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	I Sommi Pontefici fino ai 
	nostri giorni ebbero costantemente cura che la Chiesa di Cristo offrisse 
	alla Divina Maestà un culto degno, “a lode e gloria del Suo nome” ed “ad 
	utilità di tutta la sua Santa Chiesa”.  
	
		
		Da tempo immemorabile, 
		come anche per l’avvenire, è necessario mantenere il principio secondo 
		il quale “ogni Chiesa particolare deve concordare con la Chiesa 
		universale, non solo quanto alla dottrina della fede e ai segni 
		sacramentali, ma anche quanto agli usi universalmente accettati dalla 
		ininterrotta tradizione apostolica, che devono essere osservati non solo 
		per evitare errori, ma anche per trasmettere l’integrità della fede, 
		perché la legge della preghiera della Chiesa corrisponde alla sua legge 
		di fede”[1].  
	
		
		Tra i Pontefici che 
		ebbero tale doverosa cura eccelle il nome di san Gregorio Magno, il 
		quale si adoperò perché ai nuovi popoli dell’Europa si trasmettesse sia 
		la fede cattolica che i tesori del culto e della cultura accumulati dai 
		Romani nei secoli precedenti. Egli comandò che fosse definita e 
		conservata la forma della sacra Liturgia, riguardante sia il Sacrificio 
		della Messa sia l’Ufficio Divino, nel modo in cui si celebrava 
		nell’Urbe. Promosse con massima cura la diffusione dei monaci e delle 
		monache, che operando sotto la regola di san Benedetto, dovunque 
		unitamente all’annuncio del Vangelo illustrarono con la loro vita la 
		salutare massima della Regola: “Nulla venga preposto all’opera di Dio” 
		(cap. 43). In tal modo la sacra Liturgia celebrata secondo l’uso romano 
		arricchì non solo la fede e la pietà, ma anche la cultura di molte 
		popolazioni. Consta infatti che la liturgia latina della Chiesa nelle 
		varie sue forme, in ogni secolo dell’età cristiana, ha spronato nella 
		vita spirituale numerosi Santi e ha rafforzato tanti popoli nella virtù 
		di religione e ha fecondato la loro pietà.  
	
	Molti altri Romani Pontefici, 
	nel corso dei secoli, mostrarono particolare sollecitudine a che la sacra 
	Liturgia espletasse in modo più efficace questo compito: tra essi spicca s. 
	Pio V, il quale sorretto da grande zelo pastorale, a seguito 
	dell’esortazione del Concilio di Trento, rinnovò tutto il culto della 
	Chiesa, curò l’edizione dei libri liturgici, emendati e “rinnovati secondo 
	la norma dei Padri” e li diede in uso alla Chiesa latina.  
	
	Tra i libri liturgici del 
	Rito romano risalta il Messale Romano, che si sviluppò nella città di Roma, 
	e col passare dei secoli a poco a poco prese forme che hanno grande 
	somiglianza con quella vigente nei tempi più recenti.  
	
	“Fu questo il medesimo 
	obbiettivo che seguirono i Romani Pontefici nel corso dei secoli seguenti 
	assicurando l’aggiornamento o definendo i riti e i libri liturgici, e poi, 
	all’inizio di questo secolo, intraprendendo una riforma generale”[2]. Così 
	agirono i nostri Predecessori Clemente VIII, Urbano VIII, san Pio X[3], 
	Benedetto XV, Pio XII e il B. Giovanni XXIII.  
	
	Nei tempi più recenti, il 
	Concilio Vaticano II espresse il desiderio che la dovuta rispettosa 
	riverenza nei confronti del culto divino venisse ancora rinnovata e fosse 
	adattata alle necessità della nostra età. Mosso da questo desiderio, il 
	nostro Predecessore, il Sommo Pontefice Paolo VI, nel 1970 per la Chiesa 
	latina approvò i libri liturgici riformati e in parte rinnovati. Essi, 
	tradotti nelle varie lingue del mondo, di buon grado furono accolti da 
	Vescovi, sacerdoti e fedeli. Giovanni Paolo II rivide la terza edizione 
	tipica del Messale Romano. Così i Romani Pontefici hanno operato “perché 
	questa sorta di edificio liturgico [...] apparisse nuovamente splendido per 
	dignità e armonia”[4]. 
	
	Ma in talune regioni 
	non pochi fedeli aderirono e continuano ad aderire con tanto amore ed 
	affetto alle antecedenti forme liturgiche, le quali avevano imbevuto così 
	profondamente la loro cultura e il loro spirito, che il Sommo Pontefice 
	Giovanni Paolo II, mosso dalla cura pastorale nei confronti di questi 
	fedeli, nell’anno 1984 con lo speciale indulto “Quattuor abhinc annos”, 
	emesso dalla Congregazione per il Culto Divino, concesse la facoltà di usare 
	il Messale Romano edito dal B. Giovanni XXIII nell’anno 1962; nell’anno 1988 
	poi Giovanni Paolo II di nuovo con la Lettera Apostolica “Ecclesia 
	Dei”, data in forma di Motu proprio, 
	esortò i Vescovi ad usare largamente e generosamente tale facoltà in favore 
	di tutti i fedeli che lo richiedessero.  
	
	A seguito delle insistenti 
	preghiere di questi fedeli, a lungo soppesate già dal Nostro Predecessore 
	Giovanni Paolo II, e dopo aver ascoltato Noi stessi i Padri Cardinali nel 
	Concistoro tenuto il 22 marzo 2006, avendo riflettuto approfonditamente su 
	ogni aspetto della questione, dopo aver invocato lo Spirito Santo e contando 
	sull’aiuto di Dio, con la presente Lettera Apostolica stabiliamo quanto 
	segue:  
	
	Art. 1. Il Messale Romano 
	promulgato da Paolo VI è la espressione ordinaria della “lex orandi” 
	(“legge della preghiera”) della Chiesa cattolica di rito latino. Tuttavia il 
	Messale Romano promulgato da S. Pio V e nuovamente edito dal B. Giovanni 
	XXIII deve venir considerato come espressione straordinaria della stessa 
	“lex orandi” e deve essere tenuto nel debito onore per il suo uso venerabile 
	e antico. Queste due espressioni della “lex orandi” della Chiesa 
	non porteranno in alcun modo a una divisione nella “lex credendi” 
	(“legge della fede”) della Chiesa; sono infatti due usi dell’unico rito 
	romano. 
	
	Perciò è lecito celebrare il 
	Sacrificio della Messa secondo l’edizione tipica del Messale Romano 
	promulgato dal B. Giovanni XXIII nel 1962 e mai abrogato, come forma 
	straordinaria della Liturgia della Chiesa. Le condizioni per l’uso di questo 
	Messale stabilite dai documenti anteriori “Quattuor abhinc annos” e 
	“Ecclesia Dei”, vengono sostituite come segue: 
	
	Art. 2. Nelle Messe celebrate 
	senza il popolo, ogni sacerdote cattolico di rito latino, sia secolare sia 
	religioso, può usare o il Messale Romano edito dal beato Papa Giovanni XXIII 
	nel 1962, oppure il Messale Romano promulgato dal Papa Paolo VI nel 1970, e 
	ciò in qualsiasi giorno, eccettuato il Triduo Sacro. Per tale celebrazione 
	secondo l’uno o l’altro Messale il sacerdote non ha bisogno di alcun 
	permesso, né della Sede Apostolica, né del suo Ordinario. 
	
	Art. 3. Le comunità degli 
	Istituti di vita consacrata e delle Società di vita apostolica, di diritto 
	sia pontificio sia diocesano, che nella celebrazione conventuale o 
	“comunitaria” nei propri oratori desiderano celebrare la Santa Messa secondo 
	l’edizione del Messale Romano promulgato nel 1962, possono farlo. Se una 
	singola comunità o un intero Istituto o Società vuole compiere tali 
	celebrazioni spesso o abitualmente o permanentemente, la cosa deve essere 
	decisa dai Superiori maggiori a norma del diritto e secondo le leggi e gli 
	statuti particolari. 
	
	Art. 4. Alle celebrazioni 
	della Santa Messa di cui sopra all’art. 2, possono essere ammessi – 
	osservate le norme del diritto – anche i fedeli che lo chiedessero di loro 
	spontanea volontà. 
	
	Art. 5. § 1. Nelle 
	parrocchie, in cui esiste stabilmente un gruppo di fedeli aderenti alla 
	precedente tradizione liturgica, il parroco accolga volentieri le loro 
	richieste per la celebrazione della Santa Messa secondo il rito del Messale 
	Romano edito nel 1962. Provveda a che il bene di questi fedeli si armonizzi 
	con la cura pastorale ordinaria della parrocchia, sotto la guida del Vescovo 
	a norma del can. 392, evitando la discordia e favorendo l’unità di tutta la 
	Chiesa. 
	
	§ 2. La celebrazione secondo 
	il Messale del B. Giovanni XXIII può aver luogo nei giorni feriali; nelle 
	domeniche e nelle festività si può anche avere una celebrazione di tal 
	genere. 
	
	§ 3. Per i fedeli e i 
	sacerdoti che lo chiedono, il parroco permetta le celebrazioni in questa 
	forma straordinaria anche in circostanze particolari, come matrimoni, 
	esequie o celebrazioni occasionali, ad esempio pellegrinaggi. 
	
	§ 4. I sacerdoti che usano il 
	Messale del B. Giovanni XXIII devono essere idonei e non giuridicamente 
	impediti. 
	
	§ 5. Nelle chiese che non 
	sono parrocchiali né conventuali, è compito del Rettore della chiesa 
	concedere la licenza di cui sopra. 
	
	Art. 6. Nelle Messe celebrate 
	con il popolo secondo il Messale del B. Giovanni XXIII, le letture possono 
	essere proclamate anche nella lingua vernacola, usando le edizioni 
	riconosciute dalla Sede Apostolica. 
	
	Art. 7. Se un gruppo di 
	fedeli laici fra quelli di cui all’art. 5 § 1 non abbia ottenuto 
	soddisfazione alle sue richieste da parte del parroco, ne informi il Vescovo 
	diocesano. Il Vescovo è vivamente pregato di esaudire il loro desiderio. Se 
	egli non può provvedere per tale celebrazione, la cosa venga riferita alla 
	Commissione Pontificia “Ecclesia Dei”. 
	
	Art. 8. Il Vescovo, che 
	desidera rispondere a tali richieste di fedeli laici, ma per varie cause è 
	impedito di farlo, può riferire la questione alla Commissione “Ecclesia 
	Dei”, perché gli offra consiglio e aiuto. 
	
	Art. 9 § 1. Il parroco, dopo 
	aver considerato tutto attentamente, può anche concedere la licenza di usare 
	il rituale più antico nell’amministrazione dei sacramenti del Battesimo, del 
	Matrimonio, della Penitenza e dell’Unzione degli infermi, se questo 
	consiglia il bene delle anime. 
	
	§ 2. Agli Ordinari viene 
	concessa la facoltà di celebrare il sacramento della Confermazione usando il 
	precedente antico Pontificale Romano, qualora questo consigli il bene delle 
	anime. 
	
	§ 3. Ai chierici costituiti “in 
	sacris” è lecito usare il Breviario Romano promulgato dal B. Giovanni 
	XXIII nel 1962. 
	
	Art. 10. L’Ordinario del 
	luogo, se lo riterrà opportuno, potrà erigere una parrocchia personale a 
	norma del can. 518 per le celebrazioni secondo la forma più antica del rito 
	romano, o nominare un cappellano, osservate le norme del diritto. 
	
	Art. 11. La Pontificia 
	Commissione “Ecclesia Dei”, eretta da Giovanni Paolo II nel 
	1988[5], continua ad esercitare il suo compito. 
	
	Tale Commissione abbia la 
	forma, i compiti e le norme, che il Romano Pontefice le vorrà attribuire. 
	
	Art. 12. La stessa 
	Commissione, oltre alle facoltà di cui già gode, eserciterà l’autorità della 
	Santa Sede vigilando sulla osservanza e l’applicazione di queste 
	disposizioni. 
	
	Tutto ciò che da Noi è stato 
	stabilito con questa Lettera Apostolica data a modo di Motu proprio, 
	ordiniamo che sia considerato come “stabilito e decretato” e da osservare 
	dal giorno 14 settembre di quest’anno, festa dell’Esaltazione della Santa 
	Croce, nonostante tutto ciò che possa esservi in contrario. 
	
	Dato a Roma, presso San 
	Pietro, il 7 luglio 2007, anno terzo del nostro Pontificato. 
 
	
	[1] Ordinamento generale del Messale 
	Romano, 3a ed., 2002, n. 397. 
	
	[2] Giovanni Paolo II, Lett. ap. 
	Vicesimus quintus annus, 4 dicembre 1988, 3: AAS 81 (1989), 899. 
	
	[4] S. Pio X, Lett. ap. Motu propio 
	data, Abhinc duos annos, 23 ottobre 1913: AAS 5 (1913), 449-450; cfr 
	Giovanni Paolo II, lett. ap. Vicesimus quintus annus, n. 3: AAS 81 (1989), 
	899. 
	
	[5] Cfr Ioannes Paulus II, Lett. ap. 
	Motu proprio data Ecclesia Dei, 2 luglio 1988, 6: AAS 80 (1988), 1498.
 © Copyright 2007 - Libreria Editrice Vaticana
 
 
 
 
		
			
				| LETTERA DI SUA SANTITÀ
 BENEDETTO XVI
 AI VESCOVI IN OCCASIONE DELLA PUBBLICAZIONE
 DELLA LETTERA APOSTOLICA "MOTU PROPRIO DATA"
 SUMMORUM PONTIFICUM
 SULL'USO DELLA LITURGIA ROMANA
 ANTERIORE ALLA RIFORMA EFFETTUATA NEL 1970
 
				   
				Cari 
				Fratelli nell’Episcopato, 
				con grande 
				fiducia e speranza metto nelle vostre mani di Pastori il testo 
				di una nuova Lettera Apostolica “Motu Proprio data” sull’uso 
				della liturgia romana anteriore alla riforma effettuata nel 
				1970. Il documento è frutto di lunghe riflessioni, di molteplici 
				consultazioni e di preghiera.  
				Notizie e giudizi 
				fatti senza sufficiente informazione hanno creato non poca 
				confusione. Ci sono reazioni molto divergenti tra loro che vanno 
				da un’accettazione gioiosa ad un’opposizione dura, per un 
				progetto il cui contenuto in realtà non era conosciuto. 
				A questo 
				documento si opponevano più direttamente due timori, che vorrei 
				affrontare un po’ più da vicino in questa lettera. 
				In primo luogo, 
				c’è il timore che qui venga intaccata l’Autorità del Concilio 
				Vaticano II e che una delle sue decisioni essenziali – la 
				riforma liturgica – venga messa in dubbio. Tale timore è 
				infondato. Al riguardo bisogna innanzitutto dire che il Messale, 
				pubblicato in duplice edizione da Paolo VI e poi riedito una 
				terza volta con l'approvazione di Giovanni Paolo II, ovviamente 
				è e rimane la forma normale – la forma ordinaria – della 
				Liturgia Eucaristica. L’ultima stesura del Missale Romanum, 
				anteriore al Concilio, che è stata pubblicata con l’autorità di 
				Papa Giovanni XXIII nel 1962 e utilizzata durante il Concilio, 
				potrà, invece, essere usata come forma extraordinaria 
				della Celebrazione liturgica. Non è appropriato parlare di 
				queste due stesure del Messale Romano come se fossero “due 
				Riti”. Si tratta, piuttosto, di un uso duplice dell’unico e 
				medesimo Rito. Quanto all’uso del Messale del 1962, come 
				forma extraordinaria della Liturgia della Messa, vorrei 
				attirare l’attenzione sul fatto che questo Messale non fu mai 
				giuridicamente abrogato e, di conseguenza, in linea di 
				principio, restò sempre permesso. Al momento dell’introduzione 
				del nuovo Messale, non è sembrato necessario di emanare norme 
				proprie per l’uso possibile del Messale anteriore. Probabilmente 
				si è supposto  che si sarebbe trattato di pochi casi singoli che 
				si sarebbero risolti, caso per caso,  sul posto. Dopo, però, si 
				è presto dimostrato che non pochi rimanevano fortemente legati a 
				questo uso del Rito romano che, fin dall’infanzia, era per loro 
				diventato familiare. Ciò avvenne, innanzitutto, nei Paesi in cui 
				il movimento liturgico aveva donato a molte persone una cospicua 
				formazione liturgica e una profonda, intima familiarità con la 
				forma anteriore della Celebrazione liturgica. Tutti sappiamo 
				che, nel movimento guidato dall’Arcivescovo Lefebvre, la fedeltà 
				al Messale antico divenne un contrassegno esterno; le ragioni di 
				questa spaccatura, che qui nasceva, si trovavano però più in 
				profondità. Molte persone, che accettavano chiaramente il 
				carattere vincolante del Concilio Vaticano II e che erano fedeli 
				al Papa e ai Vescovi, desideravano tuttavia anche ritrovare la 
				forma, a loro cara, della sacra Liturgia; questo avvenne 
				anzitutto perché in molti luoghi non si celebrava in modo fedele 
				alle prescrizioni del nuovo Messale, ma esso addirittura veniva 
				inteso come un’autorizzazione o perfino come un obbligo alla 
				creatività, la quale portò spesso a deformazioni della Liturgia 
				al limite del sopportabile. Parlo per esperienza, perché ho 
				vissuto anch’io quel periodo con tutte le sue attese e 
				confusioni. E ho visto quanto profondamente siano state ferite, 
				dalle deformazioni arbitrarie della Liturgia, persone che erano 
				totalmente radicate nella fede della Chiesa. 
				Papa 
				Giovanni Paolo II si vide, perciò, obbligato a dare, con il Motu 
				Proprio “Ecclesia 
				Dei” 
				del 2 luglio 1988, un quadro normativo per l’uso del Messale del 
				1962, che però non conteneva prescrizioni dettagliate, ma faceva 
				appello, in modo più generale, alla generosità dei Vescovi verso 
				le “giuste aspirazioni” di quei fedeli che richiedevano 
				quest’uso del Rito romano. In quel momento il Papa voleva, 
				così,  aiutare soprattutto la Fraternità San Pio X a ritrovare 
				la piena unità con il Successore di Pietro, cercando di guarire 
				una ferita sentita sempre più dolorosamente. Purtroppo questa 
				riconciliazione finora non è riuscita; tuttavia una serie di 
				comunità hanno utilizzato con gratitudine le possibilità di 
				questo Motu Proprio. Difficile è rimasta, invece, la questione 
				dell’uso del Messale del 1962 al di fuori di questi gruppi, per 
				i quali mancavano precise norme giuridiche, anzitutto perché 
				spesso i Vescovi, in questi casi, temevano che l’autorità del 
				Concilio fosse messa in dubbio. Subito dopo il Concilio Vaticano 
				II si poteva supporre che la richiesta dell’uso del Messale del 
				1962 si limitasse alla generazione più anziana che era cresciuta 
				con esso, ma nel frattempo è emerso chiaramente che anche 
				giovani persone scoprono questa forma liturgica, si sentono 
				attirate da essa e vi trovano una forma, particolarmente 
				appropriata per loro, di incontro con il Mistero della 
				Santissima Eucaristia. Così è sorto un bisogno di un regolamento 
				giuridico più chiaro che, al tempo del Motu Proprio del 1988, 
				non era prevedibile; queste Norme intendono anche liberare i 
				Vescovi dal dover sempre di nuovo valutare come sia da 
				rispondere alle diverse situazioni.  
				In secondo luogo, 
				nelle discussioni sull’atteso Motu Proprio, venne espresso il 
				timore che una più ampia possibilità dell’uso del Messale del 
				1962 avrebbe portato a disordini o addirittura a spaccature 
				nelle comunità parrocchiali. Anche questo timore non mi sembra 
				realmente fondato. L’uso del Messale antico presuppone una certa 
				misura di formazione liturgica e un accesso alla lingua latina; 
				sia l’una che l’altra non si trovano tanto di frequente. Già da 
				questi presupposti concreti si vede chiaramente che il nuovo 
				Messale rimarrà, certamente, la forma ordinaria del Rito Romano, 
				non soltanto a causa della normativa giuridica, ma anche della 
				reale situazione in cui si trovano le comunità di fedeli. 
				E’ vero che non 
				mancano esagerazioni e qualche volta aspetti sociali 
				indebitamente vincolati all’attitudine di fedeli legati 
				all’antica tradizione liturgica latina. La vostra carità e 
				prudenza pastorale sarà stimolo e guida per un perfezionamento. 
				Del resto le due forme dell’uso del Rito Romano possono 
				arricchirsi a vicenda: nel Messale antico  potranno e dovranno 
				essere inseriti nuovi santi e alcuni dei nuovi prefazi. La 
				Commissione “Ecclesia Dei” in contatto con i diversi enti 
				dedicati all’ “usus antiquior” studierà le possibilità pratiche. 
				Nella celebrazione della Messa secondo il Messale di Paolo VI 
				potrà manifestarsi, in maniera più forte di quanto non lo è 
				spesso finora, quella sacralità che attrae molti all’antico uso. 
				La garanzia più sicura che il Messale di Paolo VI possa unire le 
				comunità parrocchiali e venga da loro amato consiste nel 
				celebrare con grande riverenza in conformità alle prescrizioni; 
				ciò rende visibile la ricchezza spirituale e la profondità 
				teologica di questo Messale.  
				Sono giunto, 
				così, a quella ragione positiva che mi ha motivato ad aggiornare 
				mediante questo Motu Proprio quello del 1988. Si tratta di 
				giungere ad una riconciliazione interna nel seno della Chiesa. 
				Guardando al passato, alle divisioni che nel corso dei secoli 
				hanno lacerato il Corpo di Cristo, si ha continuamente 
				l’impressione che, in momenti critici in cui la divisione stava 
				nascendo, non è stato fatto il sufficiente da parte dei 
				responsabili della Chiesa per conservare o conquistare la 
				riconciliazione e l’unità; si ha l’impressione che le omissioni 
				nella Chiesa abbiano avuto una loro parte di colpa nel fatto che 
				queste divisioni si siano potute consolidare. Questo sguardo al 
				passato oggi ci impone un obbligo: fare tutti gli sforzi, 
				affinché a tutti quelli che hanno veramente il desiderio 
				dell’unità, sia reso possibile di restare in quest’unità o di 
				ritrovarla nuovamente. Mi viene in mente una frase della Seconda 
				Lettera ai Corinzi, dove Paolo scrive: “La nostra bocca vi ha 
				parlato francamente, Corinzi, e il nostro cuore si è tutto 
				aperto per voi. Non siete davvero allo stretto in noi; è nei 
				vostri cuori invece che siete allo stretto… Rendeteci il 
				contraccambio, aprite anche voi il vostro cuore!” (2 Cor 
				6,11–13). Paolo lo dice certo in un altro contesto, ma il suo 
				invito può e deve toccare anche noi, proprio in questo tema. 
				Apriamo generosamente il nostro cuore e lasciamo entrare tutto 
				ciò a cui la fede stessa offre spazio.  
				Non c’è nessuna 
				contraddizione tra l’una e l’altra edizione del Missale 
				Romanum. Nella storia della Liturgia c’è crescita e 
				progresso, ma nessuna rottura. Ciò che per le generazioni 
				anteriori era sacro, anche per noi resta sacro e grande, e non 
				può essere improvvisamente del tutto proibito o, addirittura, 
				giudicato dannoso. Ci fa bene a tutti conservare le ricchezze 
				che sono cresciute nella fede e nella preghiera della Chiesa, e 
				di dar loro il giusto posto. Ovviamente per vivere la piena 
				comunione anche i sacerdoti delle Comunità aderenti all’uso 
				antico non possono, in linea di principio, escludere la 
				celebrazione secondo i libri nuovi. Non sarebbe infatti coerente 
				con il riconoscimento del valore e della santità del nuovo rito 
				l’esclusione totale dello stesso. 
				In 
				conclusione, cari Confratelli, mi sta a cuore sottolineare che 
				queste nuove norme non diminuiscono in nessun modo la vostra 
				autorità e responsabilità, né sulla liturgia né sulla pastorale 
				dei vostri fedeli. Ogni Vescovo, infatti, è il moderatore della 
				liturgia nella propria diocesi (cfr. 
				
				Sacrosanctum Concilium, 
				n. 22: “Sacrae Liturgiae moderatio ab Ecclesiae auctoritate 
				unice pendet quae quidem est apud Apostolicam Sedem et, ad 
				normam iuris, apud Episcopum”).  
				Nulla si toglie 
				quindi all’autorità del Vescovo il cui ruolo, comunque, rimarrà 
				quello di vigilare affinché tutto si svolga in pace e serenità. 
				Se dovesse nascere qualche problema che il parroco non possa 
				risolvere, l’Ordinario locale potrà sempre intervenire, in piena 
				armonia, però, con quanto stabilito dalle nuove norme del Motu 
				Proprio. 
				Inoltre, vi 
				invito, cari Confratelli, a scrivere alla Santa Sede un 
				resoconto sulle vostre esperienze, tre anni dopo l’entrata in 
				vigore di questo Motu Proprio. Se veramente fossero venute alla 
				luce serie difficoltà, potranno essere cercate vie per trovare 
				rimedio. 
				Cari Fratelli, 
				con animo grato e fiducioso, affido al vostro cuore di Pastori 
				queste pagine e le norme del Motu Proprio. Siamo sempre memori 
				delle parole dell’Apostolo Paolo dirette ai presbiteri di Efeso: 
				“Vegliate su voi stessi e su tutto il gregge, in mezzo al quale 
				lo Spirito Santo vi ha posti come Vescovi a pascere la Chiesa di 
				Dio, che egli si è acquistata con il suo sangue” (Atti 
				20,28). 
				Affido alla 
				potente intercessione di Maria, Madre della Chiesa, queste nuove 
				norme e di cuore imparto la mia Benedizione Apostolica a Voi, 
				cari Confratelli, ai parroci delle vostre diocesi, e a tutti i 
				sacerdoti, vostri collaboratori, come anche a tutti i vostri 
				fedeli. 
				Dato presso San 
				Pietro, il 7 luglio 2007 
				BENEDICTUS PP. 
				XVI  
				© Copyright 2007 
				- Libreria Editrice Vaticana
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