretta esecuzione dei toni
musicali, la distribuzione dei servizi, ecc. sono un evidente elemento
di solennità che nasce dalla verità del rito e non da una semplice
aggiunta di elementi esteriori. Meglio gli uni e gli altri, ma non gli
uni senza gli altri!
Alcuni
rischi da evitare.
Lo
zelo per la casa del Signore non deve avere limiti. Può accadere, però,
che col pretesto dello zelo si annidino possibili rischi, come:
-
rubricismo: è il rischio che
corrono coloro che ricercano la lettera senza prima essersi impadroniti
dello spirito. Le rubriche sono un aiuto, non il fine della preghiera.
Le rubriche devono aiutare le persone non soffocarle. Il rubricismo
impedisce di assumere forme nuove capaci di « essere segno e
testimonianza di comunità piene di vita e di freschezza» (IGLO 273) e
riduce la liturgia « ad un bel monumento dell’età passata da
conservare intatto per l’ammirazione degli intenditori;
-
estetismo: è la ricerca
esasperata della novità, dell’originalità; è il voler cambiare
sempre, ad ogni costo. Così facendo, molti fedeli sono esclusi dalla
partecipazione perché fanno appena in tempo ad imparare un canto che
subito viene cambiato; oppure vengono eseguiti canti così ricercati che
solo pochi possono apprendere, mentre gli altri sono costretti ad
ascoltare. Il bello deve essere anche utile. Dal lato opposto va pure
evitata la sciatteria, la mancanza di entusiasmo, la svogliatezza, il
meccanismo dei gesti e delle parole, la fissità delle abitudini... La
liturgia deve essere sempre giovane, sempre aperta a tutto quanto può
favorire l'autentica partecipazione alla preghiera;
-
l’attivismo: è l'eccessiva
preoccupazione per ciò che si deve fare e finisce per distrarre da ciò
che si deve dire E' la confusione tra animazione dell'assemblea, sempre
da ricercare ed utile, e la teatralità di certe celebrazioni svuotate
del loro carattere mistico, contemplativo, aperto all'azione preminente
dello Spirito. Se la celebrazione è ben preparata in anticipo, non ci
sarà bisogno di tanta gente che si dimena con gesti inutili e goffi per
guidare l'assemblea o interviene continuamente con parole dell'uomo che
finiscono per indebolire la unicità e preminenza della Parola di Dio.
Rifuggendo
sia dall’improvvisazione incompetente, sia del freddo rubricismo,
ricordiamo una saggia indicazione dell'Istruzione
che dice: « Quel che conta più
di tutto è che la celebrazione non si leghi a schemi rigidi e
artificiosi, non obbedisca solo a norme puramente formali, ma risponda
allo spirito autentico dell’azione che si compie. Il
primo scopo da raggiungere è infatti quello di formare gli animi
all’amore per la preghiera genuina della Chiesa e di rendere gioiosa
la celebrazione della lode di Dio» (IGLO 279).
Di
san Francesco è stato scritto che: Più
che recitare preghiere, lui stesso, con tutta la sua vita era diventato
preghiera. Sia, questo, un augurio anche per tutti noi. Può esserci
di aiuto questo bel testo di Eusebio di Cesarea (265-339):
«Gli
Ebrei eseguivano inni con l’accompagnamento di strumenti musicali
quali i salteri e le cetre. Noi cristiani invece eseguiamo il nostro
inno con un salterio vivo e una cetra animata. Infatti il canto corale
del popolo di Cristo ha il potere di divenire più gradito a Dio di
qualsiasi strumento musicale. Con la salmodia in tutta la Chiesa di Dio
noi eseguiamo un canto fuso nell’unità della mente, del cuore, della
fede, della pietà, dei sentimenti e della voce.
Noi
ci serviamo della salmodia e di codeste cetre spirituali perché ce lo
ha insegnato l’Apostolo quando ha detto: con salmi e cantici e inni
spirituali. Secondo un’altra maniera di vedere, per cetra può essere
inteso tutto il corpo nel quale attraverso i movimenti e le attività
l’anima eleva a Dio un inno confacente.
Il
salterio dalle dieci corde è il culto che lo Spirito Santo presta
attraverso i cinque sensi del corpo e le cinque potenze dell’anima
E’ ciò che vuol intendere s. Paolo quando dice: Salmeggerò con lo
spirito e salmeggerò con la mente (1 Cor 14,15) quasi che la mente
abbia anch’essa i suoi movimenti con i quali far agire il corpo ed
anche lo spirito abbia i propri impulsi con i quali muova l’anima»
(Eusebio, Esposit. in ps. 91).
CONCLUSIONE
Gesù Cristo prega per noi, prega in noi,
è
pregato da noi
«Dio
non poteva elargire agli uomini un dono più grande di questo:
costituire loro capo lo stesso suo Verbo, per mezzo del quale creò
l'universo. Ci unì a lui
come membra, in modo che egli fosse Figlio di Dio e figlio dell'uomo,
unico Dio con il Padre, un medesimo uomo con gli uomini.
Di
conseguenza, quando rivolgiamo a Dio la nostra preghiera, non dobbiamo
separare da lui il Figlio, e quando prega il corpo del Figlio, esso non
deve considerarsi come staccato dal capo. In tal modo la stessa persona,
cioè l'unico Salvatore del corpo, il Signore nostro Gesù Cristo,
Figlio di Dio, sarà colui che prega per noi, prega in noi, è pregato
da noi.
Prega
per noi come nostro sacerdote, prega in noi come nostro capo, è pregato
da noi come nostro Dio.
Riconosciamo,
quindi, sia le nostre voci in lui, come pure la sua voce in noi.
E quando, specialmente nelle profezie, troviamo qualche cosa che
suona umiliazione, nei riguardi del Signore Gesù Cristo, e perciò non
ci sembra degna di Dio, non dobbiamo temere di attribuirla a lui, che
non ha esitato a unirsi a noi, pur essendo il padrone di tutta la
creazione, perché per mezzo di lui sono state fatte tutte le creature.
Perciò
noi guardiamo alla sua grandezza divina quando sentiamo proclamare:
“In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il Verbo era
Dio. Egli era in principio
presso Dio: tutto è stato fatto per mezzo di Lui e senza di Lui niente
è stato fatto” (Gv 1, 1-3). In
questo passo ci è dato di contemplare la divinità del Figlio di Dio,
tanto eccelsa e sublime da sorpassare ogni più nobile Creatura.
In
altri passi della Scrittura, invece, sentiamo che egli geme, prega, dà
lode a Dio. Ebbene ci è
difficile attribuire a lui queste parole.
La nostra mente stenta a discendere immediatamente dalla
contemplazione della sua divinità al suo stato di profondo
abbassamento. Temiamo quasi di offendere Cristo, se riferiamo le parole
che egli dice alla sua umanità. Prima rivolgevamo a lui la nostra
supplica, pregandolo come Dio. Rimaniamo
perciò perplessi davanti a quelle espressioni e ci verrebbe fatto di
cambiarle. Ma nella
Scrittura non si incontra se non ciò che gli si addice e che non
permette di falsare la sua identità.
Si
desti dunque il nostro animo e resti saldo nella sua fede.
Tenga presente che colui che poco prima contemplava nella sua
natura di Dio, ha assunto la natura di servo. E’ divenuto simile agli
uomini, e “apparso in forma umana, umiliò se stesso, facendosi
obbediente fino alla morte”» (Fil 2, 7-8).
Inoltre ha voluto far sue, mentre pendeva dalla croce, le parole
del salmo: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” (Sal 21,
1).
E’
pregato dunque per la sua natura divina, prega nella natura di servo.
Troviamo là il creatore, qui colui che è creato.
Lui immutato assume la creatura, che doveva essere mutata, e fa
di noi con sé medesimo un solo uomo: capo e corpo.
Perciò
noi preghiamo lui, per mezzo di lui e in lui; diciamo con lui ed egli
dice con noi» (S. Agostino, Commento
sui salmi. Sal 85,1; in Mercoledì
V di Quaresima).
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www.maranatha.it
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