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LETTERA
ENCICLICA |
Lo
splendore della verità rifulge in tutte le opere del Creatore e, in modo
particolare, nell'uomo creato a immagine e somiglianza di Dio (cf Gn 1,26): la
verità illumina l'intelligenza e informa la libertà dell'uomo, che in tal modo
viene guidato a conoscere e ad amare il Signore. Per questo il salmista prega:
« Risplenda su di noi, Signore, la luce del tuo volto » (Sal
4,7).
INTRODUZIONE Gesù
Cristo, luce vera che illumina ogni uomo
1.
Chiamati alla salvezza mediante la fede in Gesù Cristo, « luce vera che
illumina ogni uomo » (Gv 1,9), gli uomini diventano « luce nel Signore » e « figli
della luce » (Ef 5,8) e si
santificano con « l'obbedienza alla verità » (1
Pt 1,22).
Questa
obbedienza non è sempre facile. In seguito a quel misterioso peccato d'origine,
commesso per istigazione di Satana, che è « menzognero e padre della menzogna
» (Gv 8,44), l'uomo è permanentemente tentato di distogliere il suo
sguardo dal Dio vivo e vero per volgerlo agli idoli (cf 1 Ts 1,9), cambiando « la verità di Dio con la menzogna » (Rm
1,25); viene allora offuscata anche la sua capacità di conoscere la verità
e indebolita la sua volontà di sottomettersi ad essa. E così, abbandonandosi
al relativismo e allo scetticismo (cf. Gv 18,
38), egli va alla ricerca di una illusoria libertà al di fuori della stessa
verità.
Ma
nessuna tenebra di errore e di peccato può eliminare totalmente nell'uomo la
luce di Dio Creatore. Nella profondità del suo cuore permane sempre la
nostalgia della verità assoluta e la sete di giungere alla pienezza della sua
conoscenza. Ne è prova eloquente l'inesausta ricerca dell'uomo in ogni campo e
in ogni settore. Lo prova ancor più la sua ricerca sul senso
della vita. Lo sviluppo della scienza e della tecnica, splendida
testimonianza delle capacità dell'intelligenza e della tenacia degli uomini,
non dispensa dagli interrogativi religiosi ultimi l'umanità, ma piuttosto la
stimola ad affrontare le lotte più dolorose e decisive, quelle del cuore e
della coscienza morale.
2.
Ogni uomo non può sfuggire alle domande fondamentali: Che
cosa devo fare? Come discernere il bene dal male? La risposta è possibile
solo grazie allo splendore della verità che rifulge nell'intimo dello spirito
umano, come attesta il salmista: « Molti dicono: "Chi ci farà vedere il
bene?". Risplenda su di noi, Signore, la luce del tuo volto » (Sal 4,7).
La
luce del volto di Dio splende in tutta la sua bellezza sul volto di Gesù
Cristo, « immagine del Dio invisibile » (Col
1,15), « irradiazione della sua gloria » (Eb
1,3), « pieno di grazia e di verità » (Gv
1,14): Egli è « la via, la verità e la vita » (Gv
14,6). Per questo la risposta decisiva ad ogni interrogativo dell'uomo, in
particolare ai suoi interrogativi religiosi e morali, è data da Gesù Cristo,
anzi è Gesù Cristo stesso, come ricorda il Concilio Vaticano II: « In realtà,
solamente nel mistero del Verbo incarnato
trova vera luce il mistero dell'uomo. Adamo, infatti, il primo uomo, era
figura di quello futuro, e cioè di Cristo Signore. Cristo, che è il nuovo
Adamo, proprio rivelando il mistero del Padre e del suo amore, svela anche
pienamente l'uomo all'uomo e gli fa nota la sua altissima vocazione ».1
Gesù
Cristo, « la luce delle genti », illumina il volto della sua Chiesa, che Egli
manda in tutto il mondo ad annunciare il Vangelo ad ogni creatura (cf Mc
16,15).2 Così la Chiesa, Popolo di Dio in mezzo alle nazioni,3 mentre è
attenta alle nuove sfide della storia e agli sforzi che gli uomini compiono
nella ricerca del senso della vita, offre a tutti la risposta che viene dalla
verità di Gesù Cristo e del suo Vangelo. È sempre viva nella Chiesa la
coscienza del suo « dovere permanente di scrutare i segni dei tempi e di
interpretarli alla luce del Vangelo, così che, in un modo adatto a ciascuna
generazione, possa rispondere ai perenni interrogativi degli uomini sul senso
della vita presente e futura e sul loro reciproco rapporto ».4
3.
I Pastori della Chiesa, in comunione col Successore di Pietro, sono vicini ai
fedeli in questo sforzo, li accompagnano e li guidano con il loro magistero,
trovando accenti sempre nuovi di amore e di misericordia per rivolgersi non solo
ai credenti, ma a tutti gli uomini di buona volontà. Il Concilio Vaticano II
rimane una testimonianza straordinaria di questo atteggiamento della Chiesa che,
« esperta in umanità »,5 si pone al servizio di ogni uomo e di tutto il
mondo.6
La
Chiesa sa che l'istanza morale raggiunge in profondità ogni uomo, coinvolge
tutti, anche coloro che non conoscono Cristo e il suo Vangelo e neppure Dio. Sa
che proprio sulla strada della vita morale è aperta a tutti la via della salvezza, come
ha chiaramente ricordato il Concilio Vaticano II, che così scrive: « Quelli
che senza colpa ignorano il Vangelo di Cristo e la sua Chiesa, e tuttavia
cercano sinceramente Dio, e sotto l'influsso della grazia si sforzano di
compiere con le opere la volontà di Dio, conosciuta attraverso il dettame della
coscienza, possono conseguire la salvezza eterna ». Ed aggiunge: « Né la
divina Provvidenza nega gli aiuti necessari alla salvezza a coloro che senza
colpa da parte loro non sono ancora arrivati a una conoscenza esplicita di Dio,
e si sforzano, non senza la grazia divina, di condurre una vita retta. Poiché
tutto ciò che di buono e di vero si trova in loro, è ritenuto dalla Chiesa
come una preparazione al Vangelo, e come dato da Colui che illumina ogni uomo,
affinché abbia finalmente la vita ».7
L'oggetto
della presente Enciclica
4.
Sempre, ma soprattutto nel corso degli ultimi due secoli, i Sommi Pontefici sia
personalmente che insieme al Collegio episcopale hanno sviluppato e proposto un
insegnamento morale relativo ai molteplici e differenti
ambiti della vita umana. In nome e con l'autorità di Gesù Cristo, essi
hanno esortato, denunciato, spiegato; in fedeltà alla loro missione, nelle
lotte in favore dell'uomo, hanno confermato, sostenuto, consolato; con la
garanzia dell'assistenza dello Spirito di verità hanno contribuito ad una
migliore comprensione delle esigenze morali negli ambiti della sessualità
umana, della famiglia, della vita sociale, economica e politica. Il loro
insegnamento costituisce, all'interno della tradizione della Chiesa e della
storia dell'umanità, un continuo approfondimento della conoscenza morale.8
Oggi,
però, sembra necessario riflettere sull'insieme dell'insegnamento morale della
Chiesa, con lo scopo preciso di richiamare alcune verità fondamentali della
dottrina cattolica che nell'attuale contesto rischiano di essere deformate o
negate. Si è determinata, infatti, una
nuova situazione entro la stessa comunità cristiana, che ha conosciuto il
diffondersi di molteplici dubbi ed obiezioni, di ordine umano e psicologico,
sociale e culturale, religioso ed anche propriamente teologico, in merito agli
insegnamenti morali della Chiesa. Non si tratta più di contestazioni parziali e
occasionali, ma di una messa in discussione globale e sistematica del patrimonio
morale, basata su determinate concezioni antropologiche ed etiche. Alla loro
radice sta l'influsso più o meno nascosto di correnti di pensiero che finiscono
per sradicare la libertà umana dal suo essenziale e costitutivo rapporto con la
verità. Così si respinge la dottrina tradizionale sulla legge naturale,
sull'universalità e sulla permanente validità dei suoi precetti; si
considerano semplicemente inaccettabili alcuni insegnamenti morali della Chiesa;
si ritiene che lo stesso Magistero possa intervenire in materia morale solo per
« esortare le coscienze » e per « proporre i valori », ai quali ciascuno
ispirerà poi autonomamente le decisioni e le scelte della vita.
È
da rilevare, in special modo, la dissonanza
tra la risposta tradizionale della Chiesa e alcune posizioni teologiche, diffuse
anche in Seminari e Facoltà teologiche, circa
questioni della massima importanza per la Chiesa e la vita di fede dei
cristiani, nonché per la stessa convivenza umana. In particolare ci si chiede:
i comandamenti di Dio, che sono scritti nel cuore dell'uomo e fanno parte
dell'Alleanza, hanno davvero la capacità di illuminare le scelte quotidiane
delle singole persone e delle società intere? È possibile obbedire a Dio e
quindi amare Dio e il prossimo, senza rispettare in tutte le circostanze questi
comandamenti? È anche diffusa l'opinione che mette in dubbio il nesso
intrinseco e inscindibile che unisce tra loro la fede e la morale, quasi che
solo in rapporto alla fede si debbano decidere l'appartenenza alla Chiesa e la
sua unità interna, mentre si potrebbe tollerare nell'ambito morale un
pluralismo di opinioni e di comportamenti, lasciati al giudizio della coscienza
soggettiva individuale o alla diversità dei contesti sociali e culturali.
5.
In un tale contesto, tuttora attuale, è maturata in me la decisione di scrivere
— come già annunciai nella Lettera apostolica Spiritus
Domini, pubblicata il 1o agosto 1987 in occasione del secondo centenario
della morte di sant'Alfonso Maria de' Liguori — un'Enciclica destinata a
trattare « più ampiamente e più profondamente le questioni riguardanti i
fondamenti stessi della teologia morale »,9 fondamenti che vengono intaccati da
alcune tendenze odierne.
Mi
rivolgo a voi, venerati Fratelli nell'Episcopato, che condividete con me la
responsabilità di custodire la « sana dottrina » (2
Tm 4,3), con l'intenzione di precisare
taluni aspetti dottrinali che risultano decisivi per far fronte a quella che è
senza dubbio una vera crisi, tanto gravi sono le difficoltà che ne
conseguono per la vita morale dei fedeli e per la comunione nella Chiesa, come
pure per un'esistenza sociale giusta e solidale.
Se
questa Enciclica, da tanto tempo attesa, viene pubblicata solo ora, lo è anche
perché è apparso conveniente farla precedere dal Catechismo
della Chiesa Cattolica, il quale contiene un'esposizione completa e
sistematica della dottrina morale cristiana. Il Catechismo presenta la vita
morale dei credenti nei suoi fondamenti e nei suoi molteplici contenuti come
vita dei « figli di Dio »: « Riconoscendo nella fede la loro nuova dignità,
i cristiani sono chiamati a comportarsi ormai "da cittadini degni del
Vangelo" (Fil 1,27). Mediante i
sacramenti e la preghiera, essi ricevono la grazia di Cristo e i doni del suo
Spirito, che li rendono capaci di questa vita nuova ».10 Nel rimandare pertanto
al Catechismo « come testo di riferimento sicuro ed autorevole per
l'insegnamento della dottrina cattolica »,11 l'Enciclica si limiterà ad
affrontare alcune questioni fondamentali
dell'insegnamento morale della Chiesa, sotto forma di un necessario
discernimento su problemi controversi tra gli studiosi dell'etica e della
teologia morale. È questo l'oggetto specifico della presente Enciclica, che
intende esporre, sui problemi discussi, le ragioni di un insegnamento morale
fondato nella Sacra Scrittura e nella viva Tradizione apostolica 12 mettendo in
luce, nello stesso tempo, i presupposti e le conseguenze delle contestazioni di
cui tale insegnamento è fatto segno.
CAPITOLO I «
MAESTRO, CHE COSA DEVO FARE DI BUONO...? »
Cristo
e la risposta alla domanda di morale
«
Un tale gli si avvicinò... »
(Mt 19,16)
6.
Il dialogo di Gesù con il giovane ricco,
riferito nel capitolo 19 del Vangelo di san Matteo, può costituire un'utile
traccia per riascoltare in modo vivo e incisivo il suo insegnamento morale: « Ed ecco un tale gli si avvicinò e
gli disse: "Maestro, che cosa devo fare di buono per ottenere la vita
eterna?". Egli rispose: "Perché mi interroghi su ciò che è buono?
Uno solo è buono. Se vuoi entrare nella vita, osserva i comandamenti". Ed
egli chiese: "Quali?". Gesù rispose: "Non uccidere, non
commettere adulterio, non rubare, non testimoniare il falso, onora il padre e la
madre, ama il prossimo tuo come te stesso. Il giovane gli disse: "Ho sempre
osservato tutte queste cose; che mi manca ancora?". Gli disse Gesù:
"Se vuoi essere perfetto, va', vendi quello che possiedi, dallo ai poveri e
avrai un tesoro nel cielo; poi vieni e seguimi" » (Mt 19,16-21).13
7.
« Ed ecco un tale... ». Nel giovane,
che il Vangelo di Matteo non nomina, possiamo riconoscere ogni
uomo che, coscientemente o no, si
avvicina a Cristo, Redentore dell'uomo, e gli pone la domanda morale. Per il
giovane, prima che una domanda sulle regole da osservare, è una domanda di pienezza di significato per la vita. E, in effetti, è
questa l'aspirazione che sta al cuore di ogni decisione e di ogni azione umana,
la segreta ricerca e l'intimo impulso che muove la libertà. Questa domanda è
ultimamente un appello al Bene assoluto che ci attrae e ci chiama a sé, è
l'eco di una vocazione di Dio, origine e fine della vita dell'uomo. Proprio in
questa prospettiva il Concilio Vaticano II ha invitato a perfezionare la
teologia morale in modo che la sua esposizione illustri l'altissima vocazione
che i fedeli hanno ricevuto in Cristo,14 unica risposta che appaga pienamente il
desiderio del cuore umano.
Perché
gli uomini possano realizzare questo « incontro » con Cristo, Dio ha voluto la
sua Chiesa.
Essa, infatti, « desidera servire quest'unico fine: che ogni uomo possa
ritrovare Cristo, perché Cristo possa, con ciascuno, percorrere la strada della
vita ».15 «
Maestro, che cosa devo fare di buono per ottenere la vita eterna? »
(Mt
19,16)
8.
Dalla profondità del cuore sorge la domanda che il giovane ricco rivolge a Gesù
di Nazaret, una domanda essenziale e ineludibile per la vita di ogni uomo: essa
riguarda, infatti, il bene morale da praticare e la vita eterna. L'interlocutore
di Gesù intuisce che esiste una connessione tra il bene morale e il pieno
compimento del proprio destino. Egli è un pio israelita, cresciuto per così
dire all'ombra della Legge del Signore. Se pone questa domanda a Gesù, possiamo
immaginare che non lo faccia perché ignora la risposta contenuta nella Legge.
È più probabile che il fascino della persona di Gesù abbia fatto sorgere in
lui nuovi interrogativi intorno al bene morale. Egli sente l'esigenza di
confrontarsi con Colui che aveva iniziato la sua predicazione con questo nuovo e
decisivo annuncio: « Il tempo è compiuto e il Regno di Dio è vicino;
convertitevi e credete al Vangelo » (Mc
1,15).
Occorre
che l'uomo di oggi si volga nuovamente verso Cristo per avere da Lui la risposta
su ciò che è bene e ciò che è male. Egli
è il Maestro, il Risorto che ha in sé la vita e che è sempre presente nella
sua Chiesa e nel mondo. È Lui che schiude ai fedeli il libro delle Scritture e,
rivelando pienamente la volontà del Padre, insegna la verità sull'agire
morale. Alla sorgente e al vertice dell'economia della salvezza, Alfa e Omega
della storia umana (cf Ap 1,8; 21,6;
22,13), Cristo rivela la condizione dell'uomo e la sua vocazione integrale. Per
questo, « l'uomo che vuol comprendere se stesso fino in fondo non soltanto
secondo immediati, parziali, spesso superficiali, e perfino apparenti criteri e
misure del proprio essere deve, con la sua inquietudine e incertezza ed anche
con la sua debolezza e peccaminosità, con la sua vita e morte, avvicinarsi a
Cristo. Egli deve, per così dire, entrare in Lui con tutto se stesso, deve
"appropriarsi" ed assimilare tutta la realtà dell'Incarnazione e
della Redenzione per ritrovare se stesso. Se in lui si attua questo profondo
processo, allora egli produce frutti non soltanto di adorazione di Dio, ma anche
di profonda meraviglia di se stesso ».16
Se
vogliamo dunque penetrare nel cuore della morale evangelica e coglierne il
contenuto profondo e immutabile, dobbiamo ricercare accuratamente il senso
dell'interrogativo posto dal giovane ricco del Vangelo e, più ancora, il senso
della risposta di Gesù, lasciandoci guidare da Lui. Gesù, infatti, con
delicata attenzione pedagogica, risponde conducendo il giovane quasi per mano,
passo dopo passo, verso la verità piena. «
Uno solo è buono » (Mt
19,17)
9.
Gesù dice: « Perché mi interroghi su ciò che è buono? Uno solo è buono. Se
vuoi entrare nella vita, osserva i comandamenti » (Mt
19, 17). Nella versione degli evangelisti Marco e Luca la domanda viene così
formulata: « Perché mi chiami buono? Nessuno è buono, se non Dio solo » (Mc
10,18; cf Lc 18,19).
Prima
di rispondere alla domanda, Gesù vuole che il giovane chiarisca a se stesso il
motivo per cui lo interroga. Il « Maestro buono » indica al suo interlocutore
— e a tutti noi — che la risposta all'interrogativo: « Che cosa devo fare
di buono per ottenere la vita eterna? », può essere trovata soltanto
rivolgendo la mente e il cuore a Colui che « solo è buono »: « Nessuno è
buono, se non Dio solo » (Mc 10,18; cf Lc 18,19). Solo
Dio può rispondere alla domanda sul bene, perché Egli è il Bene.
Interrogarsi
sul bene,
in effetti, significa rivolgersi in ultima analisi verso Dio, pienezza della
bontà. Gesù mostra che la domanda del giovane è in realtà una domanda
religiosa e che la bontà, che attrae e al tempo stesso vincola l'uomo, ha
la sua fonte in Dio, anzi è Dio stesso, Colui che solo è degno di essere amato
« con tutto il cuore, con tutta l'anima e con tutta la mente » (Mt
22,37), Colui che è la sorgente della felicità dell'uomo. Gesù riporta la
questione dell'azione moralmente buona alle sue radici religiose, al
riconoscimento di Dio, unica bontà, pienezza della vita, termine ultimo
dell'agire umano, felicità perfetta.
10.
La Chiesa, istruita dalle parole del Maestro, crede che l'uomo, fatto a immagine
del Creatore, redento con il sangue di Cristo e santificato dalla presenza dello
Spirito Santo, ha come fine ultimo della
sua vita l'essere « a lode della gloria
» di Dio (cf Ef 1,12), facendo sì
che ognuna delle sue azioni ne rifletta lo splendore. « Conosci dunque te
stessa, o anima bella: tu sei l'immagine
di Dio — scrive sant'Ambrogio —. Conosci te stesso, o uomo: tu sei la gloria di Dio (1 Cor 11,7).
Ascolta in che modo ne sei la gloria. Dice il profeta: La tua scienza è divenuta mirabile provenendo da me (Sal
1381,6), cioè: nella mia opera la tua maestà è più ammirabile, la tua
sapienza viene esaltata nella mente dell'uomo. Mentre considero me stesso, che
tu scruti nei segreti pensieri e negli intimi sentimenti, io riconosco i misteri
della tua scienza. Conosci dunque te stesso, o uomo, quanto grande tu sei e
vigila su di te... ».17
Ciò
che l'uomo è e deve fare si manifesta nel momento in cui Dio rivela se stesso. Il
Decalogo, infatti, si fonda su queste parole: « Io sono il Signore, tuo Dio,
che ti ho fatto uscire dal paese d'Egitto, dalla condizione di schiavitù: non
avrai altri dèi di fronte a me » (Es 20,2-3).
Nelle « dieci parole » dell'Alleanza con Israele, e in tutta la Legge, Dio si
fa conoscere e riconoscere come Colui che « solo è buono »; come Colui che,
nonostante il peccato dell'uomo, continua a rimanere il « modello » dell'agire
morale, secondo la sua stessa chiamata: « Siate santi, perché io, il Signore,
Dio vostro, sono santo » (Lv 19,2);
come Colui che, fedele al suo amore per l'uomo, gli dona la sua Legge (cf Es
19,9-24 e 20, 18-21), per ristabilire l'originaria armonia col Creatore e
con tutto il creato, ed ancor più per introdurlo nel suo amore: « Camminerò
in mezzo a voi, sarò il vostro Dio e voi sarete il mio popolo » (Lv
26,12).
La
vita morale si presenta come risposta dovuta
alle iniziative gratuite che l'amore di Dio moltiplica nei confronti dell'uomo.
È una risposta d'amore, secondo
l'enunciato che del comandamento fondamentale fa il Deuteronomio: « Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, il
Signore è uno solo: Tu amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore, con tutta
l'anima e con tutte le forze. Questi precetti, che oggi ti do, ti stiano fissi
nel cuore; li ripeterai ai tuoi figli » (Dt
6,47). Così, la vita morale, coinvolta nella gratuità dell'amore di Dio,
è chiamata a rifletterne la gloria: « Per chi ama Dio è sufficiente piacere a
Colui che egli ama: poiché non deve ricercarsi nessun'altra ricompensa maggiore
dello stesso amore; la carità, infatti, proviene da Dio in maniera tale che Dio
stesso è carità ».18
11.
L'affermazione che « uno solo è buono » ci rimanda così alla « prima tavola
» dei comandamenti, che chiama a riconoscere Dio come Signore unico e assoluto
e a rendere culto a Lui solo a motivo della sua infinita santità (cf Es
20,2-11). Il bene è appartenere a
Dio, obbedire a Lui, camminare umilmente con Lui praticando la giustizia e
amando la pietà (cf Mic 6,8). Riconoscere il Signore come Dio è il nucleo fondamentale, il cuore
della Legge, da cui discendono e a cui sono ordinati i precetti particolari.
Mediante la morale dei comandamenti si manifesta l'appartenenza del popolo di
Israele al Signore, perché Dio solo è Colui che è buono. Questa è la
testimonianza della Sacra Scrittura, in ogni sua pagina permeata dalla viva
percezione dell'assoluta santità di Dio: « Santo, santo, santo è il Signore
degli eserciti » (Is 6,3).
Ma
se Dio solo è il Bene, nessuno sforzo umano, neppure l'osservanza più rigorosa
dei comandamenti, riesce a « compiere » la Legge, cioè a riconoscere il
Signore come Dio e a rendergli l'adorazione che a Lui solo è dovuta (cf Mt
4,10). Il « compimento » può venire
solo da un dono di Dio: è l'offerta di una partecipazione alla Bontà
divina che si rivela e si comunica in Gesù, colui che il giovane ricco chiama
con le parole « Maestro buono » (Mc 10,17;
Lc 18,18). Ciò che ora il giovane
riesce forse solo a intuire, verrà alla fine pienamente rivelato da Gesù
stesso nell'invito: « Vieni e seguimi » (Mt
19,21). «
Se vuoi entrare nella vita, osserva i comandamenti »
(Mt 19,17)
12.
Solo Dio può rispondere alla domanda sul bene, perché Egli è il Bene. Ma Dio
ha già dato risposta a questa domanda: lo ha fatto creando
l'uomo e ordinandolo con sapienza e con amore al suo fine, mediante la legge
inscritta nel suo cuore (cf Rm 2,15),
la « legge naturale ». Questa « altro non è che la luce dell'intelligenza
infusa in noi da Dio. Grazie ad essa conosciamo ciò che si deve compiere e ciò
che si deve evitare. Questa luce e questa legge Dio l'ha donata nella creazione
».19 Lo ha fatto poi nella storia di
Israele, in particolare con le « dieci parole », ossia con i comandamenti
del Sinai, mediante i quali Egli ha fondato l'esistenza del popolo
dell'Alleanza (cf Es 24) e l'ha
chiamato ad essere la sua « proprietà tra tutti i popoli », « una nazione
santa » (Es 19,56), che facesse
risplendere la sua santità tra tutte le genti (cf Sap
18,4; Ez 20,41). Il dono del
Decalogo è promessa e segno dell'Alleanza
Nuova, quando la legge sarà nuovamente e definitivamente scritta nel cuore
dell'uomo (cf Ger 31, 31-34),
sostituendosi alla legge del peccato, che quel cuore aveva deturpato (cf Ger 17,1). Allora verrà donato « un cuore nuovo » perché in esso
abiterà « uno spirito nuovo », lo Spirito di Dio (cf Ez 36,24-28).20
Per
questo, dopo l'importante precisazione: « Uno solo è buono », Gesù risponde
al giovane: « Se vuoi entrare nella vita, osserva i comandamenti » (Mt
19,17). Viene in tal modo enunciato
uno stretto legame tra la vita eterna e l'obbedienza ai comandamenti di Dio:
sono i comandamenti di Dio che indicano all'uomo la via della vita e ad essa
conducono. Dalla bocca stessa di Gesù, nuovo Mosè, vengono ridonati agli
uomini i comandamenti del Decalogo; egli stesso li conferma definitivamente e li
propone a noi come via e condizione di salvezza. Il comandamento si lega a una promessa: nella Alleanza Antica
oggetto della promessa era il possesso di una terra in cui il popolo avrebbe
potuto condurre un'esistenza nella libertà e secondo giustizia (cf Dt
6,20-25); nella Alleanza Nuova oggetto della promessa è il « Regno dei
cieli », come Gesù afferma all'inizio del « Discorso della Montagna » —
discorso che contiene la formulazione più ampia e completa della Legge Nuova (cf
Mt 5-7) —, in evidente connessione
con il Decalogo affidato da Dio a Mosè sul monte Sinai. Alla medesima realtà
del Regno fa riferimento l'espressione « vita eterna », che è partecipazione
alla vita stessa di Dio: essa si realizza nella sua perfezione solo dopo la
morte, ma nella fede è già fin d'ora luce di verità, sorgente di senso per la
vita, incipiente partecipazione ad una pienezza nella sequela di Cristo. Dice,
infatti, Gesù ai discepoli dopo l'incontro con il giovane ricco: « Chiunque
avrà lasciato case, o fratelli, o sorelle, o padre, o madre, o figli, o campi
per il mio nome, riceverà cento volte tanto e avrà in eredità la vita eterna
» (Mt 19,29).
13.
La risposta di Gesù non basta al giovane, che insiste interrogando il Maestro
circa i comandamenti da osservare: « Ed egli chiese: "Quali?" » (Mt
19,18). Chiede che cosa deve fare nella vita per rendere manifesto il
riconoscimento della santità di Dio. Dopo aver orientato lo sguardo del giovane
verso Dio, Gesù gli ricorda i comandamenti del Decalogo che riguardano il
prossimo: « Gesù rispose: "Non uccidere, non commettere adulterio, non
rubare, non testimoniare il falso, onora il padre e la madre, ama il prossimo
tuo come te stesso » (Mt 19,18-19).
Dal
contesto del colloquio e, specialmente, dal confronto del testo di Matteo con i
passi paralleli di Marco e di Luca, risulta che Gesù non intende elencare tutti
e singoli i comandamenti necessari per « entrare nella vita », ma, piuttosto,
rimandare il giovane alla centralità del
Decalogo rispetto ad ogni altro precetto, quale interpretazione di ciò che
per l'uomo significa « Io sono il Signore, Dio tuo ». Non può sfuggire,
comunque, alla nostra attenzione quali comandamenti della Legge il Signore Gesù
ricorda al giovane: sono alcuni comandamenti che appartengono alla cosiddetta «
seconda tavola » del Decalogo, di cui compendio (cf Rm
13,8-10) e fondamento è il
comandamento dell'amore del prossimo: « Ama il prossimo tuo come te stesso
» (Mt 19,19; cf Mc 12,31). In
questo comandamento si esprime precisamente la
singolare dignità della persona umana, la quale è « la sola creatura che
Dio abbia voluto per se stessa ».21 I diversi comandamenti del Decalogo non
sono in effetti che la rifrazione dell'unico comandamento riguardante il bene
della persona, a livello dei molteplici beni che connotano la sua identità di
essere spirituale e corporeo, in relazione con Dio, col prossimo e col mondo
delle cose. Come leggiamo nel Catechismo
della Chiesa Cattolica, « i dieci comandamenti appartengono alla
rivelazione di Dio. Al tempo stesso ci insegnano la vera umanità dell'uomo.
Mettono in luce i doveri essenziali e, quindi, indirettamente, i diritti
fondamentali inerenti alla natura della persona umana ».22
I
comandamenti, ricordati da Gesù al giovane interlocutore, sono destinati a
tutelare il bene della persona,
immagine di Dio, mediante la protezione dei suoi beni.
« Non uccidere, non commettere adulterio, non rubare, non testimoniare il
falso » sono regole morali formulate in termini di divieto. I precetti negativi
esprimono con particolare forza l'esigenza insopprimibile di proteggere la vita
umana, la comunione delle persone nel matrimonio, la proprietà privata, la
veridicità e la buona fama.
I
comandamenti rappresentano, quindi, la condizione di base per l'amore del
prossimo; essi ne sono al contempo la verifica. Sono la prima
tappa necessaria nel cammino verso la libertà, il suo inizio: « La prima
libertà — scrive sant'Agostino — consiste nell'essere esenti da crimini...
come sarebbero l'omicidio, l'adulterio, la fornicazione, il furto, la frode, il
sacrilegio e così via. Quando uno comincia a non avere questi crimini (e nessun
cristiano deve averli), comincia a levare il capo verso la libertà, ma questo
non è che l'inizio della libertà, non la libertà perfetta... ».23
14.
Ciò non significa, certo, che Gesù intenda dare la precedenza all'amore del
prossimo o addirittura separarlo dall'amore di Dio. Lo testimonia il suo dialogo
col dottore della Legge: questi, che pone una domanda molto simile a quella del
giovane, si sente rimandato da Gesù ai due
comandamenti dell'amore di Dio e dell'amore del prossimo (cf Lc 10, 25-27) e invitato a ricordare che solo la loro osservanza
conduce alla vita eterna: « Fa' questo e vivrai » (Lc 10,28). È comunque significativo che sia proprio il secondo di
questi comandamenti a suscitare la curiosità e l'interrogativo del dottore
della Legge: « Chi è il mio prossimo? » (Lc
10,29). Il Maestro risponde con la parabola del buon Samaritano, la
parabola-chiave per la piena comprensione del comandamento dell'amore del
prossimo (cf Lc 10,30-37).
I
due comandamenti, dai quali « dipende tutta la Legge e i Profeti » (Mt
22,40), sono profondamente uniti tra loro e si compenetrano reciprocamente. La
loro unità inscindibile è testimoniata da Gesù con le parole e con la
vita: la sua missione culmina nella Croce che redime (cf Gv
3,14-15), segno del suo indivisibile amore al Padre e all'umanità (cf Gv
13,1).
Sia
l'Antico che il Nuovo Testamento sono espliciti nell'affermare che senza
l'amore per il prossimo, che si concretizza nell'osservanza dei
comandamenti, non è possibile l'autentico
amore per Dio. Lo scrive con vigore straordinario san Giovanni: « Se uno
dicesse: "Io amo Dio", e odiasse il suo fratello, è un mentitore.
Chi, infatti, non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non
vede » (1 Gv 4,20). L'evangelista fa
eco alla predicazione morale di Cristo, espressa in modo mirabile e
inequivocabile nella parabola del buon Samaritano (cf Lc
10, 19-37) e nel « discorso » sul giudizio finale (cf Mt 25,31-46).
15.
Nel « Discorso della Montagna », che costituisce la magna
charta della morale evangelica,24 Gesù dice: « Non pensate che io sia
venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non sono venuto per abolire, ma per dare
compimento » (Mt 5,17). Cristo è la
chiave delle Scritture: « Voi scrutate le Scritture: esse parlano di me » (cf Gv
5,39); è il centro dell'economia della salvezza, la ricapitolazione
dell'Antico e del Nuovo Testamento, delle promesse della Legge e del loro
compimento nel Vangelo; è il legame vivente ed eterno tra l'Antica e la Nuova
Alleanza. Commentando l'affermazione di Paolo « Il termine della legge è
Cristo » (Rm 10,4), sant'Ambrogio
scrive: « Fine non in quanto mancanza, ma in quanto pienezza della legge:
questa si compie in Cristo (plenitudo
legis in Christo est), dal momento che Egli è venuto non a dissolvere la
legge, ma a portarla a compimento. Allo stesso modo in cui c'è un Testamento
Antico, ma ogni verità sta all'interno del Nuovo Testamento, così avviene per
la legge: quella che è stata data per mezzo di Mosè è figura della vera
legge. Dunque, quella legge mosaica è copia della verità ».25
Gesù
porta a compimento i comandamenti di Dio,
in particolare il comandamento dell'amore del prossimo, interiorizzando
e radicalizzando le sue esigenze: l'amore del prossimo scaturisce da un cuore che ama, e che, proprio perché ama, è disposto a vivere le
esigenze più alte. Gesù mostra che i comandamenti non devono essere intesi
come un limite minimo da non oltrepassare, ma piuttosto come una strada aperta
per un cammino morale e spirituale di perfezione, la cui anima è l'amore (cf Col 3,14). Così il comandamento « Non uccidere » diventa
l'appello ad un amore sollecito che tutela e promuove la vita del prossimo; il
precetto che vieta l'adulterio diventa l'invito ad uno sguardo puro, capace di
rispettare il significato sponsale del corpo: « Avete inteso che fu detto agli
antichi: Non uccidere; chi avrà
ucciso sarà sottoposto a giudizio. Ma io
vi dico: chiunque si adira con il proprio fratello, sarà sottoposto a
giudizio... Avete inteso che fu detto: Non
commettere adulterio; ma io vi dico:
chiunque guarda ad una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei
nel suo cuore » (Mt 5,21-22.27-28). È
Gesù stesso il « compimento » vivo della Legge in quanto egli ne realizza
il significato autentico con il dono totale di sé:
diventa Lui stesso Legge vivente e personale, che invita alla sua sequela, dà
mediante lo Spirito la grazia di condividere la sua stessa vita e il suo stesso
amore e offre l'energia per testimoniarlo nelle scelte e nelle opere (cf Gv 13,34-35). «
Se vuoi essere perfetto »
(Mt 19,21)
16.
La risposta sui comandamenti non soddisfa il giovane, che interroga Gesù: « Ho
sempre osservato tutte queste cose; che
cosa mi manca ancora? » (Mt 19,20).
Non è facile dire con buona coscienza: « ho sempre osservato tutte queste cose
», se appena si comprende l'effettiva portata delle esigenze racchiuse nella
Legge di Dio. E tuttavia, se anche gli è possibile dare una simile risposta, se
anche ha seguito l'ideale morale con serietà e generosità fin dalla
fanciullezza, il giovane ricco sa di essere ancora lontano dalla meta: davanti
alla persona di Gesù avverte che qualcosa ancora gli manca. È alla
consapevolezza di questa insufficienza che si rivolge Gesù nella sua ultima
risposta: cogliendo la nostalgia per una pienezza che superi l'interpretazione legalistica
dei comandamenti, il Maestro buono invita il giovane ad entrare nella
strada della perfezione: « Se vuoi essere perfetto, va', vendi quello che
possiedi, dallo ai poveri e avrai un tesoro nel cielo; poi vieni e seguimi » (Mt
19,21).
Come
già il precedente passo della risposta di Gesù, così anche questo deve essere
letto e interpretato nel contesto di tutto il messaggio morale del Vangelo e,
specialmente, nel contesto del Discorso della Montagna, delle beatitudini (cf Mt 5,3-12), la prima delle quali è proprio la beatitudine dei
poveri, dei « poveri in spirito », come precisa san Matteo (Mt
5,3), ossia degli umili. In tal senso si può dire che anche le beatitudini
rientrano nello spazio aperto dalla risposta che Gesù dà all'interrogativo del
giovane: « Che cosa devo fare di buono per ottenere la vita eterna? ».
Infatti, ogni beatitudine promette, secondo una particolare prospettiva, proprio
quel « bene » che apre l'uomo alla vita eterna, anzi che è la stessa vita
eterna.
Le
beatitudini non
hanno propriamente come oggetto delle norme particolari di comportamento, ma
parlano di atteggiamenti e di disposizioni di fondo dell'esistenza e quindi non coincidono esattamente con i comandamenti. D'altra parte, non
c'è separazione o estraneità tra le beatitudini e i comandamenti: ambedue
si riferiscono al bene, alla vita eterna. Il Discorso della Montagna inizia con
l'annuncio delle beatitudini, ma contiene anche il riferimento ai comandamenti (cf
Mt 5,20-48). Nello stesso tempo, tale
Discorso mostra l'apertura e l'orientamento dei comandamenti alla prospettiva
della perfezione che è propria delle beatitudini. Queste sono, anzitutto,
promesse, da cui derivano in forma indiretta anche indicazioni normative per la vita morale. Nella loro profondità
originale sono una specie di autoritratto
di Cristo e, proprio per questo, sono inviti
alla sua sequela e alla comunione di vita con Lui.26
17.
Non sappiamo quanto il giovane del Vangelo abbia compreso il profondo ed
esigente contenuto della prima risposta data da Gesù: « Se vuoi entrare nella
vita, osserva i comandamenti »; è certo, però, che l'impegno manifestato dal
giovane nel rispetto di tutte le esigenze morali dei comandamenti costituisce
l'indispensabile terreno sul quale può germogliare e maturare il desiderio
della perfezione, cioè della realizzazione del loro significato compiuto nella
sequela di Cristo. Il colloquio di Gesù con il giovane ci aiuta a cogliere le
condizioni per la crescita morale dell'uomo chiamato alla perfezione: il
giovane, che ha osservato tutti i comandamenti, si dimostra incapace con le sole
sue forze di fare il passo successivo. Per farlo occorrono una libertà umana
matura: « Se vuoi », e il dono divino della grazia: « Vieni e seguimi ».
La
perfezione esige quella maturità nel dono di sé, a cui è chiamata la libertà
dell'uomo. Gesù
indica al giovane i comandamenti come la prima condizione irrinunciabile per
avere la vita eterna; l'abbandono di tutto ciò che il giovane possiede e la
sequela del Signore assumono invece il carattere di una proposta: « Se vuoi...
». La parola di Gesù rivela la particolare dinamica della crescita della
libertà verso la sua maturità e, nello stesso tempo, attesta
il fondamentale rapporto della libertà con la legge divina. La libertà
dell'uomo e la legge di Dio non si oppongono, ma, al contrario, si richiamano a
vicenda. Il discepolo di Cristo sa che la sua è una vocazione alla libertà. «
Voi infatti, fratelli, siete stati chiamati a libertà » (Gal 5,13), proclama con gioia e fierezza l'apostolo Paolo. Subito
però precisa: « Purché questa libertà non divenga pretesto per vivere
secondo la carne, ma mediante la carità siate a servizio gli uni degli altri »
(ibid.). La fermezza con la quale
l'Apostolo si oppone a chi affida la propria giustificazione alla Legge, non ha
nulla da spartire con la « liberazione » dell'uomo dai precetti, i quali al
contrario sono al servizio della pratica dell'amore: « Perché chi ama il suo
simile ha adempiuto la legge. Infatti il precetto: Non commettere adulterio, non uccidere, non rubare, non desiderare e
qualsiasi altro comandamento, si riassume in queste parole: Amerai
il prossimo tuo come te stesso » (Rm 13,8-9).
Lo stesso sant'Agostino, dopo aver parlato dell'osservanza dei comandamenti come
della prima imperfetta libertà, così prosegue: « Perché, domanderà
qualcuno, non ancora perfetta? Perché "sento nelle mie membra un'altra
legge in conflitto con la legge della mia ragione"... Libertà parziale,
parziale schiavitù: non ancora completa, non ancora pura, non ancora piena è
la libertà, perché ancora non siamo nell'eternità. In parte conserviamo la
debolezza, e in parte abbiamo raggiunto la libertà. Tutti i nostri peccati nel
battesimo sono stati distrutti, ma è forse scomparsa la debolezza, dopo che è
stata distrutta l'iniquità? Se essa fosse scomparsa, si vivrebbe in terra senza
peccato. Chi oserà affermare questo se non chi è superbo, se non chi è
indegno della misericordia del liberatore?... Ora siccome è rimasta in noi
qualche debolezza, oso dire che nella misura in cui serviamo Dio siamo liberi,
mentre nella misura in cui seguiamo la legge del peccato siamo schiavi ».27
18.
Chi vive « secondo la carne » sente la legge di Dio come un peso, anzi come
una negazione o comunque una restrizione della propria libertà. Chi, invece, è
animato dall'amore e « cammi- na secondo lo Spirito » (Gal
5,16) e desidera servire gli altri trova nella legge di Dio la via
fondamentale e necessaria per praticare l'amore liberamente scelto e vissuto.
Anzi, egli avverte l'urgenza interiore — una vera e propria « necessità »,
e non già una costrizione — di non fermarsi alle esigenze minime della legge,
ma di viverle nella loro « pienezza ». È un cammino ancora incerto e fragile
fin che siamo sulla terra, ma reso possibile dalla grazia che ci dona di
possedere la piena libertà dei figli di Dio (cf Rm
8, 21) e quindi di rispondere nella vita morale alla sublime vocazione di
essere « figli nel Figlio ».
Questa
vocazione all'amore perfetto non è riservata solo ad una cerchia di persone. L'invito
« va', vendi quello che possiedi, dàllo ai poveri » con la promessa «
avrai un tesoro nel cielo »riguarda
tutti, perché è una radicalizzazione del comandamento dell'amore del
prossimo, come il successivo invito « vieni e seguimi » è la nuova forma
concreta del comandamento dell'amore di Dio. I comandamenti e l'invito di Gesù
al giovane ricco sono al servizio di un'unica e indivisibile carità, che
spontaneamente tende alla perfezione, la cui misura è Dio solo: « Siate voi
dunque perfetti, come è perfetto il Padre vostro celeste » (Mt
5,48). Nel Vangelo di Luca Gesù precisa ulteriormente il senso di questa
perfezione: « Siate misericordiosi, come è misericordioso il Padre vostro » (Lc
6,36). «
Vieni e seguimi » (Mt
19,21)
19.
La via e, nello stesso tempo, il contenuto di questa perfezione consiste nella sequela Christi, nel seguire Gesù, dopo aver rinunciato ai propri
beni e a se stessi. Proprio questa è la conclusione del colloquio di Gesù con
il giovane: « Poi vieni e seguimi » (Mt 19,21).
È un invito la cui meravigliosa profondità sarà pienamente percepita dai
discepoli dopo la risurrezione di Cristo, quando lo Spirito Santo li guiderà
alla verità tutta intera (cf Gv 16,13).
È
Gesù stesso che prende l'iniziativa e chiama a seguirlo. L'appello è rivolto
innanzi tutto a coloro ai quali egli affida una particolare missione, a
cominciare dai Dodici; ma appare anche chiaro che essere discepoli di Cristo è
la condizione di ogni credente (cf At 6,1).
Per questo, seguire Cristo è il
fondamento essenziale e originale della morale cristiana: come il popolo
d'Israele seguiva Dio che lo conduceva nel deserto verso la Terra promessa (cf Es 13,21), così il discepolo deve seguire Gesù, verso il quale il
Padre stesso lo attira (cf Gv 6,44).
Non
si tratta qui soltanto di mettersi in ascolto di un insegnamento e di accogliere
nell'obbedienza un comandamento. Si tratta, più radicalmente, di aderire
alla persona stessa di Gesù, di condividere la sua vita e il suo destino,
di partecipare alla sua obbedienza libera e amorosa alla volontà del Padre.
Seguendo, mediante la risposta della fede, colui che è la Sapienza incarnata,
il discepolo di Gesù diventa veramente discepolo
di Dio (cf Gv 6,45). Gesù,
infatti, è la luce del mondo, la luce della vita (cf Gv 8,12); è il pastore che guida e nutre le pecore (cf Gv
10,11-16), è la via, la verità e la vita (cf Gv
14,6), è colui che conduce al Padre, al punto che vedere lui, il Figlio, è
vedere il Padre (cf Gv 14,6-10).
Pertanto imitare il Figlio, « l'immagine del Dio invisibile » (Col
1,15), significa imitare il Padre.
20.
Gesù chiede di seguirlo e di imitarlo
sulla strada dell'amore, di un amore che si dona totalmente ai fratelli per
amore di Dio: « Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli
altri, come io vi ho amati » (Gv 15,12).
Questo « come » esige l'imitazione di
Gesù, del suo amore di cui la lavanda dei piedi è segno: « Se dunque io, il
Signore e il Maestro, ho lavato i vostri piedi, anche voi dovete lavarvi i piedi
gli uni gli altri. Vi ho dato infatti l'esempio, perché come
ho fatto io, facciate anche voi » (Gv
13,14-15). L'agire di Gesù e la sua parola, le sue azioni e i suoi precetti
costituiscono la regola morale della vita cristiana. Infatti, queste sue azioni
e, in modo particolare, la passione e la morte in croce, sono la viva
rivelazione del suo amore per il Padre e per gli uomini. Proprio questo amore
Gesù chiede che sia imitato da quanti lo seguono. Esso è il
comandamento « nuovo »: « Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli
uni gli altri; come io vi ho amato,
così amatevi anche voi gli uni gli altri. Da questo tutti sapranno che siete
miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri » (Gv
13,34-35).
Questo
« come » indica anche la misura con
la quale Gesù ha amato, e con la quale devono amarsi tra loro i suoi discepoli.
Dopo aver detto: « Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli
altri, come io vi ho amati » (Gv 15,12),
Gesù prosegue con le parole che indicano il dono sacrificale della sua vita
sulla croce, quale testimonianza di un amore « sino alla fine » (Gv
13,1): « Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i
propri amici » (Gv 15,13).
Chiamando
il giovane a seguirlo sulla strada della perfezione, Gesù gli chiede di essere
perfetto nel comandamento dell'amore, nel « suo » comandamento: di inserirsi
nel movimento della sua donazione totale, di imitare e di rivivere l'amore
stesso del Maestro « buono », di colui che ha amato « sino alla fine ». È
quanto Gesù chiede ad ogni uomo che vuole mettersi alla sua sequela: « Se
qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi
segua » (Mt 16,24).
21.
Seguire Cristo non è una imitazione
esteriore, perché tocca l'uomo nella sua profonda interiorità. Essere
discepoli di Gesù significa essere resi conformi a Lui, che si è fatto servo fino al dono di sé
sulla croce (cf Fil 2,5-8). Mediante
la fede, Cristo abita nel cuore del credente (cf Ef 3,17), e così il discepolo è assimilato al suo Signore e a Lui
configurato. Questo è frutto della
grazia, della presenza operante dello Spirito Santo in noi.
Inserito
in Cristo, il cristiano diventa membro del
suo Corpo, che è la Chiesa (cf 1 Cor 12,13.27).
Sotto l'impulso dello Spirito, il Battesimo configura radicalmente il fedele a
Cristo nel mistero pasquale della morte e risurrezione, lo « riveste » di
Cristo (cf Gal 3,27): « Rallegriamoci
e ringraziamo — esclama sant'Agostino rivolgendosi ai battezzati —: siamo
diventati non solo cristiani, ma Cristo (...). Stupite e gioite: Cristo siamo
diventati! ».28 Morto al peccato, il battezzato riceve la vita nuova (cf Rm 6,3-11): vivente per Dio in Cristo Gesù, è chiamato a camminare
secondo lo Spirito e a manifestarne nella vita i frutti (cf Gal
5,16-25). La partecipazione poi all'Eucaristia, sacramento della Nuova
Alleanza (cf 1 Cor 11,23-29), è vertice dell'assimilazione a Cristo, fonte di «
vita eterna » (cf Gv 6,51-58),
principio e forza del dono totale di sé, di cui Gesù secondo la testimonianza
tramandata da Paolo comanda di far memoria nella celebrazione e nella vita: «
Ogni volta che mangiate di questo pane e bevete di questo calice, voi annunziate
la morte del Signore finché egli venga » (1 Cor 11,26). «
A Dio tutto è possibile »
(Mt 19,26)
22.
Amara è la conclusione del colloquio di Gesù con il giovane ricco: « Udito
questo, il giovane se ne andò triste; poiché aveva molte ricchezze » (Mt
19,22). Non solo l'uomo ricco, ma anche gli stessi discepoli sono spaventati
dall'appello di Gesù alla sequela, le cui esigenze superano le aspirazioni e le
forze umane: « A queste parole i discepoli rimasero costernati e chiesero:
"Chi si potrà dunque salvare?" » (Mt
19,25). Ma il Maestro rimanda alla
potenza di Dio: « Questo è impossibile agli uomini, ma a Dio tutto è
possibile » (Mt 19,26).
Nel
medesimo capitolo del Vangelo di Matteo (19,3-10), Gesù, interpretando la Legge
mosaica sul matrimonio, rifiuta il diritto al ripudio, richiamando ad un «
principio » più originario e più autorevole rispetto alla Legge di Mosè: il
disegno nativo di Dio sull'uomo, un disegno al quale l'uomo dopo il peccato è
diventato inadeguato: « Per la durezza del vostro cuore Mosè vi ha permesso di
ripudiare le vostre mogli, ma da principio non fu così » (Mt
19,8). Il richiamo al « principio » sgomenta i discepoli, che commentano con
queste parole: « Se questa è la condizione dell'uomo rispetto alla donna, non
conviene sposarsi » (Mt 19,10). E Gesù,
riferendosi in modo specifico al carisma del celibato « per il Regno dei cieli
» (Mt 19,12), ma enunciando una
regola generale, rimanda alla nuova e sorprendente possibilità aperta all'uomo
dalla grazia di Dio: « Egli rispose loro: "Non tutti possono capirlo, ma
solo coloro ai quali è stato concesso" » (Mt 19,11).
Imitare
e rivivere l'amore di Cristo non è possibile all'uomo con le sole sue forze.
Egli diventa capace di questo amore soltanto in virtù di un dono ricevuto. Come
il Signore Gesù riceve l'amore del Padre suo, così egli a sua volta lo
comunica gratuitamente ai discepoli: « Come il Padre ha amato me, così anch'io
ho amato voi. Rimanete nel mio amore » (Gv
15,9). Il dono di Cristo è il suo
Spirito, il cui primo « frutto » (cf Gal
5,22) è la carità: « L'amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori
per mezzo dello Spirito Santo, che ci è stato dato » (Rm
5,5). Sant'Agostino si chiede: « È l'amore che ci fa osservare i
comandamenti, oppure è l'osservanza dei comandamenti che fa nascere l'amore? ».
E risponde: « Ma chi può mettere in dubbio che l'amore precede l'osservanza?
Chi infatti non ama è privo di motivazioni per osservare i comandamenti ».29
23.
« La legge dello Spirito che dà vita in Cristo Gesù ti ha liberato dalla
legge del peccato e della morte » (Rm 8,2).
Con queste parole l'apostolo Paolo ci introduce a considerare nella prospettiva
della storia della Salvezza che si compie in Cristo
il rapporto tra la Legge (antica) e la
grazia (Legge nuova). Egli riconosce il ruolo pedagogico della Legge, la
quale, permettendo all'uomo peccatore di misurare la sua impotenza e
togliendogli la presunzione dell'autosufficienza, lo apre all'invocazione e
all'accoglienza della « vita nello Spirito ». Solo in questa vita nuova è
possibile la pratica dei comandamenti di Dio. Infatti, è per la fede in Cristo
che noi siamo resi giusti (cf Rm 3,28):
la « giustizia » che la Legge esige, ma non può dare a nessuno, ogni credente
la trova manifestata e concessa dal Signore Gesù. Così mirabilmente ancora
sant'Agostino sintetizza la dialettica paolina di legge e grazia: « La legge,
perciò, è stata data perché si invocasse la grazia; la grazia è stata data
perché si osservasse la legge ».30
L'amore
e la vita secondo il Vangelo non possono essere pensati prima di tutto nella
forma del precetto, perché ciò che essi domandano va al di là delle forze
dell'uomo: essi sono possibili solo come frutto di un dono di Dio, che risana e
guarisce e trasforma il cuore dell'uomo per mezzo della sua grazia: « Perché
la legge fu data per mezzo di Mosè, la grazia e la verità vennero per mezzo di
Gesù Cristo » (Gv 1,17). Per questo la promessa della vita eterna è legata al dono
della grazia, e il dono dello Spirito che abbiamo ricevuto è già « caparra
della nostra eredità » (Ef 1,14).
24.
Si rivela così il volto autentico e originale del comandamento dell'amore e
della perfezione alla quale esso è ordinato: si tratta di una possibilità
aperta all'uomo esclusivamente dalla grazia, dal dono di Dio, dal suo amore.
D'altra parte, proprio la coscienza di aver ricevuto il dono, di possedere in
Gesù Cristo l'amore di Dio, genera e sostiene la risposta responsabile di un amore pieno verso Dio e tra i
fratelli, come con insistenza ricorda l'apostolo Giovanni nella sua prima Lettera:
« Carissimi, amiamoci gli uni gli altri, perché l'amore è da Dio:
chiunque ama è generato da Dio e conosce Dio. Chi non ama non ha conosciuto
Dio, perché Dio è amore... Carissimi, se Dio ci ha amato, anche noi dobbiamo
amarci gli uni gli altri... Noi amiamo, perché egli ci ha amati per primo » (1
Gv 4,7-8.11.19).
Questa
connessione inscindibile tra la grazia del Signore e la libertà dell'uomo, tra
il dono e il compito, è stata espressa in termini semplici e profondi da
sant'Agostino, che così prega: « Da quod
iubes et iube quod vis » (dona ciò che comandi e comanda ciò che vuoi).31
Il
dono non diminuisce, ma rafforza l'esigenza morale dell'amore: «
Questo è il suo comandamento: che crediamo nel nome del Figlio suo Gesù Cristo
e ci amiamo gli uni gli altri, secondo il precetto che ci ha dato » (1
Gv 3,23). Si può « rimanere » nell'amore solo a condizione di osservare i
comandamenti, come afferma Gesù: « Se osserverete i miei comandamenti,
rimarrete nel mio amore, come io ho osservato i comandamenti del Padre mio e
rimango nel suo amore » (Gv 15,10).
Raccogliendo
quanto è al cuore del messaggio morale di Gesù e della predicazione degli
Apostoli, e riproponendo in una sintesi mirabile la grande tradizione dei Padri
d'Oriente e d'Occidente — in particolare di sant'Agostino — 32 san Tommaso
ha potuto scrivere che la Legge Nuova è
la grazia dello Spirito Santo donata mediante la fede in Cristo.33 I
precetti esterni, di cui pure il Vangelo parla, dispongono a questa grazia o ne
dispiegano gli effetti nella vita. Infatti, la Legge Nuova non si contenta di
dire ciò che si deve fare, ma dona anche la forza di « fare la verità » (cf Gv
3,21). Nello stesso tempo san Giovanni Crisostomo ha osservato che la Legge
Nuova fu promulgata proprio quando lo Spirito Santo discese dal cielo nel giorno
di Pentecoste e che gli Apostoli « non discesero dal monte portando, come Mosè,
delle tavole di pietra nelle loro mani; ma se ne venivano portando lo Spirito
Santo nei loro cuori..., divenuti mediante la sua grazia una legge viva, un
libro animato ».34 «
Ecco, io sono con voi tutti i giorni, sino alla fine del mondo »
(Mt 28,20)
25.
Il colloquio di Gesù con il giovane ricco continua, in un certo senso, in
ogni epoca della storia, anche oggi. La domanda: « Maestro, che cosa devo
fare di buono per ottenere la vita eterna? » sboccia nel cuore di ogni uomo, ed
è sempre e solo Cristo a offrire la risposta piena e risolutiva. Il Maestro,
che insegna i comandamenti di Dio, che invita alla sequela e dà la grazia per
una vita nuova, è sempre presente e operante in mezzo a noi, secondo la
promessa: « Ecco, io sono con voi tutti i giorni, sino alla fine del mondo » (Mt
28,20). La contemporaneità di Cristo all'uomo di ogni tempo si realizza nel suo
corpo, che è la Chiesa. Per questo il Signore promise ai suoi discepoli lo
Spirito Santo, che avrebbe loro « ricordato » e fatto comprendere i suoi
comandamenti (cf Gv 14,26) e sarebbe
stato il principio sorgivo di una vita nuova nel mondo (cf Gv 3,5-8; Rm 8,1-13).
Le
prescrizioni morali, impartite da Dio nell'Antica Alleanza e giunte alla loro
perfezione in quella Nuova ed Eterna nella persona stessa del Figlio di Dio
fatto uomo, devono essere fedelmente
custodite e permanentemente attualizzate nelle differenti culture lungo il
corso della storia. Il compito della loro interpretazione è stato affidato da
Gesù agli Apostoli e ai loro successori, con l'assistenza speciale dello
Spirito di verità: « Chi ascolta voi ascolta me » (Lc
10,16). Con la luce e la forza di questo Spirito gli Apostoli hanno
adempiuto la missione di predicare il Vangelo e di indicare la « via » del
Signore (cf At 18,25), insegnando
anzitutto la sequela e l'imitazione di Cristo: « Per me il vivere è Cristo »
(Fil 1,21).
26.
Nella catechesi morale degli Apostoli, accanto ad esortazioni e ad
indicazioni legate al contesto storico e culturale, c'è un insegnamento etico
con precise norme di comportamento. È quanto emerge nelle loro Lettere,
che contengono l'interpretazione, guidata dallo Spirito Santo, dei precetti
del Signore da vivere nelle diverse circostanze culturali (cf Rm 12-15; 1 Cor 11-14; Gal
5-6; Ef 4-6; Col 3-4; 1
Pt e Gc). Incaricati di predicare il Vangelo, gli Apostoli fin dalle
origini della Chiesa, in virtù della loro responsabilità pastorale, hanno
vegliato sulla rettitudine della condotta dei cristiani,35 allo stesso modo
in cui hanno vegliato sulla purezza della fede e sulla trasmissione dei doni
divini mediante i Sacramenti.36 I primi cristiani, provenienti sia dal popolo
giudaico sia dalle nazioni, differivano dai pagani non solo per la loro fede e
per la loro liturgia, ma anche per la testimonianza della loro condotta morale,
ispirata alla Legge Nuova.37 La Chiesa, infatti, è insieme comunione di fede e
di vita; la sua norma è « la fede che opera per mezzo della carità » (Gal
5,6).
Nessuna
lacerazione deve attentare all'armonia tra
la fede e la vita: l'unità della Chiesa è ferita non solo dai cristiani
che rifiutano o stravolgono le verità della fede, ma anche da quelli che
misconoscono gli obblighi morali a cui li chiama il Vangelo (cf 1
Cor 5,9-13). Con decisione gli Apostoli hanno rifiutato ogni dissociazione
tra l'impegno del cuore e i gesti che lo esprimono e verificano (cf 1 Gv 2,3-6). E fin dai tempi apostolici i Pastori della Chiesa hanno
denunciato con chiarezza i modi di agire di coloro che erano fautori di
divisione con i loro insegnamenti o con i loro comportamenti.38
27.
Promuovere e custodire, nell'unità della Chiesa, la fede e la vita morale è il
compito affidato da Gesù agli Apostoli (cf
Mt 28,19-20), che prosegue nel ministero dei loro successori. È quanto si
ritrova nella viva Tradizione, mediante la quale — come insegna il Concilio
Vaticano II — « la Chiesa, nella sua dottrina, nella sua vita e nel suo
culto, perpetua e trasmette a tutte le generazioni tutto ciò che essa è, tutto
ciò che essa crede. Questa Tradizione, che trae origine dagli Apostoli,
progredisce nella Chiesa sotto l'assistenza dello Spirito Santo ».39 Nello
Spirito la Chiesa accoglie e trasmette la Scrittura come testimonianza delle «
grandi cose » che Dio opera nella storia (cf Lc
1,49), confessa per bocca dei Padri e dei Dottori la verità del Verbo fatto
carne, ne mette in pratica i precetti e la carità nella vita dei Santi e delle
Sante e nel sacrificio dei Martiri, ne celebra la speranza nella Liturgia:
mediante la stessa Tradizione i cristiani ricevono « la viva voce del Vangelo
»,40 come espressione fedele della sapienza e della volontà divina.
All'interno
della Tradizione si sviluppa, con l'assistenza dello Spirito Santo, l'interpretazione
autentica della legge del Signore. Lo stesso Spirito, che è all'origine
della Rivelazione dei comandamenti e degli insegnamenti di Gesù, garantisce che
vengano santamente custoditi, fedelmente esposti e correttamente applicati nel
variare dei tempi e delle circostanze. Questa « attualizzazione » dei
comandamenti è segno e frutto di una più profonda penetrazione della
Rivelazione e di una comprensione alla luce della fede delle nuove situazioni
storiche e culturali. Essa, tuttavia, non può che confermare la permanente
validità della Rivelazione e inserirsi nel solco dell'interpretazione che ne dà
la grande Tradizione di insegnamento e di vita della Chiesa, di cui sono
testimoni la dottrina dei Padri, la vita dei Santi, la liturgia della Chiesa e
l'insegnamento del Magistero.
In
particolare, poi, come afferma il Concilio, «
l'ufficio d'interpretare autenticamente la parola di Dio scritta o trasmessa è
stato affidato al solo Magistero vivo della Chiesa, la cui autorità è
esercitata nel nome di Gesù Cristo ».41 In tal modo la Chiesa, nella sua
vita e nel suo insegnamento, si presenta come « colonna e sostegno della verità
» (1 Tm 3,15), anche della verità circa l'agire morale. Infatti, « è
compito della Chiesa annunziare sempre e dovunque i principi morali anche circa
l'ordine sociale, e così pure pronunciare il giudizio su qualsiasi realtà
umana, in quanto lo esigano i diritti fondamentali della persona umana o la
salvezza delle anime ».42
Proprio
sulle domande che caratterizzano oggi la discussione morale e intorno alle quali
si sono sviluppate nuove tendenze e teorie, il Magistero, in fedeltà a Gesù
Cristo e in continuità con la tradizione della Chiesa, sente più urgente il
dovere di offrire il proprio discernimento e insegnamento, per aiutare l'uomo
nel suo cammino verso la verità e la libertà.
CAPITOLO II «
NON CONFORMATEVI ALLA MENTALITÀ
La
chiesa e il discernimento di alcune tendenze della teologia morale odierna
Insegnare
ciò che è secondo la sana dottrina
(cf Tt 2,1)
28.
La meditazione del dialogo tra Gesù e il giovane ricco ci ha permesso di
raccogliere i contenuti essenziali della Rivelazione dell'Antico e del Nuovo
Testamento circa l'agire morale. Essi sono: la subordinazione
dell'uomo e del suo agire a Dio, Colui che « solo è buono »; il rapporto tra il bene morale degli atti umani e la vita eterna; la sequela
di Cristo, che apre all'uomo la prospettiva dell'amore perfetto; ed infine
il dono dello Spirito Santo, fonte e
risorsa della vita morale della « creatura nuova » (cf 2 Cor 5,17).
Nella
sua riflessione morale la Chiesa ha
sempre avuto presenti le parole che Gesù ha rivolto al giovane ricco. La Sacra
Scrittura, infatti, rimane la sorgente viva e feconda della dottrina morale
della Chiesa, come ha ricordato il Concilio Vaticano II: « Il Vangelo 1...
fonte di ogni verità salutare e di ogni regola morale ».43 Essa ha custodito
fedelmente ciò che la parola di Dio insegna, non solo circa le verità da
credere, ma anche circa l'agire morale, cioè l'agire che piace a Dio (cf 1 Ts 4,1), realizzando uno sviluppo
dottrinale analogo a quello che si è avuto nell'ambito delle verità della
fede. Assistita dallo Spirito Santo che la guida alla verità tutta intera (cf Gv
16,13), la Chiesa non ha cessato, e non può mai cessare, di scrutare il «
mistero del Verbo incarnato », nel quale « trova vera luce il mistero
dell'uomo ».44
29.
La riflessione morale della Chiesa, operata sempre nella luce di Cristo, il «
Maestro buono », si è sviluppata anche nella forma specifica della scienza
teologica, detta « teologia morale »,
una scienza che accoglie e interroga la rivelazione divina e insieme risponde
alle esigenze della ragione umana. La teologia morale è una riflessione che
riguarda la « moralità », ossia il bene e il male degli atti umani e della
persona che li compie, e in tal senso è aperta a tutti gli uomini; ma è anche
« teologia », in quanto riconosce il principio e il fine dell'agire morale in
Colui che « solo è buono » e che, donandosi all'uomo in Cristo, gli offre la
beatitudine della vita divina.
Il
Concilio Vaticano II ha invitato gli studiosi a porre
« speciale cura nel perfezionare la teologia morale in modo che la sua
esposizione scientifica, maggiormente fondata sulla Sacra Scrittura, illustri
l'altezza della vocazione dei fedeli in Cristo e il loro obbligo di apportare
frutto nella carità per la vita del mondo ».45 Lo stesso Concilio ha invitato
i teologi, « nel rispetto dei metodi e delle esigenze proprie della scienza
teologica, a ricercare modi sempre più
adatti di comunicare la dottrina agli uomini della loro epoca, perché altro
è il deposito o le verità della fede, altro è il modo con cui vengono
enunciate, rimanendo pur sempre lo stesso il significato e il senso profondo ».46
Di qui l'ulteriore invito, esteso a tutti i fedeli, ma rivolto in particolare ai
teologi: « I fedeli dunque vivano in strettissima unione con gli uomini del
loro tempo, e si sforzino di penetrare perfettamente il loro modo di pensare e
di sentire, di cui la cultura è espressione ».47
Lo
sforzo di molti teologi, sostenuti dall'incoraggiamento del Concilio, ha già
dato i suoi frutti con interessanti e utili riflessioni intorno alle verità
della fede da credere e da applicare nella vita, presentate in forma più
corrispondente alla sensibilità e agli interrogativi degli uomini del nostro
tempo. La Chiesa e, in particolare, i Vescovi, ai quali Gesù Cristo ha affidato
innanzitutto il servizio dell'insegnamento, accolgono con gratitudine tale
sforzo ed incoraggiano i teologi a un ulteriore lavoro, animato da un profondo e
autentico timore del Signore, che è il principio della sapienza (cf Prv 1,7).
Nello
stesso tempo, nell'ambito delle discussioni teologiche postconciliari si sono
sviluppate però alcune interpretazioni
della morale cristiana che non sono compatibili con la « sana dottrina » (2
Tm 4,3). Certamente il Magistero della Chiesa non intende imporre ai fedeli
nessun particolare sistema teologico né tanto meno filosofico, ma, per «
custodire santamente ed esporre fedelmente » la Parola di Dio,48 esso ha il
dovere di dichiarare l'incompatibilità di certi orientamenti del pensiero
teologico o di talune affermazioni filosofiche con la verità rivelata.49
30.
Rivolgendomi con questa Enciclica a voi, Confratelli nell'Episcopato, intendo
enunciare i principi necessari per il discernimento di ciò che è contrario alla
« sana dottrina », richiamando quegli elementi dell'insegnamento morale
della Chiesa che sembrano oggi particolarmente esposti all'errore, all'ambiguità
o alla dimenticanza. Sono, peraltro, gli elementi dai quali dipende « la
risposta agli oscuri enigmi della condizione umana che ieri come oggi turbano
profondamente il cuore dell'uomo: la natura dell'uomo, il senso e il fine della
nostra vita, il bene e il peccato, l'origine e il fine del dolore, la via per
raggiungere la vera felicità, la morte, il giudizio e la sanzione dopo la
morte, infine l'ultimo e ineffabile mistero che circonda la nostra esistenza,
dal quale noi traiamo origine e verso il quale tendiamo ».50
Questi
e altri interrogativi, come: cosa è la libertà e qual è la sua relazione con
la verità contenuta nella legge di Dio? qual è il ruolo della coscienza nella
formazione del profilo morale dell'uomo? come discernere, in conformità con la
verità sul bene, i diritti e i doveri concreti della persona umana?, si possono
riassumere nella fondamentale domanda che
il giovane del Vangelo pose a Gesù: « Maestro, che cosa devo fare di buono per
ottenere la vita eterna? ». Inviata da Gesù a predicare il Vangelo e ad «
ammae- strare tutte le nazioni..., insegnando loro ad osservare tutto ciò »
che egli ha comandato (cf Mt 28,19-20),la
Chiesa ripropone, ancora oggi, la risposta del Maestro: questa possiede una
luce e una forza capaci di risolvere anche le questioni più discusse e
complesse. Questa stessa luce e forza sollecitano la Chiesa a sviluppare
costantemente la riflessione non solo dogmatica, ma anche morale in un ambito
interdisciplinare, così com'è necessario specialmente per i nuovi problemi.51
È
sempre in questa medesima luce e forza che il
Magistero della Chiesa compie la sua opera di discernimento, accogliendo e
rivivendo il monito che l'apostolo Paolo rivolgeva a Timoteo: « Ti scongiuro
davanti a Dio e a Cristo Gesù che verrà a giudicare i vivi e i morti, per la
sua manifestazione e il suo regno: annunzia la parola, insisti in ogni occasione
opportuna e non opportuna, ammonisci, rimprovera, esorta con ogni magnanimità e
dottrina. Verrà giorno, infatti, in cui non si sopporterà più la sana
dottrina, ma, per il prurito di udire qualcosa, gli uomini si circonderanno di
maestri secondo le proprie voglie, rifiutando di dare ascolto alla verità per
volgersi alle favole. Tu però vigila attentamente, sappi sopportare le
sofferenze, compi la tua opera di annunziatore del Vangelo, adempi il tuo
ministero » (2 Tm 4,1-5; cf Tt 1,10.13-14). «
Conoscerete la verità e la verità vi farà liberi »
(Gv 8,32)
31.
I problemi umani più dibattuti e diversamente risolti nella riflessione morale
contemporanea si ricollegano, sia pure in vari modi, ad un problema cruciale:
quello della libertà dell'uomo.
Non
c' è dubbio che il nostro tempo ha acquisito una percezione particolarmente
viva della libertà. « In questa nostra età gli uomini diventano sempre più
consapevoli della dignità della persona umana », come costatava già la
dichiarazione conciliareDignitatis humanae sulla libertà religiosa.52 Da qui l'esigenza che
« gli uomini nell'agire seguano la loro iniziativa e godano di una libertà
responsabile, non mossi da coercizione bensì guidati dalla coscienza del dovere
».53 In particolare il diritto alla libertà religiosa e al rispetto della
coscienza nel suo cammino verso la verità è sentito sempre più come
fondamento dei diritti della persona, considerati nel loro insieme.54
Così,
il senso più acuto della dignità della persona umana e della sua unicità,
come anche del rispetto dovuto al cammino della coscienza, costituisce
certamente un'acquisizione positiva della cultura moderna. Questa percezione, in
se stessa autentica, ha trovato molteplici espressioni, più o meno adeguate, di
cui alcune però si discostano dalla verità sull'uomo come creatura e immagine
di Dio ed esigono pertanto di essere corrette o purificate alla luce della
fede.55
32.
In alcune correnti del pensiero moderno si è giunti adesaltare
la libertà al punto da farne un assoluto, che sarebbe la sorgente dei valori.
In questa direzione si muovono le dottrine che perdono il senso della
trascendenza o quelle che sono esplicitamente atee. Si sono attribuite alla
coscienza individuale le prerogative di un'istanza suprema del giudizio morale,
che decide categoricamente e infallibilmente del bene e del male.
All'affermazione del dovere di seguire la propria coscienza si è indebitamente
aggiunta l'affermazione che il giudizio morale è vero per il fatto stesso che
proviene dalla coscienza. Ma, in tal modo, l'imprescindibile esigenza di verità
è scomparsa, in favore di un criterio di sincerità, di autenticità, di «
accordo con se stessi », tanto che si è giunti ad una concezione radicalmente
soggettivista del giudizio morale.
Come
si può immediatamente comprendere, non è estranea a questa evoluzione la
crisi intorno alla verità. Persa l'idea di una verità universale sul bene,
conoscibile dalla ragione umana, è inevitabilmente cambiata anche la concezione
della coscienza: questa non è più considerata nella sua realtà originaria,
ossia un atto dell'intelligenza della persona, cui spetta di applicare la
conoscenza universale del bene in una determinata situazione e di esprimere così
un giudizio sulla condotta giusta da scegliere qui e ora; ci si è orientati a
concedere alla coscienza dell'individuo il privilegio di fissare, in modo
autonomo, i criteri del bene e del male e agire di conseguenza. Tale visione fa
tutt'uno con un'etica individualista, per la quale ciascuno si trova confrontato
con la sua verità, differente dalla
verità degli altri. Spinto alle estreme conseguenze, l'individualismo sfocia
nella negazione dell'idea stessa di natura umana.
Queste
differenti concezioni sono all'origine degli orientamenti di pensiero che
sostengono l'antinomia tra legge morale e coscienza, tra natura e libertà.
33.
Parallelamente all'esaltazione della
libertà, e paradossalmente in contrasto con essa, la
cultura moderna mette radicalmente in questione questa medesima libertà. Un
insieme di discipline, raggruppate sotto il nome di « scienze umane », hanno
giustamente attirato l'attenzione sui condizionamenti di ordine psicologico e
sociale, che pesano sull'esercizio della libertà umana. La conoscenza di tali
condizionamenti e l'attenzione che viene loro prestata sono acquisizioni
importanti, che hanno trovato applicazione in diversi ambiti dell'esistenza,
come per esempio nella pedagogia o nell'amministrazione della giustizia. Ma
alcuni, superando le conclusioni che si possono legittimamente trarre da queste
osservazioni, sono arrivati al punto di mettere in dubbio o di negare la realtà
stessa della libertà umana.
Si
devono anche ricordare alcune interpretazioni abusive dell'indagine scientifica
a livello antropologico. Traendo argomento dalla grande varietà dei costumi,
delle abitudini e delle istituzioni presenti nell'umanità, si conclude, se non
sempre con la negazione di valori umani universali, almeno con una concezione
relativistica della morale.
34.
« Maestro, che cosa devo fare di buono per ottenere la vita eterna? ». La
domanda morale, alla quale Cristo risponde, non può prescindere dalla questione della libertà, anzi la colloca al
suo centro, perché non si dà morale senza libertà: « L'uomo può
volgersi al bene soltanto nella libertà ».56 Ma
quale libertà? Il Concilio, di fronte ai nostri contemporanei che « tanto
tengono » alla libertà e che la « cercano ardentemente » ma che « spesso la
coltivano in malo modo, quasi sia lecito tutto purché piaccia, compreso il male
», presenta la « vera » libertà: «
La vera libertà è nell'uomo segno
altissimo dell'immagine divina. Dio volle, infatti, lasciare l'uomo "in
mano al suo consiglio" (cf Sir 15,14),
così che esso cerchi spontaneamente il suo Creatore, e giunga liberamente, con
la adesione a lui, alla piena e beata perfezione ».57 Se esiste il diritto di
essere rispettati nel proprio cammino di ricerca della verità, esiste ancor
prima l'obbligo morale grave per ciascuno di cercare la verità e di aderirvi
una volta conosciuta.58 In tal senso il Card. J. H. Newman, eminente assertore
dei diritti della coscienza, affermava con decisione: « La coscienza ha dei
diritti perché ha dei doveri ».59
Alcune
tendenze della teologia morale odierna, sotto l'influsso delle correnti
soggettiviste ed individualiste ora ricordate, interpretano in modo nuovo il
rapporto della libertà con la legge morale, con la natura umana e con la
coscienza, e propongono criteri innovativi di valutazione morale degli atti:
sono tendenze che, pur nella loro varietà, si ritrovano nel fatto di indebolire
o addirittura di negare la dipendenza della libertà dalla verità.
Se
vogliamo operare un discernimento critico di queste tendenze, capace di
riconoscere quanto in esse vi è di legittimo, utile e prezioso e di indicarne,
al tempo stesso, le ambiguità, i pericoli e gli errori, dobbiamo esaminarle
alla luce della fondamentale dipendenza della libertà dalla verità, dipendenza
che è stata espressa nel modo più limpido e autorevole dalle parole di Cristo:
« Conoscerete la verità, e la verità vi farà liberi » (Gv
8,32).
I.
La libertà e la legge «
Dell'albero della conoscenza del bene e del male non devi mangiare »
(Gn
2,17)
35.
Leggiamo nel libro della Genesi: « Il
Signore Dio diede questo comando all'uomo: "Tu potrai mangiare di tutti gli
alberi del giardino, ma dell'albero della conoscenza del bene e del male non
devi mangiare, perché, quando tu ne mangiassi, certamente moriresti" » (Gn 2,16-17).
Con
questa immagine, la Rivelazione insegna che il
potere di decidere del bene e del male non appartiene all'uomo, ma a Dio solo. L'uomo
è certamente libero, dal momento che può comprendere ed accogliere i comandi
di Dio. Ed è in possesso d'una libertà quanto mai ampia, perché può mangiare
« di tutti gli alberi del giardino ». Ma questa libertà non è illimitata:
deve arrestarsi di fronte all'« albero della conoscenza del bene e del male »,
essendo chiamata ad accettare la legge morale che Dio dà all'uomo. In realtà,
proprio in questa accettazione la libertà dell'uomo trova la sua vera e piena
realizzazione. Dio, che solo è buono, conosce perfettamente ciò che è buono
per l'uomo, e in forza del suo stesso amore glielo propone nei comandamenti.
La
legge di Dio, dunque, non attenua né tanto meno elimina la libertà dell'uomo,
al contrario la garantisce e la promuove. Ben diversamente però, alcune
tendenze culturali odierne sono all'origine di non pochi orientamenti etici che
pongono al centro del loro pensiero un
presunto conflitto tra la libertà e la legge. Tali sono le dottrine che
attribuiscono ai singoli individui o ai gruppi sociali la facoltà di decidere
del bene e del male: la libertà umana potrebbe « creare i valori » e
godrebbe di un primato sulla verità, al punto che la verità stessa sarebbe
considerata una creazione della libertà. Questa, dunque, rivendicherebbe una
tale autonomia morale che praticamente
significherebbe la sua sovranità
assoluta.
36.
L'istanza moderna di autonomia non ha mancato di esercitare un suo influsso
anche nell'ambito della teologia morale cattolica. Se questa, certamente,
non ha mai inteso contrapporre la libertà umana alla legge divina, né mettere
in questione l'esistenza di un fondamento religioso ultimo delle norme morali,
è stata però provocata ad un profondo ripensamento del ruolo della ragione e
della fede nell'individuazione delle norme morali che si riferiscono a specifici
comportamenti « intramondani », ossia verso se stessi, gli altri e il mondo
delle cose.
Si
deve riconoscere che all'origine di questo sforzo di ripensamento si ritrovano alcune
istanze positive, che peraltro appartengono, in buona parte, alla miglior
tradizione del pensiero cattolico. Sollecitati dal Concilio Vaticano II,60 si è
voluto favorire il dialogo con la cultura moderna, mettendo in luce il carattere
razionale — quindi universalmente comprensibile e comunicabile — delle norme
morali appartenenti all'ambito della legge morale naturale.61 Si è inteso,
inoltre, ribadire il carattere interiore delle esigenze etiche che da essa
derivano e che non si impongono alla volontà come un obbligo, se non in forza
del riconoscimento previo della ragione umana e, in concreto, della coscienza
personale.
Dimenticando
però la dipendenza della ragione umana dalla Sapienza divina e la necessità,
nel presente stato di natura decaduta, nonché l'effettiva realtà della divina
rivelazione per la conoscenza di verità morali anche di ordine naturale,62
alcuni sono giunti a teorizzare una completa
sovranità della ragione nell'ambito delle norme morali relative al retto
ordinamento della vita in questo mondo: tali norme costituirebbero l'ambito di
una morale solamente « umana », sarebbero cioè l'espressione di una legge che
l'uomo autonomamente dà a se stesso e che ha la sua sorgente esclusivamente
nella ragione umana. Di questa legge Dio non potrebbe essere considerato in
nessun modo Autore, se non nel senso che la ragione umana esercita la sua
autonomia legislativa in forza di un originario e totale mandato di Dio
all'uomo. Ora queste tendenze di pensiero hanno condotto a negare, contro la
Sacra Scrittura e la dottrina costante della Chiesa, che la legge morale
naturale abbia Dio come autore e che l'uomo, mediante la sua ragione, partecipi
alla legge eterna, che non è lui a stabilire.
37.
Volendo però mantenere la vita morale in un contesto cristiano, è stata
introdotta da alcuni teologi moralisti una netta distinzione, contraria alla
dottrina cattolica,63 tra un ordine etico, che avrebbe origine umana e valore solo mondano,
e un ordine della salvezza, per il quale avrebbero rilevanza solo alcune
intenzioni ed atteggiamenti interiori circa Dio e il prossimo. Si è giunti
conseguentemente al punto di negare l'esistenza, nella rivelazione divina, di un
contenuto morale specifico e determinato, universalmente valido e permanente: la
Parola di Dio si limiterebbe a proporre un'esortazione, una generica parenesi,
che poi solo la ragione autonoma avrebbe il compito di riempire di
determinazioni normative veramente « oggettive », ossia adeguate alla
situazione storica concreta. Naturalmente un'autonomia così concepita comporta
anche la negazione di una competenza dottrinale specifica da parte della Chiesa
e del suo Magistero circa norme morali determinate riguardanti il cosiddetto «
bene umano »: esse non apparterrebbero al contenuto proprio della Rivelazione e
non sarebbero in se stesse rilevanti in ordine alla salvezza.
Non
vi è chi non veda che una simile interpretazione dell'autonomia della ragione
umana comporta tesi incompatibili con la dottrina cattolica.
In
un tale contesto è assolutamente necessario chiarire, alla luce della Parola di
Dio e della viva tradizione della Chiesa, le fondamentali nozioni della libertà
umana e della legge morale, nonché i loro profondi e interiori rapporti. Solo
così sarà possibile corrispondere alle giuste istanze della razionalità
umana, integrando gli elementi validi di alcune correnti dell'odierna teologia
morale, senza pregiudicare il patrimonio morale della Chiesa con tesi derivanti
da un erroneo concetto di autonomia.
Dio
volle lasciare l'uomo « in mano al suo consiglio » (Sir
15,14)
38.
Riprendendo le parole del Siracide, il Concilio Vaticano II così spiega la «
vera libertà » che nell'uomo è « segno altissimo dell'immagine divina »: «
Dio volle lasciare l'uomo "in mano al suo consiglio", così che egli
cerchi spontaneamente il suo Creatore, e giunga liberamente, con l'adesione a
Lui, alla piena e beata perfezione ».64 Queste parole indicano la meravigliosa
profondità della partecipazione alla signoria divina, cui l'uomo è stato chiamato:
indicano che il dominio dell'uomo si estende, in un certo senso, sull'uomo
stesso. È questo un aspetto costantemente accentuato nella riflessione
teologica sulla libertà umana, interpretata nei termini di una forma di regalità.
Scrive, ad esempio, san Gregorio Nisseno: « L'animo manifesta la sua regalità
ed eccellenza... nel suo essere senza padrone e libero, governandosi
autocraticamente con il suo volere. Di chi altro questo è proprio, se non del
re?... Così la natura umana, creata per essere padrona delle altre creature,
per la somiglianza con il sovrano dell'universo fu stabilita come una viva
immagine, partecipe della dignità e del nome dell'Archetipo ».65
Già
il governare il mondo costituisce per
l'uomo un compito grande e colmo di responsabilità, che impegna la sua libertà
in obbedienza al Creatore: « Riempite la terra; soggiogatela » (Gn
1,28). Sotto questo aspetto al singolo uomo, come pure alla comunità umana,
spetta una giusta autonomia, alla quale la Costituzione conciliare Gaudium
et spes dedica una speciale attenzione. È l'autonomia delle realtà
terrene, che significa che « le cose create e le stesse società hanno leggi e
valori propri, che l'uomo gradatamente deve scoprire, usare e ordinare ».66
39.
Non solo il mondo però, ma anche l'uomo
stesso è stato affidato alla sua propria cura e responsabilità. Dio l'ha
lasciato « in mano al suo consiglio » (Sir
15,14), perché cercasse il suo Creatore e giungesse liberamente alla
perfezione. Giungere significa edificare
personalmente in sé tale perfezione. Infatti, come governando il mondo
l'uomo lo forma secondo la sua intelligenza e volontà, così compiendo atti
moralmente buoni l'uomo conferma, sviluppa e consolida in se stesso la
somiglianza di Dio.
Il
Concilio, tuttavia, chiede vigilanza di fronte a un falso concetto
dell'autonomia delle realtà terrene, quello di ritenere che « le cose create
non dipendono da Dio, e che l'uomo può adoperarle senza riferirle al Creatore
».67 Nei riguardi dell'uomo poi simile concetto di autonomia produce effetti
particolarmente dannosi, assumendo in ultima istanza un carattere ateo: « La
creatura, infatti, senza il Creatore svanisce... Anzi, l'oblio di Dio priva di
luce la creatura stessa ».68
40.
L'insegnamento del Concilio sottolinea, da un lato,
l'attività della ragione umana nel rinvenimento e nella applicazione della
legge morale: la vita morale esige la creatività e l'ingegnosità proprie della
persona, sorgente e causa dei suoi atti deliberati. D'altro lato, la ragione
trae la sua verità e la sua autorità dalla legge eterna, che non è altro che
la stessa sapienza divina.69 Alla base della vita morale sta dunque il principio
di una « giusta autonomia » 70 dell'uomo, soggetto personale dei suoi atti. La
legge morale proviene da Dio e trova sempre in lui la sua sorgente: in forza
della ragione naturale, che deriva dalla sapienza divina, essa è, al tempo
stesso, la legge propria dell'uomo. La legge naturale infatti, come si è
visto, « altro non è che la luce dell'intelligenza infusa in noi da Dio.
Grazie ad essa conosciamo ciò che si deve compiere e ciò che si deve evitare.
Questa luce e questa legge Dio l'ha donata nella creazione ».71 La giusta
autonomia della ragione pratica significa che l'uomo possiede in se stesso la
propria legge, ricevuta dal Creatore. Tuttavia, l'autonomia
della ragione non può significare la creazione, da parte della stessa
ragione, dei valori e delle norme morali.72
Se questa autonomia implicasse una negazione della partecipazione della ragione
pratica alla sapienza del Creatore e Legislatore divino, oppure se suggerisse
una libertà creatrice delle norme morali, a seconda delle contingenze storiche
o delle diverse società e culture, una tale pretesa autonomia contraddirebbe
l'insegnamento della Chiesa sulla verità dell'uomo.73 Sarebbe la morte della
vera libertà: « Ma dell'albero della conoscenza del bene e del male non devi
mangiare, perché, quando tu ne mangiassi, certamente moriresti » (Gn
2,17).
41.
La vera autonomia morale dell'uomo non
significa affatto il rifiuto, bensì l'accoglienza della legge morale, del
comando di Dio: « Il Signore Dio diede questo comando all'uomo... » (Gn
2,16). La libertà dell'uomo e la legge di
Dio s'incontrano e sono chiamate a compenetrarsi tra loro, nel senso della
libera obbedienza dell'uomo a Dio e della gratuita benevolenza di Dio all'uomo.
E pertanto l'obbedienza a Dio non è, come taluni credono, un'eteronomia,
come se la vita morale fosse sottomessa alla volontà di un'onnipotenza
assoluta, esterna all'uomo e contraria all'affermazione della sua libertà. In
realtà, se eteronomia della morale significasse negazione
dell'autodeterminazione dell'uomo o imposizione di norme estranee al suo bene,
essa sarebbe in contraddizione con la rivelazione dell'Alleanza e
dell'Incarnazione redentrice. Una simile eteronomia non sarebbe che una forma di
alienazione, contraria alla sapienza divina ed alla dignità della persona
umana.
Alcuni
parlano, a giusto titolo, di teonomia, o
di teonomia partecipata, perché la libera obbedienza dell'uomo alla
legge di Dio implica effettivamente la partecipazione della ragione e della
volontà umane alla sapienza e alla provvidenza di Dio. Proibendo all'uomo di
mangiare « dell'albero della conoscenza del bene e del male », Dio afferma che
l'uomo non possiede originariamente in proprio questa « conoscenza », ma
solamente vi partecipa mediante la luce della ragione naturale e della
rivelazione divina, che gli manifestano le esigenze e gli appelli della sapienza
eterna. La legge quindi deve dirsi un'espressione della sapienza divina:
sottomettendosi ad essa, la libertà si sottomette alla verità della creazione.
Per questo occorre riconoscere nella libertà della persona umana l'immagine e
la vicinanza di Dio, che è « presente in tutti » (cf Ef
4,6); allo stesso modo, bisogna confessare la maestà del Dio dell'universo
e venerare la santità della legge di Dio infinitamente trascendente. Deus
semper maior.74
Beato
l'uomo che si compiace della legge del Signore
(cf Sal 1,1-2)
42.
Modellata su quella di Dio, la libertà dell'uomo non solo non è negata dalla
sua obbedienza alla legge divina, ma soltanto mediante questa obbedienza essa
permane nella verità ed è conforme alla dignità dell'uomo, come scrive
apertamente il Concilio: « La dignità dell'uomo richiede che egli agisca
secondo scelte consapevoli e libere, mosso cioè e indotto da convinzioni
personali e non per un cieco impulso interno e per mera coazione esterna. Ma
tale dignità l'uomo la ottiene quando, liberandosi da ogni schiavitù di
passioni, tende al suo fine con scelta libera del bene, e si procura da sé e
con la sua diligente iniziativa i mezzi convenienti ».75
Nel
suo tendere a Dio, a Colui che « solo è buono », l'uomo deve liberamente
compiere il bene ed evitare il male. Ma per questo l'uomo deve poter
distinguere il bene dal male. Ed è quanto avviene, anzitutto, grazie alla
luce della ragione naturale, riflesso nell'uomo dello splendore del volto di
Dio. In questo senso, commentando un versetto del Salmo 4, san Tommaso scrive:
« Dopo aver detto: Offrite sacrifici di giustizia (Sal
4,6), come se alcuni gli chiedessero quali sono le opere della giustizia, il
Salmista soggiunge: Molti dicono: Chi ci
farà vedere il bene? E, rispondendo alla domanda, dice: La
luce del tuo volto, Signore, è stata impressa su di noi. Come se volesse
dire che la luce della ragione naturale con la quale distinguiamo il bene dal
male — il che è di competenza della legge naturale — non è altro che
un'impronta in noi della luce divina ».76 Da ciò segue anche per quale motivo
questa legge è chiamata legge naturale: viene detta così non in rapporto alla natura degli
esseri irrazionali, ma perché la ragione che la promulga è propria della
natura umana.77
43.
Il Concilio Vaticano II ricorda che « norma suprema della vita umana è la
legge divina, eterna, oggettiva e universale, per mezzo della quale Dio con un
disegno di sapienza e di amore ordina, dirige e governa tutto il mondo e le vie
della comunità umana. E Dio rende partecipe l'uomo della sua legge, cosicché
l'uomo, per soave disposizione della provvidenza divina, possa sempre più
conoscere l'immutabile verità ».78
Il
Concilio rimanda alla dottrina classica sulla legge
eterna di Dio. Sant'Agostino la definisce come « la ragione o la volontà
di Dio che comanda di conservare l'ordine naturale e proibisce di turbarlo »;
79 san Tommaso la identifica con « la ragione della divina sapienza che muove
tutto al fine dovuto ».80 E la sapienza di Dio è provvidenza, amore che si
prende cura. È Dio stesso, dunque, ad amare e a prendersi cura, nel senso più
letterale e fondamentale, di tutta la creazione (cf Sap
7,22; 8,11). Ma Dio provvede agli uomini in modo diverso rispetto agli
esseri che non sono persone: non « dall'esterno », attraverso le leggi della
natura fisica, ma « dal di dentro », mediante la ragione che, conoscendo col
lume naturale la legge eterna di Dio, è perciò stesso in grado di indicare
all'uomo la giusta direzione del suo libero agire.81 In questo modo Dio chiama
l'uomo a partecipare alla sua provvidenza, volendo per mezzo dell'uomo stesso,
ossia attraverso la sua ragionevole e responsabile cura, guidare il mondo: non
soltanto il mondo della natura, ma anche quello delle persone umane. In questo
contesto, come espressione umana della legge eterna di Dio, si pone la legge
naturale: « Rispetto alle altre creature — scrive san Tommaso — la
creatura razionale è soggetta in un modo più eccellente alla divina
provvidenza, in quanto anche essa diventa partecipe della provvidenza,
provvedendo a se stessa e agli altri: perciò si ha in essa una partecipazione
della ragione eterna, grazie alla quale ha una naturale inclinazione all'atto ed
al fine dovuti: tale partecipazione della legge eterna nella creatura razionale
è chiamata legge naturale ».82
44.
La Chiesa ha fatto spesso riferimento alla dottrina tomistica di legge naturale,
assumendola nel proprio insegnamento morale. Così il mio venerato predecessore
Leone XIII ha sottolineato l'essenziale
subordinazione della ragione e della legge umana alla Sapienza di Dio e alla sua
legge. Dopo aver detto che « la legge naturale è scritta e scolpita
nell'animo di tutti e di ciascun uomo, poiché essa non è altro che la stessa
ragione umana che ci comanda di fare il bene e ci intima di non peccare »,
Leone XIII rimanda alla « ragione più alta » del Legislatore divino: « Ma
tale prescrizione della ragione umana non potrebbe aver forza di legge, se non
fosse la voce e l'interprete di una ragione più alta, a cui il nostro spirito e
la nostra libertà devono essere sottomessi ». Infatti, la forza della legge
risiede nella sua autorità di imporre dei doveri, di conferire dei diritti e di
dare la sanzione a certi comportamenti: « Ora tutto ciò non potrebbe esistere
nell'uomo, se fosse egli stesso a darsi, quale legislatore supremo, la norma
delle sue azioni ». E conclude: « Ne consegue che la legge naturale è la stessa legge eterna, insita negli esseri dotati di ragione, che li
inclina all'atto e al fine che loro
convengono; essa è la stessa ragione eterna del Creatore e governatore
dell'universo ».83
L'uomo
può riconoscere il bene e il male grazie a quel discernimento del bene dal male
che egli stesso opera mediante la sua ragione, in particolare mediante la sua ragione
illuminata dalla rivelazione divina e dalla fede, in forza della legge che
Dio ha donato al popolo eletto, a cominciare dai comandamenti del Sinai. Israele
è stato chiamato a ricevere e a vivere la
legge di Dio come particolare dono e
segno dell'elezione e dell'Alleanza divina, ed insieme come garanzia della
benedizione di Dio. Così Mosè poteva rivolgersi ai figli di Israele e chiedere
loro: « Quale grande nazione ha la divinità così vicina a sé, come il
Signore nostro Dio è vicino a noi ogni volta che lo invochiamo? E quale grande
nazione ha leggi e norme giuste, come è tutta questa legislazione che io oggi
vi espongo? » (Dt 4,7-8). È nei Salmi
che incontriamo i sentimenti di lode, gratitudine e venerazione che il
popolo eletto è chiamato a nutrire verso la legge di Dio, insieme
all'esortazione a conoscerla, meditarla e tradurla nella vita: « Beato l'uomo
che non segue il consiglio degli empi, non indugia nella via dei peccatori e non
siede in compagnia degli stolti; ma si compiace della legge del Signore, la sua
legge medita giorno e notte » (Sal 1,1-2);
« La legge del Signore è perfetta, rinfranca l'anima; la testimonianza del
Signore è verace, rende saggio il semplice. Gli ordini del Signore sono giusti,
fanno gioire il cuore; i comandi del Signore sono limpidi, danno luce agli occhi
» (Sal 181,8-9).
45.
La Chiesa accoglie con riconoscenza e custodisce con amore l'intero deposito
della Rivelazione, trattandolo con religioso rispetto e adempiendo alla sua
missione di interpretare la legge di Dio in modo autentico alla luce del
Vangelo. La Chiesa, inoltre, riceve in dono la Legge
nuova, che è il « compimento » della legge di Dio in Gesù Cristo e nel
suo Spirito: è una legge « interiore » (cf Ger
31,31-33), « scritta non con inchiostro, ma con lo Spirito del Dio vivente,
non su tavole di pietra, ma sulle tavole di carne dei vostri cuori » (2
Cor 3,3); una legge di perfezione e di libertà (cf 2 Cor 3,17); è « la legge dello Spirito che dà vita in Cristo Gesù
» (Rm 8,2). Di questa legge scrive
san Tommaso: « Questa può essere detta legge in un duplice senso. In un primo
senso, legge dello spirito è lo Spirito Santo... che, inabitante nell'anima,
non solo insegna che cosa è necessario compiere illuminando l'intelletto sulle
cose da farsi, ma anche inclina ad agire con rettitudine... In un secondo senso,
legge dello spirito può dirsi l'effetto proprio dello Spirito Santo, e cioè la
fede che opera per mezzo della carità (Gal 5,6), la quale pertanto ammaestra interiormente circa le cose da
farsi... e inclina l'affetto ad agire ».84
Anche
se nella riflessione teologico-morale si è soliti distinguere la legge di Dio
positiva o rivelata da quella naturale, e nell'economia della salvezza la legge
« antica » da quella « nuova », non si può dimenticare che queste e altre
utili distinzioni si riferiscono sempre alla legge il cui autore è lo stesso
unico Dio, e il cui destinatario è l'uomo. I diversi modi secondo cui nella
storia Dio ha cura del mondo e dell'uomo, non solo non si escludono tra loro, ma
al contrario si sostengono e si compenetrano a vicenda. Tutti scaturiscono e
concludono all'eterno disegno sapiente e amoroso con il quale Dio predestina gli
uomini « ad essere conformi all'immagine del Figlio suo » (Rm
8,29). In questo disegno non c'è nessuna minaccia per la vera libertà
dell'uomo; al contrario l'accoglienza di questo disegno è l'unica via per
l'affermazione della libertà. «
Quanto la legge esige è scritto nei loro cuori »
(Rm 2,15)
46.
Il presunto conflitto tra la libertà e la legge si ripropone oggi con una
singolare forza in rapporto alla legge naturale, e in particolare in rapporto
alla natura. In realtà i dibattiti su
natura e libertà hanno sempre accompagnato la storia della riflessione
morale, assumendo toni accesi con il Rinascimento e la Riforma, come si può
rilevare dagli insegnamenti del Concilio di Trento.85 Di una tensione analoga
resta segnata, anche se in un senso differente, l'epoca contemporanea: il gusto
dell'osservazione empirica, i procedimenti dell'oggettivazione scientifica, il
progresso tecnico, alcune forme di liberalismo hanno portato a contrapporre i
due termini, come se la dialettica — se non addirittura il conflitto — tra
libertà e natura fosse caratteristica strutturale della storia umana. In altre
epoche, è sembrato che la « natura » sottomettesse totalmente l'uomo ai suoi
dinamismi e persino ai suoi determinismi. Ancor oggi le coordinate
spazio-temporali del mondo sensibile, le costanti fisico-chimiche, i dinamismi
corporei, le pulsioni psichiche, i condizionamenti sociali appaiono a molti come
gli unici fattori realmente decisivi delle realtà umane. In questo contesto,
anche i fatti morali, a dispetto della loro specificità, sono spesso trattati
come se fossero dati statisticamente accertabili, come comportamenti osservabili
o spiegabili solo con le categorie dei meccanismi psico-sociali. E così alcuni studiosi di etica, tenuti per professione a esaminare i fatti
e i gesti dell'uomo, possono essere tentati di misurare il loro sapere, se non
le loro prescrizioni, sulla base di un riscontro statistico circa i
comportamenti umani concreti e le opinioni morali della maggioranza.
Altri
moralisti, invece,
preoccupati di educare ai valori, si mantengono sensibili al prestigio della
libertà, ma spesso la concepiscono in opposizione, o in contrasto, con la
natura materiale e biologica, sulla quale dovrebbe progressivamente affermarsi.
A questo proposito differenti concezioni convergono nel dimenticare la
dimensione creaturale della natura e nel misconoscere la sua integralità. Per alcuni, la natura si trova ridotta a materiale per l'agire umano
e per il suo potere: essa dovrebbe essere profondamente trasformata, anzi
superata dalla libertà, dal momento che ne costituirebbe un limite e una
negazione. Per altri, è nella
promozione senza misura del potere dell'uomo, o della sua libertà, che si
costituiscono i valori economici, sociali, culturali ed anche morali: la natura
starebbe a significare tutto ciò che nell'uomo e nel mondo si colloca al di
fuori della libertà. Tale natura comprenderebbe in primo luogo il corpo umano,
la sua costituzione e i suoi dinamismi: a questo dato fisico si opporrebbe
quanto è « costruito » cioè la « cultura », quale opera e prodotto della
libertà. La natura umana, così intesa, potrebbe essere ridotta e trattata come
materiale biologico o sociale sempre disponibile. Ciò significa ultimamente
definire la libertà mediante se stessa e farne un'istanza creatrice di sé e
dei suoi valori. È così che al limite l'uomo non avrebbe neppure natura, e
sarebbe per se stesso il proprio progetto di esistenza. L'uomo non sarebbe
nient'altro che la sua libertà!
47.
In questo contesto sono sorte le obiezioni
di fisicismo e naturalismo contro la concezione tradizionale della
legge naturale: questa presenterebbe come leggi morali quelle che in se
stesse sarebbero solo leggi biologiche. Così, troppo superficialmente, si
sarebbe attribuito ad alcuni comportamenti umani un carattere permanente ed
immutabile e, in base ad esso, si sarebbe preteso di formulare norme morali
universalmente valide. Secondo alcuni teologi, una simile « argomen- tazione
biologista o naturalista » sarebbe presente anche in taluni documenti del
Magistero della Chiesa, specialmente in quelli riguardanti l'ambito dell'etica
sessuale e matrimoniale. In base ad una concezione naturalistica dell'atto
sessuale, sarebbero state condannate come moralmente inammissibili la
contraccezione, la sterilizzazione diretta, l'autoerotismo, i rapporti
prematrimoniali, le relazioni omosessuali, nonché la fecondazione artificiale.
Ora, secondo il parere di questi teologi, la valutazione moralmente negativa di
tali atti non prenderebbe in adeguata considerazione il carattere razionale e
libero dell'uomo, né il condizionamento culturale di ogni norma morale. Essi
dicono che l'uomo, come essere razionale, non solo può, ma addirittura deve
decidere liberamente il senso dei suoi comportamenti. Questo « decidere il
senso » dovrà tener conto, ovviamente, dei molteplici limiti dell'essere
umano, che ha una condizione corporea e storica. Dovrà, inoltre, prendere in
considerazione i modelli comportamentali ed i significati che questi assumono in
una determinata cultura. E, soprattutto, dovrà rispettare il comandamento
fondamentale dell'amore di Dio e del prossimo. Dio però — asseriscono poi —
ha fatto l'uomo come essere razionalmente libero, lo ha lasciato « in mano al
suo consiglio » e da lui attende una propria, razionale formazione della sua
vita. L'amore del prossimo significherebbe soprattutto o esclusivamente rispetto
per il suo libero decidere di se stesso. I meccanismi dei comportamenti propri
dell'uomo, nonché le cosiddette « inclinazioni naturali », stabilirebbero al
massimo — come dicono — un orientamento generale del comportamento corretto,
ma non potrebbero determinare la valutazione morale dei singoli atti umani,
tanto complessi dal punto di vista delle situazioni.
48.
Di fronte ad una tale interpretazione occorre considerare con attenzione il
retto rapporto che esiste tra la libertà e la natura umana, e in particolare il
posto che ha il corpo umano nelle questioni della legge naturale.
Una
libertà che pretende di essere assoluta finisce per trattare il corpo umano
come un dato bruto, sprovvisto di significati e di valori morali finché essa
non l'abbia investito del suo progetto. Di conseguenza, la natura umana e il
corpo appaiono come dei presupposti o preliminari, materialmente necessari alla scelta della libertà, ma estrinseci alla persona, al soggetto e all'atto umano. I loro
dinamismi non potrebbero costituire punti di riferimento per la scelta morale,
dal momento che le finalità di queste inclinazioni sarebbero solo beni
« fisici », detti da taluni « pre-morali ». Farvi riferimento, per
cercarvi indicazioni razionali circa l'ordine della moralità, dovrebbe essere
tacciato di fisicismo o di biologismo. In un simile contesto la tensione tra la
libertà e una natura concepita in senso riduttivo si risolve in una divisione
nell'uomo stesso.
Questa
teoria morale non è conforme alla verità sull'uomo e sulla sua libertà. Essa
contraddice agli insegnamenti della Chiesa
sull'unità dell'essere umano, la cui anima razionale è per se et essentialiter la forma del corpo.86 L'anima spirituale e
immortale è il principio di unità dell'essere umano, è ciò per cui esso
esiste come un tutto — « corpore et
anima unus » 87 — in quanto persona. Queste definizioni non indicano solo
che anche il corpo, al quale è promessa la risurrezione, sarà partecipe della
gloria; esse ricordano altresì il legame della ragione e della libera volontà
con tutte le facoltà corporee e sensibili.
La persona, incluso il corpo, è affidata interamente a se stessa, ed è
nell'unità dell'anima e del corpo che essa è il soggetto dei propri atti
morali. La persona, mediante la luce della ragione e il sostegno della virtù,
scopre nel suo corpo i segni anticipatori, l'espressione e la promessa del dono
di sé, in conformità con il sapiente disegno del Creatore. È alla luce della
dignità della persona umana — da affermarsi per se stessa — che la ragione
coglie il valore morale specifico di alcuni beni, cui la persona è naturalmente
inclinata. E dal momento che la persona umana non è riducibile ad una libertà
che si autoprogetta, ma comporta una struttura spirituale e corporea
determinata, l'esigenza morale originaria di amare e rispettare la persona come
un fine e mai come un semplice mezzo, implica anche, intrinsecamente, il
rispetto di alcuni beni fondamentali, senza del quale si cade nel relativismo e
nell'arbitrio.
49.
Una dottrina che dissoci l'atto morale
dalle dimensioni corporee del suo esercizio è contraria agli insegnamenti della
Sacra Scrittura e della Tradizione: tale dottrina fa rivivere, sotto forme
nuove, alcuni vecchi errori sempre combattuti dalla Chiesa, in quanto riducono
la persona umana a una libertà « spirituale », puramente formale. Questa
riduzione misconosce il significato morale del corpo e dei comportamenti che ad
esso si riferiscono (cf 1 Cor 6,19). L'apostolo Paolo dichiara esclusi dal Regno dei cieli
« immorali, idolatri, adulteri, effeminati, sodomiti, ladri, avari, ubriaconi,
maldicenti e rapaci » (cf 1 Cor 6,9-10).
Tale condanna — fatta propria dal Concilio di Trento 88 — enumera come «
peccati mortali », o « pratiche infami », alcuni comportamenti specifici la
cui volontaria accettazione impedisce ai credenti di avere parte all'eredità
promessa. Infatti, corpo e anima sono
indissociabili: nella persona, nell'agente volontario e nell'atto
deliberato, essi stanno o si perdono
insieme.
50.
Si può ora comprendere il vero significato della legge naturale: essa si
riferisce alla natura propria e originale dell'uomo, alla « natura della
persona umana »,89 che è la persona
stessa nell'unità di anima e di corpo, nell'unità delle sue inclinazioni
di ordine sia spirituale che biologico e di tutte le altre caratteristiche
specifiche necessarie al perseguimento del suo fine. « La legge morale naturale
esprime e prescrive le finalità, i diritti e i doveri che si fondano sulla
natura corporale e spirituale della persona umana. Pertanto essa non può essere
concepita come normatività semplicemente biologica, ma deve essere definita
come l'ordine razionale secondo il quale l'uomo è chiamato dal Creatore a
dirigere e a regolare la sua vita e i suoi atti e, in particolare, a usare e
disporre del proprio corpo ».90 Ad esempio, l'origine e il fondamento del
dovere di rispettare assolutamente la vita umana sono da trovare nella dignità
propria della persona e non semplicemente nell'inclinazione naturale a
conservare la propria vita fisica. Così la vita umana, pur essendo un bene
fondamentale dell'uomo, acquista un significato morale in riferimento al bene
della persona che deve essere sempre affermata per se stessa: mentre è sempre
moralmente illecito uccidere un essere umano innocente, può essere lecito,
lodevole o persino doveroso dare la propria vita (cf Gv
15, 13) per amore del prossimo o per testimonianza verso la verità. In
realtà solo in riferimento alla persona umana nella sua « totalità unificata
», cioè « anima che si esprime nel corpo e corpo informato da uno spirito
immortale »,91 si può leggere il significato specificamente umano del corpo.
In effetti le inclinazioni naturali acquistano rilevanza morale solo in quanto
esse si riferiscono alla persona umana e alla sua realizzazione autentica, la
quale d'altra parte può verificarsi sempre e solo nella natura umana.
Rifiutando le manipolazioni della corporeità che ne alterano il significato
umano, la Chiesa serve l'uomo e gli indica la via del vero amore, sulla quale
soltanto egli può trovare il vero Dio.
La
legge naturale così intesa non lascia spazio alla divisione tra libertà e
natura. Queste, infatti, sono armonicamente collegate tra loro e intimamente
alleate l'una con l'altra. «
Ma da principio non fu così »
(Mt
19,8)
51.
Il presunto conflitto tra la libertà e la natura si ripercuote anche
sull'interpretazione di alcuni aspetti specifici della legge naturale,
soprattutto sulla sua universalità e
immutabilità. « Dove dunque sono iscritte queste regole — si chiedeva
sant'Agostino — se non nel libro di quella luce che si chiama verità? Di qui,
dunque, è dettata ogni legge giusta e si trasferisce retta nel cuore dell'uomo
che opera la giustizia, non emigrando in lui, ma quasi imprimendosi in lui, come
l'immagine passa dall'anello nella cera, ma senza abbandonare l'anello ».92
Proprio
grazie a questa « verità » la legge
naturale implica l'universalità. Essa, in quanto iscritta nella natura
razionale della persona, si impone ad ogni essere dotato di ragione e vivente
nella storia. Per perfezionarsi nel suo ordine specifico, la persona deve
compiere il bene ed evitare il male, vegliare alla trasmissione e alla
conservazione della vita, affinare e sviluppare le ricchezze del mondo
sensibile, coltivare la vita sociale, cercare il vero, praticare il bene,
contemplare la bellezza.93
La
scissione posta da alcuni tra la libertà degli individui e la natura comune a
tutti, come emerge da alcune teorie filosofiche di grande risonanza nella
cultura contemporanea, oscura la percezione dell'universalità della legge
morale da parte della ragione. Ma, in quanto esprime la dignità della persona
umana e pone la base dei suoi diritti e doveri fondamentali, la legge naturale
è universale nei suoi precetti e la sua autorità si estende a tutti gli
uomini. Questa universalità non prescinde
dalla singolarità degli esseri umani, né si oppone all'unicità e
all'irripetibilità di ciascuna persona: al contrario, essa abbraccia in radice
ciascuno dei suoi atti liberi, che devono attestare l'universalità del vero
bene. Sottomettendosi alla legge comune, i nostri atti edificano la vera
comunione delle persone e, con la grazia di Dio, esercitano la carità, «
vincolo della perfezione » (Col 3,14).
Quando invece misconoscono o anche solo ignorano la legge, in maniera imputabile
o no, i nostri atti feriscono la comunione delle persone, con pregiudizio di
ciascuno.
52.
È giusto e buono, sempre e per tutti, servire Dio, rendergli il culto dovuto ed
onorare secondo verità i genitori. Simili precetti
positivi, che prescrivono di compiere talune azioni e di coltivare certi
atteggiamenti, obbligano universalmente; essi sono immutabili; 94 uniscono nel
medesimo bene comune tutti gli uomini di ogni epoca della storia, creati per «
la stessa vocazione e lo stesso destino divino ».95 Queste leggi universali e
permanenti corrispondono a conoscenze della ragione pratica e vengono applicate
agli atti particolari mediante il giudizio della coscienza. Il soggetto che
agisce assimila personalmente la verità contenuta nella legge: egli si
appropria, fa sua questa verità del suo essere mediante gli atti e le relative
virtù. I precetti negativi della
legge naturale sono universalmente validi: essi obbligano tutti e ciascuno,
sempre e in ogni circostanza. Si tratta infatti di proibizioni che vietano una
determinata azione semper et pro semper,
senza eccezioni, perché la scelta di un tale comportamento non è in nessun
caso compatibile con la bontà della volontà della persona che agisce, con la
sua vocazione alla vita con Dio e alla comunione col prossimo. È proibito ad
ognuno e sempre di infrangere precetti che vincolano, tutti e a qualunque costo,
a non offendere in alcuno e, prima di tutto, in se stessi la dignità personale
e comune a tutti.
D'altra
parte, il fatto che solo i comandamenti negativi obbligano sempre e in ogni
circostanza, non significa che nella vita morale le proibizioni siano più
importanti dell'impegno a fare il bene indicato dai comandamenti positivi. Il
motivo è piuttosto il seguente: il comandamento dell'amore di Dio e del
prossimo non ha nella sua dinamica positiva nessun limite superiore, bensì ha
un limite inferiore, scendendo sotto il quale si viola il comandamento. Inoltre,
ciò che si deve fare in una determinata situazione dipende dalle circostanze,
che non si possono tutte quante prevedere in anticipo; al contrario ci sono
comportamenti che non possono mai essere, in nessuna situazione, una risposta
adeguata — ossia conforme alla dignità della persona. Infine, è sempre
possibile che l'uomo, in seguito a costrizione o ad altre circostanze, sia
impedito di portare a termine determinate buone azioni; mai però può essere
impedito di non fare determinate azioni, soprattutto se egli è disposto a
morire piuttosto che a fare il male.
La
Chiesa ha sempre insegnato che non si devono mai scegliere comportamenti
proibiti dai comandamenti morali, espressi in forma negativa nell'Antico e nel
Nuovo Testamento. Come si è visto, Gesù stesso ribadisce l'inderogabilità di
queste proibizioni: « Se vuoi entrare nella vita, osserva i comandamenti...:
non uccidere, non commettere adulterio, non rubare, non testimoniare il falso »
(Mt 19,17-18).
53.
La grande sensibilità che l'uomo contemporaneo testimonia per la storicità e
per la cultura conduce taluni a dubitare dell'immutabilità
della stessa legge naturale, e
quindi dell'esistenza di « norme oggettive di moralità » 96 valide per tutti
gli uomini del presente e del futuro, come già per quelli del passato: è mai
possibile affermare come valide universalmente per tutti e sempre permanenti
certe determinazioni razionali stabilite nel passato, quando si ignorava il
progresso che l'umanità avrebbe fatto successivamente?
Non
si può negare che l'uomo si dà sempre in una cultura particolare, ma pure non
si può negare che l'uomo non si esaurisce in questa stessa cultura. Del resto,
il progresso stesso delle culture dimostra che nell'uomo esiste qualcosa che
trascende le culture. Questo « qualcosa » è precisamente la
natura dell'uomo: proprio questa natura è la misura della cultura ed è la
condizione perché l'uomo non sia prigioniero di nessuna delle sue culture, ma
affermi la sua dignità personale nel vivere conformemente alla verità profonda
del suo essere. Mettere in discussione gli elementi strutturali permanenti
dell'uomo, connessi anche con la stessa dimensione corporea, non solo sarebbe in
conflitto con l'esperienza comune, ma renderebbe incomprensibile il riferimento che Gesù ha fatto al « principio », proprio là
dove il contesto sociale e culturale del tempo aveva deformato il senso
originario e il ruolo di alcune norme morali (cf Mt
19,1-9). In tal senso « la Chiesa afferma che al di sotto di tutti i
mutamenti ci sono molte cose che non cambiano; esse trovano il loro ultimo fondamento in Cristo, che è sempre lo stesso: ieri, oggi e
nei secoli ».97 È lui il « Principio » che, avendo assunto la natura umana,
la illumina definitivamente nei suoi elementi costitutivi e nel suo dinamismo di
carità verso Dio e il prossimo.98
Certamente
occorre cercare e trovare delle norme morali universali e permanenti la
formulazione più adeguata ai diversi contesti culturali, più capace di
esprimerne incessantemente l'attualità storica, di farne comprendere e
interpretare autenticamente la verità. Questa verità della legge morale —
come quella del « deposito della fede » — si dispiega attraverso i secoli:
le norme che la esprimono restano valide nella loro sostanza, ma devono essere
precisate e determinate « eodem sensu
eademque sententia » 99 secondo le circostanze storiche dal Magistero della
Chiesa, la cui decisione è preceduta e accompagnata dallo sforzo di lettura e
di formulazione proprio della ragione dei credenti e della riflessione
teologica.100
II.
La coscienza e la verità Il
sacrario dell'uomo
54.
Il rapporto che esiste tra la libertà dell'uomo e la legge di Dio ha la sua
sede viva nel « cuore » della persona, ossia nella sua coscienza
morale: « Nell'intimo della coscienza — scrive il Concilio Vaticano II
— l'uomo scopre una legge che non è lui a darsi, ma alla quale invece deve
obbedire e la cui voce che lo chiama sempre ad amare e a fare il bene e a
fuggire il male, quando occorre, chiaramente dice alle orecchie del cuore: fa'
questo, fuggi quest'altro. L'uomo ha in realtà una legge scritta da Dio dentro
il suo cuore: obbedire ad essa è la dignità stessa dell'uomo, e secondo questa
egli sarà giudicato (cf Rm 2, 14-16)
».101
Per
questo il modo secondo cui si concepisce il rapporto tra la libertà e la legge
si collega intimamente con l'interpretazione che viene riservata alla coscienza
morale. In tal senso le tendenze culturali sopra ricordate, che contrappongono e
separano tra loro la libertà e la legge ed esaltano in modo idolatrico la
libertà, conducono ad un'interpretazione
« creativa » della coscienza morale, che si allontana dalla posizione
della tradizione della Chiesa e del suo Magistero.
55.
Secondo l'opinione di diversi teologi la funzione della coscienza sarebbe stata
ricondotta, almeno in un certo passato, ad una semplice applicazione di norme
morali generali ai singoli casi di vita della persona. Ma simili norme —
dicono — non possono essere in grado di accogliere e di rispettare l'intera
irrepetibile specificità di tutti i singoli atti concreti delle persone;
possono anche, in qualche modo, aiutare a una giustavalutazione
della situazione, ma non possono sostituire le persone nel prendere una decisione personale su come comportarsi nei determinati casi
particolari. Anzi, la predetta critica alla tradizionale interpretazione della
natura umana e della sua importanza per la vita morale induce alcuni autori ad
affermare che queste norme non sono tanto un criterio oggettivo vincolante per i
giudizi della coscienza, quanto piuttosto una prospettiva generale che aiuta in prima approssimazione l'uomo nel
dare un'ordinata sistemazione alla sua vita personale e sociale. Essi, inoltre,
rilevano la complessità tipica del
fenomeno della coscienza: questa si rapporta profondamente con tutta la sfera
psicologica ed affettiva e con i molteplici influssi dell'ambiente sociale e
culturale della persona. D'altra parte, viene esaltato al massimo il valore
della coscienza, che il Concilio stesso ha definito « il sacrario dell'uomo,
dove egli si trova solo con Dio, la cui voce risuona nell'intimità propria ».102
Tale voce — si dice — induce l'uomo non tanto a una meticolosa osservanza
delle norme universali, quanto a una creativa e responsabile assunzione dei
compiti personali che Dio gli affida.
Volendo
mettere in risalto il carattere « creativo » della coscienza, alcuni autori
chiamano i suoi atti, non più con il nome di « giudizi », ma con quello di «
decisioni »: solo prendendo « auto- nomamente » queste decisioni l'uomo
potrebbe raggiungere la sua maturità morale. Né manca chi ritiene che questo
processo di maturazione sarebbe ostacolato dalla posizione troppo categorica
che, in molte questioni morali, assume il Magistero della Chiesa, i cui
interventi sarebbero causa, presso i fedeli, dell'insorgere di inutili conflitti
di coscienza.
56.
Per giustificare simili posizioni, alcuni hanno proposto una sorta di duplice
statuto della verità morale. Oltre al livello dottrinale e astratto,
occorrerebbe riconoscere l'originalità di una certa considerazione esistenziale
più concreta. Questa, tenendo conto delle circostanze e della situazione,
potrebbe legittimamente fondare delle eccezioni
alla regola generale e permettere così di compiere praticamente, con buona
coscienza, ciò che è qualificato come intrinsecamente cattivo dalla legge
morale. In tal modo si instaura in alcuni casi una separazione, o anche
un'opposizione, tra la dottrina del precetto valido in generale e la norma della
singola coscienza, che deciderebbe di fatto, in ultima istanza, del bene e del
male. Su questa base si pretende di fondare la legittimità di soluzioni
cosiddette « pastorali » contrarie agli insegnamenti del Magistero e di
giustificare un'ermeneutica « creatrice », secondo la quale la coscienza
morale non sarebbe affatto obbligata, in tutti i casi, da un precetto negativo
particolare.
Non
vi è chi non colga che con queste impostazioni si trova messa in questione l'identità
stessa della coscienza morale di fronte alla libertà dell'uomo e alla legge
di Dio. Solo la chiarificazione precedentemente fatta sul rapporto tra libertà
e legge fondato sulla verità rende possibile il discernimento circa questa interpretazione « creativa » della
coscienza.
Il
giudizio della coscienza
57.
Lo stesso testo della Lettera ai Romani, che
ci ha fatto cogliere l'essenza della legge naturale, indica anche il senso biblico della coscienza, specialmente nel suo specifico legame con la legge: « Quando i pagani, che non
hanno la legge, per natura agiscono secondo la legge, essi, pur non avendo
legge, sono legge a se stessi; essi dimostrano che quanto la legge esige è
scritto nei loro cuori come risulta dalla testimonianza della loro coscienza e
dai loro stessi ragionamenti, che ora li accusano ora li difendono » (Rm
2,14-15).
Secondo
le parole di san Paolo, la coscienza, in un certo senso, pone l'uomo di fronte
alla legge, diventando essa stessa «
testimo- ne » per l'uomo: testimone della sua fedeltà o infedeltà nei
riguardi della legge, ossia della sua essenziale rettitudine o malvagità
morale. La coscienza è l'unico testimone: ciò che avviene nell'intimo della persona è
coperto agli occhi di chiunque dall'esterno. Essa rivolge la sua testimonianza
soltanto verso la persona stessa. E, a sua volta, soltanto la persona conosce la
propria risposta alla voce della coscienza.
58.
Non si apprezzerà mai adeguatamente l'importanza di questo intimo dialogo
dell'uomo con se stesso. Ma, in realtà, questo è il dialogo dell'uomo con Dio, autore della legge, primo modello e fine
ultimo dell'uomo. « La coscienza — scrive san Bonaventura — è come
l'araldo di Dio e il messaggero, e ciò che dice non lo comanda da se stessa, ma
lo comanda come proveniente da Dio, alla maniera di un araldo quando proclama
l'editto del re. E da ciò deriva il fatto che la coscienza ha la forza di
obbligare ».103
Si
può dire, dunque, che la coscienza dà la testimonianza della rettitudine o
della malvagità dell'uomo all'uomo stesso, ma insieme, anzi prima ancora, essa
è testimonianza di Dio stesso, la cui
voce e il cui giudizio penetrano l'intimo dell'uomo fino alle radici della sua
anima, chiamandolo fortiter et suaviter all'obbedienza: « La coscienza morale non
chiude l'uomo dentro una invalicabile e impenetrabile solitudine, ma lo apre
alla chiamata, alla voce di Dio. In questo, non in altro, sta tutto il mistero e
la dignità della coscienza morale: nell'essere cioè il luogo, lo spazio santo
nel quale Dio parla all'uomo ».104
59.
San Paolo non si limita a riconoscere che la coscienza fa da « testimone », ma
rivela anche il modo con cui essa compie una simile funzione. Si tratta di «
ragionamenti », che accusano o difendono i pagani in rapporto ai loro
comportamenti (cf Rm 2,15). Il termine « ragionamenti » mette in luce il carattere
proprio della coscienza, quello di essere un giudizio morale sull'uomo e sui suoi atti: è un giudizio di
assoluzione o di condanna secondo che gli atti umani sono conformi o difformi
dalla legge di Dio scritta nel cuore. E proprio del giudizio degli atti e, allo
stesso tempo, del loro autore e del momento del suo definitivo compimento parla
l'apostolo Paolo nello stesso testo: « Così avverrà nel giorno in cui Dio
giudicherà i segreti degli uomini per mezzo di Gesù Cristo, secondo il mio
Vangelo » (Rm 2,16).
Il
giudizio della coscienza è un giudizio
pratico, ossia un giudizio che intima che cosa l'uomo deve fare o non fare,
oppure che valuta un atto da lui ormai compiuto. È un giudizio che applica a
una situazione concreta la convinzione razionale che si deve amare e fare il
bene ed evitare il male. Questo primo principio della ragione pratica appartiene
alla legge naturale, anzi ne costituisce il fondamento stesso, in quanto esprime
quella luce originaria sul bene e sul male, riflesso della sapienza creatrice di
Dio, che, come una scintilla indistruttibile (scintilla
animae), brilla nel cuore di ogni uomo. Mentre però la legge naturale mette
in luce le esigenze oggettive e universali del bene morale, la coscienza è
l'applicazione della legge al caso particolare, la quale diventa così per
l'uomo un interiore dettame, una chiamata a compiere nella concretezza della
situazione il bene. La coscienza formula così l'obbligo morale alla luce dalla legge naturale: è l'obbligo di
fare ciò che l'uomo, mediante l'atto della sua coscienza, conosce come un bene
che gli è assegnato qui e ora. Il
carattere universale della legge e dell'obbligazione non è cancellato, ma
piuttosto riconosciuto, quando la ragione ne determina le applicazioni
nell'attualità concreta. Il giudizio della coscienza afferma « ultimamente »
la conformità di un certo comportamento concreto rispetto alla legge; esso
formula la norma prossima della moralità di un atto volontario, realizzando «
l'appli- cazione della legge oggettiva a un caso particolare ».105
60.
Come la stessa legge naturale e ogni conoscenza pratica, anche il giudizio della
coscienza ha carattere imperativo: l'uomo
deve agire in conformità ad esso. Se l'uomo agisce contro tale giudizio,
oppure, anche in mancanza di certezza circa la correttezza e la bontà di un
determinato atto, lo compie, egli è condannato dalla sua stessa coscienza, norma prossima della moralità personale. La dignità di questa
istanza razionale e l'autorità della sua voce e dei suoi giudizi derivano dalla
verità sul bene e sul male morale, che essa è chiamata ad ascoltare e ad
esprimere. Questa verità è indicata dalla « legge divina », norma
universale e oggettiva della moralità. Il giudizio della coscienza non
stabilisce la legge, ma attesta l'autorità della legge naturale e della ragione
pratica in riferimento al bene supremo, di cui la persona umana accetta
l'attrattiva e accoglie i comandamenti: « La coscienza non è una fonte
autonoma ed esclusiva per decidere ciò che è buono e ciò che è cattivo;
invece, in essa è inscritto profondamente un principio di obbedienza nei
riguardi della norma oggettiva, che fonda e condiziona la corrispondenza delle
sue decisioni con i comandi e i divieti che sono alla base del comportamento
umano ».106
61.
La verità circa il bene morale, dichiarata nella legge della ragione, è
riconosciuta praticamente e concretamente dal giudizio della coscienza, il quale
porta ad assumere la responsabilità del bene compiuto e del male commesso: se
l'uomo commette il male, il giusto giudizio della sua coscienza rimane in lui
testimone della verità universale del bene, come della malizia della sua scelta
particolare. Ma il verdetto della coscienza permane in lui anche come un pegno
di speranza e di misericordia: mentre attesta il male commesso, ricorda anche il
perdono da chiedere, il bene da praticare e la virtù da coltivare sempre, con
la grazia di Dio.
Così
nel giudizio pratico della coscienza, che
impone alla persona l'obbligo di compiere un determinato atto, si
rivela il vincolo della libertà con la verità. Proprio per questo la
coscienza si esprime con atti di « giudizio » che riflettono la verità sul
bene, e non come « decisioni » arbitrarie. E la maturità e la responsabilità
di questi giudizi — e, in definitiva, dell'uomo, che ne è il soggetto — si
misurano non con la liberazione della coscienza dalla verità oggettiva, in
favore di una presunta autonomia delle proprie decisioni, ma, al contrario, con
una pressante ricerca della verità e con il farsi guidare da essa nell'agire.
Cercare
la verità e il bene
62.
La coscienza, come giudizio di un atto, non è esente dalla possibilità di
errore. « Succede non di rado — scrive il Concilio — che la coscienza sia
erronea per ignoranza invincibile, senza che per questo essa perda la sua dignità.
Ma ciò non si può dire quando l'uomo poco si cura di cercare la verità e il
bene, e quando la coscienza diventa quasi cieca in seguito all'abitudine del
peccato ».107 Con queste brevi parole il Concilio offre una sintesi della
dottrina che la Chiesa nel corso dei secoli ha elaborato sulla coscienza
erronea.
Certamente,
per avere una « buona coscienza » (1 Tm 1,5),
l'uomo deve cercare la verità e deve giudicare secondo questa stessa verità.
Come dice l'apostolo Paolo, la coscienza deve essere illuminata dallo Spirito
Santo (cf Rm 9,1), deve essere « pura
» (2 Tm 1,3), non deve con astuzia
falsare la parola di Dio ma manifestare chiaramente la verità (cf 2 Cor 4,2). D'altra parte, lo stesso Apostolo ammonisce i cristiani
dicendo: « Non conformatevi alla mentalità di questo mondo, ma trasformatevi
rinnovando la vostra mente, per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è
buono, a lui gradito e perfetto » (Rm 12,2).
Il
monito di Paolo ci sollecita alla vigilanza, avvertendoci che nei giudizi della
nostra coscienza si annida sempre la possibilità dell'errore. Essa non
è un giudice infallibile: può errare. Nondimeno l'errore della coscienza
può essere il frutto di una ignoranza
invincibile, cioè di un'ignoranza di cui il soggetto non è consapevole e
da cui non può uscire da solo.
Nel
caso in cui tale ignoranza invincibile non sia colpevole, ci ricorda il
Concilio, la coscienza non perde la sua dignità, perché essa, pur orientandoci
di fatto in modo difforme dall'ordine morale oggettivo, non cessa di parlare in
nome di quella verità sul bene che il soggetto è chiamato a ricercare
sinceramente.
63.
È comunque sempre dalla verità che deriva la dignità della coscienza: nel
caso della coscienza retta si tratta della veritàoggettiva
accolta dall'uomo; in quello della coscienza erronea si tratta di ciò che
l'uomo sbagliando ritiene soggettivamente
vero. Non è mai accettabile confondere un errore « soggettivo » sul bene morale con la verità « oggettiva »,
razionalmente proposta all'uomo in virtù del suo fine, né equiparare il valore
morale dell'atto compiuto con coscienza vera e retta con quello compiuto
seguendo il giudizio di una coscienza erronea.108 Il male commesso a causa di
una ignoranza invincibile, o di un errore di giudizio non colpevole, può non
essere imputabile alla persona che lo compie; ma anche in tal caso esso non
cessa di essere un male, un disordine in relazione alla verità sul bene.
Inoltre, il bene non riconosciuto non contribuisce alla crescita morale della
persona che lo compie: esso non la perfeziona e non giova a disporla al bene
supremo. Così, prima di sentirci facilmente giustificati in nome della nostra
coscienza, dovremmo meditare sulla parola del Salmo: « Le inavvertenze chi le
discerne? Assolvimi dalle colpe che non vedo » (Sal
181,13). Ci sono colpe che non riusciamo a vedere e che nondimeno rimangono
colpe, perché ci siamo rifiutati di andare verso la luce (cf Gv 9,39-41).
La
coscienza, come giudizio ultimo concreto, compromette la sua dignità quando è colpevolmente
erronea, ossia « quando l'uomo non si cura di cercare la verità e il bene,
e quando la coscienza diventa quasi cieca in seguito all'abitudine al peccato ».109
Ai pericoli della deformazione della coscienza allude Gesù, quando ammonisce:
« La lucerna del corpo è l'occhio; se dunque il tuo occhio è chiaro, tutto il
tuo corpo sarà nella luce; ma se il tuo occhio è malato, tutto il tuo corpo
sarà tenebroso. Se dunque la luce che è in te è tenebra, quanto grande sarà
la tua tenebra! » (Mt 6,22-23).
64.
Nelle parole di Gesù sopra riferite troviamo anche l'appello a formare
la coscienza, a renderla oggetto di continua conversione alla verità e al
bene. Analoga è l'esortazione dell'Apostolo a non conformarsi alla mentalità
di questo mondo, ma a trasformarsi rinnovando la propria mente (cf Rm
12,2). È, in realtà, il « cuore » convertito al Signore e all'amore del
bene la sorgente dei giudizi veri della
coscienza. Infatti, « per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è
buono, a lui gradito e perfetto » (Rm 12,2)
è sì necessaria la conoscenza della legge di Dio in generale, ma questa non è
sufficiente: è indispensabile una sorta di «
connaturalità » tra l'uomo e il vero bene.110 Una simile connaturalità si
radica e si sviluppa negli atteggiamenti virtuosi dell'uomo stesso: la prudenza
e le altre virtù cardinali, e prima ancora le virtù teologali della fede,
della speranza e della carità. In tal senso Gesù ha detto: « Chi opera la
verità viene alla luce » (Gv 3,21).
Un
grande aiuto per
la formazione della coscienza i cristiani l'hanno nella
Chiesa e nel suo Magistero, come afferma il Concilio: « I cristiani...
nella formazione della loro coscienza devono considerare diligentemente la
dottrina sacra e certa della Chiesa. Infatti per volontà di Cristo la Chiesa
cattolica è maestra di verità, e il suo compito è di annunziare e di
insegnare in modo autentico la verità che è Cristo, e nello stesso tempo di
dichiarare e di confermare con la sua autorità i principi dell'ordine morale
che scaturiscono dalla stessa natura umana ».111 Pertanto l'autorità della
Chiesa, che si pronuncia sulle questioni morali, non intacca in nessun modo la
libertà di coscienza dei cristiani: non solo perché la libertà della
coscienza non è mai libertà « dalla » verità, ma sempre e solo « nella »
verità; ma anche perché il Magistero non porta alla coscienza cristiana verità
ad essa estranee, bensì manifesta le verità che dovrebbe già possedere
sviluppandole a partire dall'atto originario della fede. La Chiesa si pone solo
e sempre al servizio della coscienza, aiutandola
a non essere portata qua e là da qualsiasi vento di dottrina secondo l'inganno
degli uomini (cf Ef 4,14), a non
sviarsi dalla verità circa il bene dell'uomo, ma, specialmente nelle questioni
più difficili, a raggiungere con sicurezza la verità e a rimanere in essa.
III.
La scelta fondamentale e i componenti concreti «
Purché questa libertà non divenga pretestoper vivere secondo la carne »
(Gal 5,13)
65.
L'interesse, oggi particolarmente acuto, per la libertà induce molti cultori di
scienze sia umane che teologiche a sviluppare un'analisi più penetrante della
sua natura e dei suoi dinamismi. Giustamente si rileva che la libertà non è
solo la scelta per questa o per quest'altra azione particolare; ma è anche,
dentro una simile scelta, decisione su di sé e disposizione della propria vita pro o contro
il Bene, pro o contro la Verità, in ultima istanza pro o contro Dio.
Giustamente si sottolinea l'importanza eminente di alcune scelte, che danno «
forma » a tutta la vita morale di un uomo, configurandosi come l'alveo entro
cui potranno trovare spazio e sviluppo anche altre scelte quotidiane
particolari.
Alcuni
autori, tuttavia, propongono una revisione ben più radicale del rapporto
tra persona e atti. Essi parlano di una « libertà fondamentale », più
profonda e diversa dalla libertà di scelta, senza la cui considerazione non si
potrebbero né comprendere né valutare correttamente gli atti umani. Secondo
tali autori, il ruolo chiave nella vita
morale sarebbe da attribuire ad una « opzione fondamentale », attuata da
quella libertà fondamentale mediante la quale la persona decide globalmente di
se stessa, non attraverso una scelta determinata e consapevole a livello
riflesso, ma in forma « trascen- dentale » e « atematica ». Gli atti
particolari derivanti da questa opzione costituirebbero soltanto dei
tentativi parziali e mai risolutivi per esprimerla, sarebbero solamente « segni
» o sintomi di essa. Oggetto immediato di questi atti — si dice — non è il
Bene assoluto (di fronte al quale si esprimerebbe a livello trascendentale la
libertà della persona), ma sono i beni particolari (detti anche « cate-
goriali »). Ora, secondo l'opinione di alcuni teologi, nessuno di questi beni,
per loro natura parziali, potrebbe determinare la libertà dell'uomo come
persona nella sua totalità, anche se solamente mediante la loro realizzazione o
il loro rifiuto l'uomo potrebbe esprimere la propria opzione fondamentale.
Si
giunge così ad introdurre una distinzione
tra l'opzione fondamentale e le scelte deliberate di un comportamento concreto,
una distinzione che in alcuni autori assume la forma di una
dissociazione, allorché essi riservano espressamente il « bene » e il «
male » morale alla dimensione trascendentale propria dell'opzione fondamentale,
qualificando come « giuste » o « sbagliate » le scelte di particolari
comportamenti « intramondani », riguardanti cioè le relazioni dell'uomo con
se stesso, con gli altri e con il mondo delle cose. Sembra così delinearsi
all'interno dell'agire umano una scissione tra due livelli di moralità:
l'ordine del bene e del male, dipendente dalla volontà, da una parte, e i
comportamenti determinati, dall'altra, i quali vengono giudicati come moralmente
giusti o sbagliati solo in dipendenza da un calcolo tecnico della proporzione
tra beni e mali « premorali » o « fisici », che effettivamente seguono
all'azione. E ciò fino al punto che un comportamento concreto, anche
liberamente scelto, viene considerato come un processo semplicemente fisico, e
non secondo i criteri propri di un atto umano. L'esito al quale si giunge è di
riservare la qualifica propriamente morale della persona all'opzione
fondamentale, sottraendola in tutto o in parte alla scelta degli atti
particolari, dei comportamenti concreti.
66.
Non c'è dubbio che la dottrina morale cristiana, nelle sue stesse radici
bibliche, riconosce la specifica importanza di una scelta fondamentale che
qualifica la vita morale e che impegna la libertà a livello radicale di fronte
a Dio. Si tratta della scelta della fede, dell'obbedienza
della fede (cf Rm 16,26), « con
la quale l'uomo si abbandona tutto a Dio liberamente, prestando "il pieno
ossequio dell'intelletto e della volontà" ».112 Questa fede, che « opera
mediante la carità » (Gal 5,6),
proviene dal centro dell'uomo, dal suo « cuore » (cf Rm 10,10), e da qui è chiamata a fruttificare nelle opere (cf Mt
12,33-35; Lc 6,43-45; Rm 8,5-8; Gal
5, 22). Nel Decalogo si trova, in capo ai diversi comandamenti, la clausola
fondamentale: « Io sono il Signore, tuo Dio... » (Es
20,2) che, imprimendo il senso originale alle molteplici e varie
prescrizioni particolari, assicura alla morale dell'Alleanza una fisionomia di
globalità, di unità e di profondità. La scelta fondamentale di Israele
riguarda allora il comandamento fondamentale (cf Gs
24,14-25; Es 19,3-8; Mic 6,8). Anche la morale della Nuova Alleanza è dominata
dall'appello fondamentale di Gesù alla sua « sequela » — così anche al
giovane egli dice: « Se vuoi essere perfetto... vieni e seguimi » (Mt 19,21) —: a tale appello il discepolo risponde con una
decisione e scelta radicale. Le parabole evangeliche del tesoro e della perla
preziosa, per la quale si vende tutto ciò che si possiede, sono immagini
eloquenti ed efficaci del carattere radicale e incondizionato della scelta che
il Regno di Dio esige. La radicalità della scelta di seguire Gesù è
meravigliosamente espressa nelle sue parole: « Chi vorrà salvare la propria
vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia e del vangelo,
la salverà » (Mc 8,35).
L'appello
di Gesù « vieni e seguimi » segna la massima esaltazione possibile della
libertà dell'uomo e, nello stesso tempo, attesta la verità e l'obbligazione di
atti di fede e di decisioni che si possono dire di opzione fondamentale. Analoga
esaltazione della libertà umana troviamo nelle parole di san Paolo: « Voi,
fratelli, siete stati chiamati a libertà » (Gal
5, 13). Ma l'Apostolo immediatamente aggiunge un grave monito: « Purché
questa libertà non divenga un pretesto per vivere secondo la carne ». In
questo monito riecheggiano le sue precedenti parole: « Cristo ci ha liberati
perché restassimo liberi; state dunque saldi e non lasciatevi imporre di nuovo
il giogo della schiavitù » (Gal 5,1).
L'apostolo Paolo ci invita alla vigilanza: la libertà è sempre insidiata dalla
schiavitù. Ed è proprio questo il caso di un atto di fede — nel senso di
un'opzione fondamentale — che viene dissociato dalla scelta degli atti
particolari, secondo le tendenze sopra ricordate.
67.
Queste tendenze sono dunque contrarie allo stesso insegnamento biblico che
concepisce l'opzione fondamentale come una vera e propria scelta della libertà
e collega profondamente tale scelta con gli atti particolari. Mediante la scelta
fondamentale l'uomo è capace di orientare la sua vita e di tendere, con l'aiuto
della grazia, verso il suo fine, seguendo l'appello divino. Ma questa capacità
si esercita di fatto nelle scelte particolari di atti determinati, mediante i
quali l'uomo si conforma deliberatamente alla volontà, alla sapienza e alla
legge di Dio. Va pertanto affermato che la
cosiddetta opzione fondamentale, nella misura in cui si differenzia da
un'intenzione generica e quindi non ancora determinatasi in una forma
impegnativa della libertà, si attua
sempre mediante scelte consapevoli e libere. Proprio per questo, essa
viene revocata quando l'uomo impegna la sua libertà in scelte consapevoli di
senso contrario, relative a materia morale grave.
Separare
l'opzione fondamentale dai comportamenti concreti significa contraddire
l'integrità sostanziale o l'unità personale dell'agente morale nel suo corpo e
nella sua anima. Un'opzione fondamentale, intesa senza considerare
esplicitamente le potenzialità che mette in atto e le determinazioni che la
esprimono, non rende giustizia alla finalità razionale immanente all'agire
dell'uomo e a ciascuna delle sue scelte deliberate. In realtà, la moralità
degli atti umani non si evince solo dall'intenzione, dall'orientazione o opzione
fondamentale, interpretata nel senso di un'intenzione vuota di contenuti
impegnativi ben determinati o di un'intenzione alla quale non corrisponde uno
sforzo fattivo nei diversi obblighi della vita morale. La moralità non può
essere giudicata se si prescinde dalla conformità o dalla contrarietà della
scelta deliberata di un comportamento concreto rispetto alla dignità e alla
vocazione integrale della persona umana. Ogni scelta implica sempre un
riferimento della volontà deliberata ai beni e ai mali, indicati dalla legge
naturale come beni da perseguire e mali da evitare.
Nel
caso dei precetti morali positivi, la prudenza ha sempre il compito di
verificarne la pertinenza in una determinata situazione, per esempio tenendo
conto di altri doveri forse più importanti o urgenti. Ma i precetti morali
negativi, cioè quelli che proibiscono alcuni atti o comportamenti concreti come
intrinsecamente cattivi, non ammettono alcuna legittima eccezione; essi non
lasciano alcuno spazio moralmente accettabile per la « creatività » di una
qualche determinazione contraria. Una volta riconosciuta in concreto la specie
morale di un'azione proibita da una regola universale, il solo atto moralmente
buono è quello di obbedire alla legge morale e di astenersi dall'azione che
essa proibisce.
68.
Occorre aggiungere una importante considerazione pastorale. Nella logica delle
posizioni sopra accennate, l'uomo potrebbe, in virtù di un'opzione
fondamentale, restare fedele a Dio, indipendentemente dalla conformità o meno
di alcune sue scelte e dei suoi atti determinati alle norme o regole morali
specifiche. In ragione di un'opzione originaria per la carità, l'uomo potrebbe
mantenersi moralmente buono, perseverare nella grazia di Dio, raggiungere la
propria salvezza, anche se alcuni dei suoi comportamenti concreti fossero
deliberatamente e gravemente contrari ai comandamenti di Dio, riproposti dalla
Chiesa.
In
realtà, l'uomo non si perde solo per l'infedeltà a quella opzione
fondamentale, mediante la quale si è consegnato « tutto a Dio liberamente ».113
Egli, con ogni peccato mortale commesso deliberatamente, offende Dio che ha
donato la legge e pertanto si rende colpevole verso tutta la legge (cf Gc
2,8-11); pur conservandosi nella fede, egli perde la « grazia santificante
», la « carità » e la « beatitudine eterna ».114 « La grazia della
giustificazione — insegna il Concilio di Trento —, una volta ricevuta, può
essere perduta non solo per l'infedeltà, che fa perdere la stessa fede, ma
anche per qualsiasi altro peccato mortale ».115
Peccato
mortale e veniale
69.
Le considerazioni intorno all'opzione fondamentale hanno indotto, come abbiamo
ora notato, alcuni teologi a sottoporre a profonda revisione anche la
distinzione tradizionale tra i peccati mortali
e i peccati veniali. Essi
sottolineano che l'opposizione alla legge di Dio, che causa la perdita della
grazia santificante — e, nel caso di morte in un simile stato di peccato,
l'eterna condanna —, può essere soltanto il frutto di un atto che coinvolge
la persona nella sua totalità, cioè un atto di opzione fondamentale. Secondo
questi teologi il peccato mortale, che separa l'uomo da Dio, si verificherebbe
soltanto nel rifiuto di Dio, compiuto ad un livello della libertà non
identificabile con un atto di scelta né attingibile con consapevolezza
riflessa. In questo senso — aggiungono — è difficile, almeno
psicologicamente, accettare il fatto che un cristiano, che vuole rimanere unito
a Gesù Cristo e alla sua Chiesa, possa così facilmente e ripetutamente
commettere peccati mortali, come indicherebbe, a volte, la « materia » stessa
dei suoi atti. Parimenti sarebbe difficile accettare che l'uomo sia capace, in
un breve lasso di tempo, di spezzare radicalmente il legame di comunione con Dio
e, successivamente, di convertirsi a lui mediante la sincera penitenza. Occorre
dunque — si dice — misurare la gravità del peccato piuttosto dal grado di
impegno della libertà della persona che compie un atto che non dalla materia di
tale atto.
70.
L'Esortazione apostolica post-sinodale Reconciliatio
et paenitentia ha ribadito l'importanza e la permanente attualità della
distinzione tra peccati mortali e veniali, secondo la tradizione della Chiesa. E
il Sinodo dei Vescovi del 1983, da cui è scaturita tale Esortazione, « non
soltanto ha riaffermato quanto è stato proclamato dal Concilio Tridentino
sull'esistenza e la natura dei peccati mortali
e veniali, ma ha voluto ricordare che è peccato mortale quello che ha per oggetto una materia grave e che,
inoltre, viene commesso con piena consapevolezza e deliberato consenso ».116
Il
pronunciamento del Concilio di Trento non considera soltanto la « materia grave
» del peccato mortale, ma ricorda anche, come sua necessaria condizione, « la
piena avvertenza e il deliberato consenso ». Del resto, sia nella teologia
morale che nella pratica pastorale, sono ben conosciuti i casi nei quali un atto
grave, a motivo della sua materia, non costituisce peccato mortale a motivo
della non piena avvertenza o del non deliberato consenso di colui che lo compie.
D'altra parte, « si dovrà evitare di ridurre il peccato mortale ad un atto di "opzione
fondamentale" — come oggi si suol dire — contro Dio », concepito
sia come esplicito e formale disprezzo di Dio e del prossimo sia come implicito
e non riflesso rifiuto dell'amore. « Si ha, infatti, peccato mortale anche
quando l'uomo, sapendo e volendo, per qualsiasi ragione sceglie qualcosa di
gravemente disordinato. In effetti, in una tale scelta è già contenuto un
disprezzo del precetto divino, un rifiuto dell'amore di Dio verso l'umanità e
tutta la creazione: l'uomo allontana se stesso da Dio e perde la carità. L'orientamento
fondamentale, quindi, può essere
radicalmente modificato da atti particolari. Senza dubbio si possono dare
situazioni molto complesse e oscure sotto l'aspetto psicologico, che influiscono
sulla imputabilità soggettiva del peccatore. Ma dalla considerazione della
sfera psicologica non si può passare alla costituzione di una categoria
teologica, quale appunto l' "opzione fondamentale", intendendola in
modo tale che, sul piano oggettivo, cambi o metta in dubbio la concezione
tradizionale di peccato mortale ».117
In
tal modo la dissociazione tra opzione fondamentale e scelte deliberate di
comportamenti determinati — disordinati in se stessi o nelle circostanze —
che non la metterebbero in causa, comporta il misconoscimento della dottrina
cattolica sul peccato mortale: « Con tutta la tradizione della Chiesa noi
chiamiamo peccato mortale questo atto,
per il quale un uomo, con libertà e consapevolezza, rifiuta Dio, la sua legge,
l'alleanza di amore che Dio gli propone, preferendo volgersi a se stesso, a
qualche realtà creata e finita, a qualcosa di contrario al volere divino (conversio
ad creaturam). Il che può avvenire in modo diretto e formale, come nei
peccati di idolatria, di apostasia, di ateismo; o in modo equivalente, come in
tutte le disubbidienze ai comandamenti di Dio in materia grave ».118
IV.
L'atto morale
Teleologia
e teleologismo
71.
Il rapporto tra la libertà dell'uomo e la legge di Dio, che trova la sua sede
intima e viva nella coscienza morale, si manifesta e si realizza negli atti
umani. È proprio mediante i suoi atti che l'uomo si perfeziona come uomo,
come uomo chiamato a cercare spontaneamente il suo Creatore e a giungere
liberamente, con l'adesione a lui, alla piena e beata perfezione.119
Gli
atti umani sono atti morali, perché esprimono e decidono della bontà o malizia
dell'uomo stesso che compie quegli atti.120 Essi non producono solo un mutamento
dello stato di cose esterne all'uomo, ma, in quanto scelte deliberate,
qualificano moralmente la persona stessa che li compie e ne determinano la fisionomia
spirituale profonda, come rileva suggestivamente san Gregorio Nisseno: «
Tutti gli esseri soggetti al divenire non restano mai identici a se stessi, ma
passano continuamente da uno stato ad un altro mediante un cambiamento che opera
sempre, in bene o in male... Ora, essere soggetto a cambiamento è nascere
continuamente... Ma qui la nascita non avviene per un intervento estraneo, com'è
il caso degli esseri corporei... Essa è il risultato di una scelta libera e noi
siamo così, in certo modo, i nostri
stessi genitori, creandoci come vogliamo, e con la nostra scelta dandoci la
forma che vogliamo ».121
72.
La moralità degli atti è definita
dal rapporto della libertà dell'uomo col bene autentico. Tale bene è
stabilito, come legge eterna, dalla Sapienza di Dio che ordina ogni essere al
suo fine: questa legge eterna è conosciuta tanto attraverso la ragione naturale
dell'uomo (e così è « legge naturale »), quanto — in modo integrale e
perfetto — attraverso la rivelazione soprannaturale di Dio (e così è
chiamata « legge divina »). L'agire è moralmente buono quando le scelte della
libertà sono conformi al vero bene
dell'uomo ed esprimono così l'ordinazione volontaria della persona verso il
suo fine ultimo, cioè Dio stesso: il bene supremo nel quale l'uomo trova la sua
piena e perfetta felicità. La domanda iniziale del colloquio del giovane con
Gesù: « Che cosa devo fare di buono per ottenere la vita eterna? » (Mt
19,16) mette immediatamente in luce l'essenziale
legame tra il valore morale di un atto e il fine ultimo dell'uomo. Gesù,
nella sua risposta, conferma la convinzione del suo interlocutore: il compimento
di atti buoni, comandati da Colui che « solo è buono », costituisce la
condizione indispensabile e la via per la beatitudine eterna: « Se vuoi entrare
nella vita, osserva i comandamenti » (Mt 19,17). La risposta di Gesù e il rimando ai comandamenti
manifestano anche che la via al fine è segnata dal rispetto delle leggi divine
che tutelano il bene umano. Solo l'atto
conforme al bene può essere via che conduce alla vita.
L'ordinazione
razionale dell'atto umano al bene nella sua verità e il perseguimento
volontario di questo bene, conosciuto dalla ragione, costituiscono la moralità.
Pertanto, l'agire umano non può essere valutato moralmente buono solo perché
funzionale a raggiungere questo o quello scopo, che persegue, o semplicemente
perché l'intenzione del soggetto è buona.122 L'agire è moralmente buono
quando attesta ed esprime l'ordinazione volontaria della persona al fine ultimo
e la conformità dell'azione concreta con il bene umano come viene riconosciuto
nella sua verità dalla ragione. Se l'oggetto dell'azione concreta non è in
sintonia con il bene vero della persona, la scelta di tale azione rende la
nostra volontà e noi stessi moralmente cattivi e, quindi, ci mette in contrasto
con il nostro fine ultimo, il bene supremo, cioè Dio stesso.
73.
Il cristiano, grazie alla rivelazione di Dio e alla fede, conosce la « novità
» da cui è segnata la moralità dei suoi atti; questi sono chiamati ad
esprimere la coerenza o meno con quella dignità e vocazione che gli sono state
donate dalla grazia: in Gesù Cristo e nel suo Spirito, il cristiano è «
creatura nuova », figlio di Dio, e mediante i suoi atti manifesta la sua
conformità o difformità con l'immagine del Figlio che è il primogenito tra
molti fratelli (cf Rm 8,29), vive la
sua fedeltà o infedeltà al dono dello Spirito e si apre o si chiude alla vita
eterna, alla comunione di visione, di amore e di beatitudine con Dio Padre,
Figlio e Spirito Santo.123 Cristo « ci forma secondo la sua immagine — scrive
san Cirillo Alessandrino —, in modo che i lineamenti della sua divina natura
risplendano in noi attraverso la santificazione e la giustizia e la vita buona e
conforme a virtù... La bellezza di questa immagine risplende in noi che siamo
in Cristo, quando ci mostriamo uomini buoni nelle opere ».124
In
questo senso la vita morale possiede un essenziale carattere
« teleologico », perché consiste nella deliberata ordinazione degli atti
umani a Dio, sommo bene e fine (telos)
ultimo dell'uomo. Lo attesta, ancora una volta, la domanda del giovane a Gesù:
« Che cosa devo fare di buono per ottenere la vita eterna? ». Ma questa
ordinazione al fine ultimo non è una dimensione soggettivistica che dipende
solo dall'intenzione. Essa presuppone che tali atti siano in se stessi
ordinabili a questo fine, in quanto conformi all'autentico bene morale
dell'uomo, tutelato dai comandamenti. È ciò che ricorda Gesù stesso nella
risposta al giovane: « Se vuoi entrare nella vita, osserva i comandamenti » (Mt
19,17).
Evidentemente
dev'essere un'ordinazione razionale e libera, cosciente e deliberata, in forza
della quale l'uomo è « responsabile » dei suoi atti ed è soggetto al
giudizio di Dio, giudice giusto e buono che premia il bene e castiga il male,
come ci ricorda l'apostolo Paolo: « Tutti infatti dobbiamo comparire davanti al
tribunale di Cristo, ciascuno per ricevere la ricompensa delle opere compiute
finché era nel corpo, sia in bene che in male » (2
Cor 5,10).
74.
Ma da che cosa dipende la qualificazione morale dell'agire libero dell'uomo? Da
che cosa è assicurata questa ordinazione
a Dio degli atti umani? Dall'intenzione
del soggetto che agisce, dalle circostanze
— e in particolare dalle conseguenze — del suo agire, dall'oggetto
stesso del suo atto?
È
questo il problema tradizionalmente chiamato delle « fonti della moralità ».
Proprio a riguardo di tale problema, in questi decenni si sono manifestate nuove
— o ripristinate — tendenze culturali e teologiche che esigono un accurato
discernimento da parte del Magistero della Chiesa.
Alcune
teorie etiche, denominate «
teleologiche », si presentano attente alla conformità degli atti umani con
i fini perseguiti dall'agente e con i valori da lui intesi. I criteri per
valutare la giustezza morale di un'azione sono ricavati dalla
ponderazione dei beni non-morali o pre-morali da conseguire e dei rispettivi
valori non-morali o pre-morali da rispettare. Per taluni il comportamento
concreto sarebbe giusto, o sbagliato, a seconda che possa, o non possa, produrre
uno stato di cose migliore per tutte le persone interessate: sarebbe giusto il
comportamento in grado di « massimizzare » i beni e di « minimizzare » i
mali.
Molti
dei moralisti cattolici, che seguono questo orientamento, intendono prendere le
distanze dall'utilitarismo e dal pragmatismo, per cui la moralità degli atti
umani sarebbe giudicata senza far riferimento al vero fine ultimo dell'uomo.
Essi giustamente si rendono conto della necessità di trovare argomentazioni
razionali, sempre più consistenti, per giustificare le esigenze e fondare le
norme della vita morale. E tale ricerca è legittima e necessaria, dal momento
che l'ordine morale, stabilito dalla legge naturale, è in linea di principio
accessibile alla ragione umana. È ricerca, del resto, che corrisponde alle
esigenze del dialogo e della collaborazione con i non-cattolici e i
non-credenti, particolarmente nelle società pluralistiche.
75.
Ma all'interno dello sforzo di elaborare una simile morale razionale —
talvolta chiamata a questo titolo « morale autonoma » —, esistono false
soluzioni, legate in particolare ad una inadeguata comprensione dell'oggetto
dell'agire morale. Alcuni non tengono in sufficiente considerazione il fatto
che la volontà è coinvolta nelle scelte concrete che essa opera: queste sono
condizione della sua bontà morale e della sua ordinazione al fine ultimo della
persona. Altri poi si ispirano ad una
concezione della libertà che prescinde dalle condizioni effettive del suo
esercizio, dal suo riferimento oggettivo alla verità sul bene, dalla sua
determinazione mediante scelte di comportamenti concreti. Così, secondo queste
teorie, la volontà libera non sarebbe né moralmente sottomessa a obbligazioni
determinate, né informata dalle sue scelte, pur rimanendo responsabile dei
propri atti e delle loro conseguenze. Questo «
teleologismo », come metodo di rinvenimento della norma morale, può allora
— secondo terminologie e approcci mutuati da differenti correnti di pensiero
— chiamarsi « consequenzialismo » o
« proporzionalismo ». Il primo
pretende di ricavare i criteri della giustezza di un determinato agire solo dal
calcolo delle conseguenze che si prevedono derivare dall'esecuzione di una
scelta. Il secondo, ponderando tra loro valori e beni perseguiti, si focalizza
piuttosto sulla proporzione riconosciuta tra gli effetti buoni e cattivi, in
vista del « più grande bene » o del « minor male » effettivamente possibili
in una situazione particolare.
Le
teorie etiche teleologiche (proporzionalismo, consequenzialismo), pur
riconoscendo che i valori morali sono indicati dalla ragione e dalla
Rivelazione, ritengono che non si possa mai formulare una proibizione assoluta
di determinati comportamenti, che sarebbero contrastanti, in ogni circostanza e
in ogni cultura, con quei valori. Il soggetto che agisce sarebbe sì
responsabile del raggiungimento dei valori perseguiti, ma secondo un duplice
aspetto: infatti, i valori o beni coinvolti in un atto umano sarebbero, per un
aspetto, di ordine morale (in rapporto
a valori propriamente morali, come l'amore di Dio, la benevolenza verso il
prossimo, la giustizia, ecc.) e, per un altro aspetto, di
ordine pre-morale, detto anche non-morale o fisico o ontico (in rapporto ai
vantaggi e svantaggi recati sia a colui che agisce che ad altre persone, prima o
poi coinvolte, come, ad esempio, la salute o la sua lesione, l'integrità
fisica, la vita, la morte, la perdita di beni materiali, ecc.). In un mondo in
cui il bene sarebbe sempre mescolato al male ed ogni effetto buono legato ad
altri effetti cattivi, la moralità dell'atto si giudicherebbe in modo
differenziato: la sua « bontà » morale sulla base dell'intenzione del
soggetto riferita ai beni morali e la sua « giustezza » sulla base della
considerazione degli effetti o conseguenze prevedibili e della loro proporzione.
Di conseguenza, i comportamenti concreti sarebbero da qualificarsi come «
giusti » o « sbagliati », senza che per questo sia possibile valutare come
moralmente « buona » o « cattiva » la volontà della persona che li sceglie.
In questo modo, un atto, che ponendosi in contraddizione con una norma
universale negativa viola direttamente beni considerati come pre-morali,
potrebbe essere qualificato come moralmente ammissibile, se l'intenzione del
soggetto si concentra, secondo una « responsabile » ponderazione dei beni
coinvolti nell'azione concreta, sul valore morale giudicato decisivo nella
circostanza.
La
valutazione delle conseguenze dell'azione, in base alla proporzione dell'atto
con i suoi effetti e degli effetti tra di loro, riguarderebbe l'ordine solo
pre-morale. Sulla specificità morale degli atti, ossia sulla loro bontà o
malizia, deciderebbe esclusivamente la fedeltà della persona ai valori più
alti della carità e della prudenza, senza che questa fedeltà sia
necessariamente incompatibile con scelte contrarie a certi precetti morali
particolari. Anche in materia grave, questi ultimi dovrebbero essere considerati
come norme operative sempre relative e suscettibili di eccezioni.
In
questa prospettiva il consenso deliberato a certi comportamenti dichiarati
illeciti dalla morale tradizionale non implicherebbe una malizia morale
oggettiva.
L'oggetto
dell'atto deliberato
76.
Queste teorie possono acquistare una certa forza persuasiva dalla loro affinità
con la mentalità scientifica, giustamente preoccupata di ordinare le attività
tecniche ed economiche in base al calcolo delle risorse e dei profitti, dei
procedimenti e degli effetti. Esse vogliono liberare dalle costrizioni di una
morale dell'obbligazione, volontarista e arbitraria, che si rivelerebbe
disumana.
Siffatte
teorie non sono però fedeli alla dottrina della Chiesa, allorché credono di
poter giustificare, come moralmente buone, scelte deliberate di comportamenti
contrari ai comandamenti della legge divina e naturale. Queste teorie non
possono richiamarsi alla tradizione morale cattolica: se è vero che in
quest'ultima si è sviluppata una casistica attenta a ponderare in alcune
situazioni concrete le possibilità maggiori di bene, è altrettanto vero che ciò
riguardava solo i casi in cui la legge era incerta e, pertanto, non metteva in
discussione la validità assoluta dei precetti morali negativi che obbliga senza
eccezione. I fedeli sono tenuti a riconoscere e a rispettare i precetti morali
specifici, dichiarati e insegnati dalla Chiesa in nome di Dio, Creatore e
Signore.125 Quando l'apostolo Paolo ricapitola nel precetto di amare il prossimo
come se stessi il compimento della legge (cf Rm
13,8-10), non attenua i comandamenti, ma piuttosto li conferma, dal momento
che ne rivela le esigenze e la gravità. L'amore
di Dio e l'amore del prossimo sono inseparabili dall'osservanza dei comandamenti
dell'Alleanza, rinnovata nel sangue di Gesù Cristo e nel dono dello
Spirito. È onore proprio dei cristiani obbedire a Dio piuttosto che agli uomini
(cf At 4,19; 5,29) ed accettare per questo anche il martirio, come hanno
fatto i santi e le sante dell'Antico e del Nuovo Testamento, riconosciuti tali
per aver dato la loro vita piuttosto che compiere questo o quel gesto
particolare contrario alla fede o alla virtù.
77.
Per offrire i criteri razionali di una giusta decisione morale, le accennate
teorie tengono conto dell'intenzione e
delle conseguenze dell'azione umana. Sono certamente da prendere in
grande considerazione sia l'intenzione — come insiste con una forza
particolare Gesù in aperta contrapposizione agli scribi e farisei, che
minuziosamente prescrivevano certe opere esteriori senza badare al cuore (cf Mc
7,20-21; Mt 15,19) —, sia i beni ottenuti e i mali evitati, a seguito di un
atto particolare. Si tratta di un'esigenza di responsabilità. Ma la
considerazione di queste conseguenze — nonché delle intenzioni — non è
sufficiente a valutare la qualità morale di una scelta concreta. La
ponderazione dei beni e dei mali, prevedibili in conseguenza di un'azione, non
è un metodo adeguato per determinare se la scelta di quel comportamento
concreto è « secondo la sua specie », o « in se stessa », moralmente buona
o cattiva, lecita o illecita. Le conseguenze prevedibili appartengono a quelle
circostanze dell'atto, che, se possono modificare la gravità di un atto
cattivo, non possono però cambiarne la specie morale.
Ciascuno,
del resto, conosce le difficoltà — o meglio l'impossibilità — di valutare
tutte le conseguenze e tutti gli effetti buoni o cattivi — definiti pre-morali
— dei propri atti: un calcolo razionale esaustivo non è possibile. Come fare
allora per stabilire delle proporzioni che dipendono da una valutazione, i cui
criteri restano oscuri? In che modo potrebbe giustificarsi un obbligo assoluto
su calcoli tanto discutibili?
78.
La moralità dell'atto umano dipende
anzitutto e fondamentalmente dall'oggetto ragionevolmente scelto dalla volontà
deliberata, come prova anche la penetrante analisi, tuttora valida, di san
Tommaso.126 Per poter cogliere l'oggetto di un atto che lo specifica moralmente
occorre quindi collocarsi nella
prospettiva della persona che agisce. Infatti, l'oggetto dell'atto del
volere è un comportamento liberamente scelto. In quanto conforme all'ordine
della ragione, esso è causa della bontà della volontà, ci perfeziona
moralmente e ci dispone a riconoscere il nostro fine ultimo nel bene perfetto,
l'amore originario. Per oggetto di un determinato atto morale non si può,
dunque, intendere un processo o un evento di ordine solamente fisico, da
valutare in quanto provoca un determinato stato di cose nel mondo esteriore.
Esso è il fine prossimo di una scelta deliberata, che determina l'atto del
volere della persona che agisce. In tal senso, come insegna il Catechismo
della Chiesa Cattolica, « vi sono comportamenti concreti che è sempre
sbagliato scegliere, perché la loro scelta comporta un disordine della volontà,
cioè un male morale ».127 « Spesso infatti — scrive l'Aquinate — qualcuno
agisce con buona intenzione, ma inutilmente, in quanto manca la buona volontà:
come nel caso di uno che rubi per nutrire un povero, c'è sì la retta
intenzione, manca tuttavia la rettitudine della debita volontà. Di conseguenza,
nessun male compiuto con buona intenzione può essere scusato: "Come coloro
che dicono: Facciamo il male perché venga il bene; la condanna dei quali è
giusta" (Rm 3,8) ».128
La
ragione per cui non basta la buona intenzione ma occorre anche la retta scelta
delle opere, sta nel fatto che l'atto umano dipende dal suo oggetto, ossia se
questo è ordinabile o meno a Dio, a Colui che « solo è buono », e così
realizza la perfezione della persona. L'atto è buono, quindi, se il suo oggetto
è conforme al bene della persona nel rispetto dei beni per essa moralmente
rilevanti. L'etica cristiana, che privilegia l'attenzione all'oggetto morale,
non rifiuta di considerare l'interiore « teleologia » dell'agire, in quanto
volto a promuovere il vero bene della persona, ma riconosce che esso viene
realmente perseguito solo quando si rispettano gli elementi essenziali della
natura umana. L'atto umano, buono secondo il suo oggetto, è anche ordinabile
al fine ultimo. Lo stesso atto raggiunge poi la sua perfezione ultima e
decisiva quando la volontà lo ordina
effettivamente a Dio mediante la carità. In tal senso, il Patrono dei
moralisti e dei confessori insegna: « Non basta fare opere buone, ma bisogna
farle bene. Acciocché le opere nostre siano buone e perfette, è necessario
farle col puro fine di piacere a Dio ».129
Il
« male intrinseco »: non è lecito fare il male a scopo di bene
(cf Rm 3,8)
79.
È da respingere quindi la tesi, propria
delle teorie teleologiche e proporzionaliste, secondo
cui sarebbe impossibile qualificare come moralmente cattiva secondo la sua
specie — il suo « oggetto » — la
scelta deliberata di alcuni comportamenti o atti determinati prescindendo
dall'intenzione per cui la scelta viene fatta o dalla totalità delle
conseguenze prevedibili di quell'atto per tutte le persone interessate.
L'elemento
primario e decisivo per il giudizio morale è l'oggetto dell'atto umano, il
quale decide sulla sua ordinabilità al
bene e al fine ultimo, che è Dio. Tale ordinabilità viene colta dalla
ragione nell'essere stesso dell'uomo, considerato nella sua verità integrale,
dunque nelle sue inclinazioni naturali, nei suoi dinamismi e nelle sue finalità
che hanno sempre anche una dimensione spirituale: sono esattamente questi i
contenuti della legge naturale, e quindi il complesso ordinato dei « beni per
la persona » che si pongono al servizio del « bene della persona », di quel
bene che è essa stessa e la sua perfezione. Sono questi i beni tutelati dai
comandamenti, i quali, secondo san Tommaso, contengono tutta la legge
naturale.130
80.
Ora la ragione attesta che si danno degli oggetti dell'atto umano che si
configurano come « non-ordinabili » a Dio, perché contraddicono radicalmente
il bene della persona, fatta a sua immagine. Sono gli atti che, nella tradizione
morale della Chiesa, sono stati denominati « intrinsecamente cattivi » (intrinsece
malum): lo sono sempre e per sé, ossia per il loro stesso oggetto,
indipendentemente dalle ulteriori intenzioni di chi agisce e dalle circostanze.
Per questo, senza minimamente negare l'influsso che sulla moralità hanno le
circostanze e soprattutto le intenzioni, la Chiesa insegna che « esistono atti
che, per se stessi e in se stessi, indipendentemente dalle circostanze, sono
sempre gravemente illeciti, in ragione del loro oggetto ».131 Lo stesso
Concilio Vaticano II, nel contesto del dovuto rispetto della persona umana,
offre un'ampia esemplificazione di tali atti: « Tutto ciò che è contro la
vita stessa, come ogni specie di omicidio, il genocidio, l'aborto, l'eutanasia e
lo stesso suicidio volontario; tutto ciò che viola l'integrità della persona
umana, come le mutilazioni, le torture inflitte al corpo e alla mente, gli
sforzi per violentare l'intimo dello spirito; tutto ciò che offende la dignità
umana, come le condizioni infraumane di vita, le incarcerazioni arbitrarie, le
deportazioni, la schiavitù, la prostituzione, il mercato delle donne e dei
giovani, o ancora le ignominiose condizioni del lavoro con le quali i lavoratori
sono trattati come semplici strumenti di guadagno, e non come persone libere e
responsabili; tutte queste cose, e altre simili, sono certamente vergognose e,
mentre guastano la civiltà umana, ancor più inquinano coloro che così si
comportano, che non quelli che le subiscono, e ledono grandemente l'onore del
Creatore ».132
Sugli
atti intrinsecamente cattivi, e in riferimento alle pratiche contraccettive
mediante le quali l'atto coniugale è reso intenzionalmente infecondo, Paolo VI
insegna: « In verità, se è lecito, talvolta, tollerare un minor male morale
al fine di evitare un male maggiore o di promuovere un bene più grande, non è
lecito, neppure per ragioni gravissime, fare il male, affinché ne venga il bene
(cf Rm 3,8), cioè fare oggetto di un
atto positivo di volontà ciò che è intrinsecamente disordine e quindi indegno
della persona umana, anche se nell'intento di salvaguardare o promuovere beni
individuali, familiari o sociali ».133
81.
Insegnando l'esistenza di atti intrinsecamente cattivi, la Chiesa accoglie la
dottrina della Sacra Scrittura. L'apostolo Paolo afferma in modo categorico: «
Non illudetevi: né immorali, né idolatri, né adulteri, né effeminati, né
sodomiti, né ladri, né ubriaconi, né maldicenti, né rapaci erediteranno il
Regno di Dio » (1 Cor 6,9-10).
Se
gli atti sono intrinsecamente cattivi, un'intenzione buona o circostanze
particolari possono attenuarne la malizia, ma non possono sopprimerla: sono atti
« irrimediabilmente » cattivi, per se stessi e in se stessi non sono
ordinabili a Dio e al bene della persona: « Quanto agli atti che sono per se
stessi dei peccati (cum iam opera ipsa
peccata sunt) — scrive sant'Agostino —, come il furto, la fornicazione,
la bestemmia, o altri atti simili, chi oserebbe affermare che, compiendoli per
buoni motivi (causis bonis), non
sarebbero più peccati o, conclusione ancora più assurda, che sarebbero peccati
giustificati? ».134
Per
questo, le circostanze o le intenzioni non potranno mai trasformare un atto
intrinsecamente disonesto per il suo oggetto in un atto « soggettivamente »
onesto o difendibile come scelta.
82.
Del resto, l'intenzione è buona quando mira al vero bene della persona in vista
del suo fine ultimo. Ma gli atti, il cui oggetto è « non-ordinabile » a Dio e
« indegno della persona umana », si oppongono sempre e in ogni caso a questo
bene. In tal senso il rispetto delle norme che proibiscono tali atti e che
obbligano semper et pro semper, ossia senza alcuna eccezione, non solo non
limita la buona intenzione, ma costituisce addirittura la sua espressione
fondamentale.
La
dottrina dell'oggetto, quale fonte della moralità, costituisce un'esplicitazione autentica della morale biblica dell'Alleanza e dei
comandamenti, della carità e delle virtù. La qualità morale dell'agire umano
dipende da questa fedeltà ai comandamenti, espressione di obbedienza e di
amore. È per questo — lo ripetiamo — che è da respingere come erronea
l'opinione che ritiene impossibile qualificare moralmente come cattiva secondo
la sua specie la scelta deliberata di alcuni comportamenti o atti determinati,
prescindendo dall'intenzione per cui la scelta viene fatta o dalla totalità
delle conseguenze prevedibili di quell'atto per tutte le persone interessate.
Senza questa determinazione razionale
della moralità dell'agire umano, sarebbe impossibile affermare un « ordine
morale oggettivo » 135 e stabilire una qualsiasi norma determinata dal punto di
vista del contenuto, che obblighi senza eccezioni; e ciò a scapito della
fraternità umana e della verità sul bene, e a detrimento altresì della
comunione ecclesiale.
83.
Come si vede, nella questione della moralità degli atti umani, e in particolare
in quella dell'esistenza degli atti intrinsecamente cattivi, si concentra in un
certo senso la questione stessa dell'uomo, della sua verità e delle conseguenze morali che ne derivano. Riconoscendo e
insegnando l'esistenza del male intrinseco in determinati atti umani, la Chiesa
rimane fedele alla verità integrale dell'uomo, e quindi lo rispetta e lo
promuove nella sua dignità e vocazione. Essa, di conseguenza, deve respingere
le teorie sopra esposte che si pongono in contrasto con questa verità.
Bisogna
però che noi, Fratelli nell'Episcopato, non ci fermiamo solo ad ammonire i
fedeli circa gli errori e i pericoli di alcune teorie etiche. Dobbiamo, prima di
tutto, mostrare l'affascinante splendore di quella verità che è Gesù Cristo
stesso. In Lui, che è la Verità (cf Gv 14,6),
l'uomo può comprendere pienamente e vivere perfettamente, mediante gli atti
buoni, la sua vocazione alla libertà nell'obbedienza alla legge divina, che si
compendia nel comandamento dell'amore di Dio e del prossimo. Ed è quanto
avviene con il dono dello Spirito Santo, Spirito di verità, di libertà e di
amore: in Lui ci è dato di interiorizzare la legge e di percepirla e viverla
come il dinamismo della vera libertà personale: « la legge perfetta, la legge
della libertà » (Gc 1,25).
CAPITOLO III «
PERCHÉ NON VENGA RESA VANA
Il bene
morale per la vita della chiesa e del mondo «
Cristo ci ha liberati perché restassimo liberi »
(Gal 5,1)
84.
La questione fondamentale che le
teorie morali sopra ricordate pongono con particolare forza è quella del
rapporto tra la libertà dell'uomo e la legge di Dio, ultimamente è la
questione del rapporto tra la libertà e
la verità.
Secondo
la fede cristiana e la dottrina della Chiesa, « solamente la libertà che si
sottomette alla Verità conduce la persona umana al suo vero bene. Il bene della
persona è di essere nella Verità e di fare
la Verità ».136
Il
confronto tra la posizione della Chiesa e la situazione sociale e culturale
d'oggi mette immediatamente in luce l'urgenza che proprio su
tale questione fondamentale si sviluppi un'intensa
opera pastorale da parte della Chiesa stessa: « Questo essenziale legame di
Verità-Bene-Libertà è stato smarrito in larga parte dalla cultura
contemporanea e, pertanto, ricondurre l'uomo a riscoprirlo è oggi una delle
esigenze proprie della missione della Chiesa, per la salvezza del mondo. La
domanda di Pilato: "Che cosa è la verità?" emerge anche dalla
sconsolata perplessità di un uomo che spesso non sa più chi
è, donde viene e dove va. E così
assistiamo non di rado al pauroso precipitare della persona umana in situazioni
di autodistruzione progressiva. A voler ascoltare certe voci, sembra di non
doversi più riconoscere l'indistruttibile assolutezza di alcun valore morale.
Sono sotto gli occhi di tutti il disprezzo della vita umana già concepita e non
ancora nata; la violazione permanente di fondamentali diritti della persona;
l'iniqua distruzione dei beni necessari per una vita semplicemente umana. Anzi,
qualcosa di più grave è accaduto: l'uomo non è più convinto che solo nella
verità può trovare la salvezza. La forza salvifica del vero è contestata,
affidando alla sola libertà, sradicata da ogni obiettività, il compito di
decidere autonomamente ciò che è bene e ciò che è male. Questo relativismo
diviene, nel campo teologico, sfiducia nella sapienza di Dio, che guida l'uomo
con la legge morale. A ciò che la legge morale prescrive si contrappongono le
cosiddette situazioni concrete, non ritenendo più, in fondo, che la legge di
Dio sia sempre l'unico vero bene
dell'uomo ».137
85.
L'opera di discernimento di queste teorie etiche da parte della Chiesa non si
restringe alla loro denuncia e al loro rifiuto, ma mira positivamente a
sostenere con grande amore tutti i fedeli nella formazione d'una coscienza
morale che giudichi e conduca a decisioni secondo verità, come esorta
l'apostolo Paolo: « Non conformatevi alla mentalità di questo secolo, ma
trasformatevi rinnovando la vostra mente, per poter discernere la volontà di
Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto » (Rm
12, 2). Quest'opera della Chiesa trova il suo punto di forza — il suo «
segreto » formativo — non tanto negli enunciati dottrinali e negli appelli
pastorali alla vigilanza, quanto nel
tenere lo sguardo fisso sul Signore Gesù. La Chiesa ogni giorno guarda con
instancabile amore a Cristo, pienamente consapevole che solo in lui sta la
risposta vera e definitiva al problema morale.
In
particolare, in Gesù crocifisso essa trova
la risposta alla questione che tormenta oggi tanti uomini: come può
l'obbedienza alle norme morali universali e immutabili rispettare l'unicità e
l'irripetibilità della persona e non attentare alla sua libertà e dignità? La
Chiesa fa sua la coscienza che l'apostolo Paolo aveva della missione ricevuta:
« Cristo... mi ha mandato... a predicare il vangelo; non però con un discorso
sapiente, perché non venga resa vana la croce di Cristo... Noi predichiamo
Cristo crocifisso, scandalo per i Giudei, stoltezza per i pagani; ma per coloro
che sono chiamati, sia Giudei che Greci, predichiamo Cristo potenza di Dio e
sapienza di Dio » (1 Cor 1,17.23-24).Cristo
crocifisso rivela il senso autentico della libertà, lo vive in pienezza nel
dono totale di sé e chiama i discepoli a prendere parte alla sua stessa
libertà.
86.
La riflessione razionale e l'esperienza quotidiana dimostrano la debolezza, da
cui è segnata la libertà dell'uomo. È libertà reale, ma finita: non ha il
suo punto di partenza assoluto e incondizionato in se stessa, ma nell'esistenza
dentro cui si trova e che rappresenta per essa, nello stesso tempo, un limite e
una possibilità. È la libertà di una creatura, ossia una libertà donata, da
accogliere come un germe e da far maturare con responsabilità. È parte
costitutiva di quell'immagine creaturale, che fonda la dignità della persona:
in essa risuona la vocazione originaria con cui il Creatore chiama l'uomo al
vero Bene, e ancora di più, con la rivelazione di Cristo, a entrare in amicizia
con lui, partecipando alla stessa vita divina. È insieme inalienabile
autopossesso e apertura universale ad ogni esistente, nell'uscita da sé verso
la conoscenza e l'amore dell'altro.138 La libertà si radica dunque nella verità
dell'uomo ed è finalizzata alla comunione.
Ragione
ed esperienza dicono non solo la debolezza della libertà umana, ma anche il suo
dramma. L'uomo scopre che la sua libertà è misteriosamente inclinata a tradire
questa apertura al Vero e al Bene e che troppo spesso, di fatto, egli preferisce
scegliere beni finiti, limitati ed effimeri. Ancor più, dentro gli errori e le
scelte negative, l'uomo avverte l'origine di una ribellione radicale, che lo
porta a rifiutare la Verità e il Bene per erigersi a principio assoluto di se
stesso: « Voi diventerete come Dio » (Gn
3,5). La libertà, quindi, ha
bisogno di essere liberata. Cristo ne è il liberatore: egli « ci ha
liberati perché restassimo liberi » (Gal
5,1).
87.
Cristo rivela, anzitutto, che il riconoscimento onesto e aperto della verità
è condizione di autentica libertà: « Conoscerete la verità e la verità
vi farà liberi » (Gv 8,32).139 È la
verità che rende liberi davanti al potere e dà la forza del martirio. Così è
di Gesù davanti a Pilato: « Per questo io sono nato e per questo sono venuto
nel mondo: per rendere testimonianza alla verità » (Gv 18,37). Così i veri adoratori di Dio devono adorarlo « in
spirito e verità » (Gv 4,23): in
questa adorazione diventano liberi. Il legame con la verità e l'adorazione di
Dio si manifestano in Gesù Cristo come la più intima radice della libertà.
Gesù
rivela, inoltre, con la sua stessa esistenza e non solo con le parole, che la
libertà si realizza nell'amore, cioè
neldono di sé. Lui che dice: « Nessuno ha un amore più grande di
questo: dare la vita per i propri amici » (Gv
15,13), va incontro liberamente alla Passione (cf Mt 26,46) e nella sua obbedienza al Padre sulla Croce dà la vita
per tutti gli uomini (cf Fil 2, 6-11).
In tal modo la contemplazione di Gesù crocifisso è la via maestra sulla quale
la Chiesa deve camminare ogni giorno se vuole comprendere l'intero senso della
libertà: il dono di sé nel servizio a
Dio e ai fratelli. La comunione poi con il Signore crocifisso e risorto è
la sorgente inesauribile alla quale la Chiesa attinge senza sosta per vivere
nella libertà, donarsi e servire. Commentando il versetto del Salmo 99 (100) «
Servite il Signore nella gioia », sant'Agostino dice: « Nella casa del Signore
libera è la schiavitù. Libera, poiché il servizio non l'impone la necessità,
ma la carità... La carità ti renda servo, come la verità ti ha fatto
libero... Allo stesso tempo tu sei servo e libero: servo, perché ci diventasti;
libero, perché sei amato da Dio, tuo creatore; anzi, libero anche perché ti è
dato di amare il tuo creatore... Sei servo del Signore e sei libero del Signore.
Non cercare una liberazione che ti porti lontano dalla casa del tuo liberatore!
».140
In
tal modo la Chiesa, e ciascun cristiano in essa, è chiamata a partecipare al munus
regale di Cristo in croce (cf Gv 12,32),
alla grazia e alla responsabilità del Figlio dell'uomo, che « non è venuto
per essere servito, ma per servire e dare la sua vita in riscatto per molti » (Mt
20,28).141
Gesù,
dunque, è la sintesi viva e personale della perfetta libertà nell'obbedienza
totale alla volontà di Dio. La sua carne crocifissa è la piena Rivelazione del
vincolo indissolubile tra libertà e verità, così come la sua risurrezione da
morte è l'esaltazione suprema della fecondità e della forza salvifica di una
libertà vissuta nella verità.
Camminare
nella luce (cf 1
Gv 1,7)
88.
La contrapposizione, anzi la radicale dissociazione tra libertà e verità è
conseguenza, manifestazione e compimento di un'altra
più grave e deleteria dicotomia, quella che separa la fede dalla morale.
Questa
separazione costituisce una delle più acute preoccupazioni pastorali della
Chiesa nell'attuale processo di secolarismo, nel quale tanti, troppi uomini
pensano e vivono « come se Dio non esistesse ». Siamo di fronte ad una
mentalità che coinvolge, spesso in modo profondo, vasto e capillare, gli
atteggiamenti e i comportamenti degli stessi cristiani, la cui fede viene
svigorita e perde la propria originalità di nuovo criterio interpretativo e
operativo per l'esistenza personale, familiare e sociale. In realtà, i criteri
di giudizio e di scelta assunti dagli stessi credenti si presentano spesso, nel
contesto di una cultura ampiamente scristianizzata, estranei o persino
contrapposti a quelli del Vangelo.
Urge
allora che i cristiani riscoprano la novità
della loro fede e la sua forza di giudizio di fronte alla cultura dominante
e invadente: « Se un tempo eravate tenebra — ci ammonisce l'apostolo Paolo
—, ora siete luce nel Signore. Comportatevi perciò come i figli della luce;
il frutto della luce consiste in ogni bontà, giustizia e verità. Cercate ciò
che è gradito al Signore, e non partecipate alle opere infruttuose delle
tenebre, ma piuttosto condannatele apertamente... Vigilate dunque attentamente
sulla vostra condotta, comportandovi non da stolti, ma da uomini saggi;
profittando del tempo presente, perché i giorni sono cattivi » (Ef
5, 8-11.15-16; cf 1 Ts 5,4-8).
Urge
ricuperare e riproporre il vero volto della fede cristiana, che non è
semplicemente un insieme di proposizioni da accogliere e ratificare con la
mente. È invece una conoscenza vissuta di Cristo, una memoria vivente dei suoi
comandamenti, una verità da vivere. Del resto, una parola non è veramente accolta
se non quando passa negli atti, se non quando viene messa in pratica. La fede è
una decisione che impegna tutta l'esistenza. È incontro, dialogo, comunione di
amore e di vita del credente con Gesù Cristo, Via, Verità e Vita (cf Gv
14,6). Comporta un atto di confidenza e di abbandono a Cristo, e ci dona di
vivere come lui ha vissuto (cf Gal 2,20),
ossia nel più grande amore a Dio e ai fratelli.
89.
La fede possiede anche un contenuto morale: origina ed esige un impegno coerente
di vita, comporta e perfeziona l'accoglienza e l'osservanza dei comandamenti
divini. Come scrive l'evangelista Giovanni, « Dio è luce e in lui non ci sono
tenebre. Se diciamo che siamo in comunione con lui e camminiamo nelle tenebre,
mentiamo e non mettiamo in pratica la verità... Da questo sappiamo d'averlo
conosciuto: se osserviamo i suoi comandamenti. Chi dice: "Lo conosco"
e non osserva i suoi comandamenti, è bugiardo e la verità non è in lui; ma
chi osserva la sua parola, in lui l'amore di Dio è veramente perfetto. Da
questo conosciamo di essere in lui. Chi dice di dimorare in Cristo, deve
comportarsi come lui si è comportato » (1
Gv 1,5-6; 2,3-6).
Mediante
la vita morale la fede diventa « confessione », non solo davanti a Dio, ma
anche davanti agli uomini: si fa
testimonianza. « Voi siete la luce del mondo — ha detto Gesù —; non può
restare nascosta una città collocata sopra un monte, né si accende una lucerna
per metterla sotto il moggio, ma sopra il lucerniere perché faccia luce a tutti
quelli che sono nella casa. Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini,
perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al Padre vostro che è nei
cieli » (Mt 5,14-16). Queste opere sono soprattutto quelle della carità (cf Mt
25,31-46) e dell'autentica libertà che si manifesta e vive nel dono di sé.
Sino al dono totale di sé, come ha
fatto Gesù che sulla croce « ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei »
(Ef 5,25). La testimonianza di Cristo
è fonte, paradigma e risorsa per la testimonianza del discepolo, chiamato a
porsi sulla stessa strada: « Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se
stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua » (Lc
9,23). La carità, secondo le esigenze del radicalismo evangelico, può
portare il credente alla testimonianza suprema del martirio.
Sempre sull'esempio di Gesù che muore in croce: « Fatevi dunque imitatori
di Dio, quali figli carissimi, — scrive Paolo ai cristiani di Efeso — e
camminate nella carità, nel modo che anche Cristo ci ha amato e ha dato se
stesso per noi, offrendosi a Dio in sacrificio di soave odore » (Ef
5,1-2).
Il
martirio, esaltazione della santità inviolabile della legge di Dio
90.
Il rapporto tra fede e morale splende in tutto il suo fulgore nel rispetto
incondizionato che si deve alle esigenze insopprimibili della dignità personale
di ogni uomo, a quelle esigenze difese dalle norme morali che proibiscono
senza eccezioni gli atti intrinsecamente cattivi. L'universalità e
l'immutabilità della norma morale manifestano e, nello stesso tempo, si pongono
a tutela della dignità personale, ossia dell'inviolabilità dell'uomo, sul cui
volto brilla lo splendore di Dio (cf Gn 9,5-6).
L'inaccettabilità
delle teorie etiche « teleologiche », « consequenzia- liste » e «
proporzionaliste », che negano l'esistenza di norme morali negative riguardanti
comportamenti determinati e valide senza eccezioni, trova una conferma
particolarmente eloquente nel fatto del martirio cristiano, che ha sempre
accompagnato e accompagna tuttora la vita della Chiesa.
91.
Già nell'Antica Alleanza incontriamo ammirevoli testimonianze di una fedeltà
alla legge santa di Dio spinta fino alla volontaria accettazione della morte.
Emblematica è la storia di Susanna: ai
due giudici ingiusti, che minacciavano di farla morire se si fosse rifiutata di
cedere alla loro passione impura, così rispose: « Sono alle strette da ogni
parte. Se cedo, è la morte per me, se rifiuto, non potrò scampare dalle vostre
mani. Meglio però per me cadere innocente nelle vostre mani che peccare davanti
al Signore! » (Dn 13,22-23). Susanna,
preferendo « cadere innocente » nelle mani dei giudici, testimonia non solo la
sua fede e fiducia in Dio, ma anche la sua obbedienza alla verità e
all'assolutezza dell'ordine morale: con la sua disponibilità al martirio,
proclama che non è giusto fare ciò che la legge di Dio qualifica come male per
trarre da esso un qualche bene. Essa sceglie per sé la « parte migliore »:
una limpidissima testimonianza, senza nessun compromesso, alla verità circa il
bene e al Dio di Israele; manifesta così, nei suoi atti, la santità di Dio.
Alle
soglie del Nuovo Testamento Giovanni
Battista, rifiutandosi di tacere la legge del Signore e di venire a
compromesso col male, « immolò la sua vita per la verità e la giustizia »
142 e fu così precursore del Messia anche nel martirio (cf Mc
6,17-29). Per questo, « fu rinchiuso nell'oscurità del carcere colui che
venne a rendere testimonianza alla luce e che dalla stessa luce, che è Cristo,
meritò di essere chiamato lampada che arde e illumina... E fu battezzato nel
proprio sangue colui al quale era stato concesso di battezzare il Redentore del
mondo ».143
Nella
Nuova Alleanza si incontrano numerose testimonianze di
seguaci di Cristo — a cominciare dal diacono Stefano (cf At
6,8–7,60) e dall'apostolo Giacomo (cf At
12,1-2) — che sono morti martiri per confessare la loro fede e il loro
amore al Maestro e per non rinnegarlo. In ciò essi hanno seguito il Signore Gesù,
che davanti a Caifa e a Pilato « ha dato la sua bella testimonianza » (1 Tm 6,13), confermando la verità del suo messaggio con il dono
della vita. Innumerevoli altri martiri accettarono le persecuzioni e la morte
piuttosto che porre il gesto idolatrico di bruciare l'incenso davanti alla
statua dell'Imperatore (cf Ap 13,
7-10). Rifiutarono persino di simulare un simile culto, dando così l'esempio
del dovere di astenersi anche da un solo comportamento concreto contrario
all'amore di Dio e alla testimonianza della fede. Nell'obbedienza, essi
affidarono e consegnarono, come Cristo stesso, la loro vita al Padre, a colui
che poteva liberarli dalla morte (cf Eb 5,7).
La
Chiesa propone l'esempio di numerosi santi
e sante, che hanno testimoniato e difeso la verità morale fino al martirio
o hanno preferito la morte ad un solo peccato mortale. Elevandoli all'onore
degli altari, la Chiesa ha canonizzato la loro testimonianza e dichiarato vero
il loro giudizio, secondo cui l'amore di Dio implica obbligatoriamente il
rispetto dei suoi comandamenti, anche nelle circostanze più gravi, e il rifiuto
di tradirli, anche con l'intenzione di salvare la propria vita.
92.
Nel martirio come affermazione dell'inviolabilità dell'ordine morale
risplendono la santità della legge di Dio e insieme l'intangibilità della
dignità personale dell'uomo, creato a immagine e somiglianza di Dio: è una
dignità che non è mai permesso di svilire o di contrastare, sia pure con buone
intenzioni, qualunque siano le difficoltà. Gesù ci ammonisce con la massima
severità: « Che giova all'uomo guadagnare il mondo intero, se poi perde la
propria anima? » (Mc 8,36).
Il
martirio sconfessa come illusorio e falso ogni « significato umano » che si
pretendesse di attribuire, pur in condizioni « eccezionali », all'atto in se
stesso moralmente cattivo; ancor più ne rivela apertamente il vero volto:
quello di una violazione dell'« umanità
» dell'uomo, prima ancora in chi lo compie che non in chi lo subisce.144 Il
martirio è quindi anche esaltazione della perfetta « umanità » e della vera
« vita » della persona, come testimonia sant'Ignazio di Antiochia rivolgendosi
ai cristiani di Roma, luogo del suo martirio: « Abbiate compassione di me,
fratelli: non impeditemi di vivere, non vogliate che io muoia... Lasciate che io
raggiunga la pura luce; giunto là, sarò
veramente uomo. Lasciate che io imiti la passione del mio Dio ».145
93.
Il martirio è infine un segno preclaro
della santità della Chiesa: la fedeltà alla legge santa di Dio,
testimoniata con la morte, è annuncio solenne e impegno missionario usque
ad sanguinem perché lo splendore della verità morale non sia offuscato nel
costume e nella mentalità delle persone e della società. Una simile
testimonianza offre un contributo di straordinario valore perché, non solo
nella società civile ma anche all'interno delle stesse comunità ecclesiali,
non si precipiti nella crisi più pericolosa che può affliggere l'uomo: la confusione
del bene e del male, che rende impossibile costruire e conservare l'ordine
morale dei singoli e delle comunità. I martiri, e più ampiamente tutti i santi
nella Chiesa, con l'esempio eloquente e affascinante di una vita totalmente
trasfigurata dallo splendore della verità morale, illuminano ogni epoca della
storia risvegliandone il senso morale. Dando piena testimonianza al bene, essi
sono un vivente rimprovero a quanti trasgrediscono la legge (cf Sap
2, 12) e fanno risuonare con permanente attualità le parole del profeta: «
Guai a coloro che chiamano bene il male e male il bene, che cambiano le tenebre
in luce e la luce in tenebre, che cambiano l'amaro in dolce e il dolce in amaro
» (Is 5,20).
Se
il martirio rappresenta il vertice della testimonianza alla verità morale, a
cui relativamente pochi possono essere chiamati, vi è nondimento una coerente
testimonianza che tutti i cristiani devono esser pronti a dare ogni giorno anche
a costo di sofferenze e di gravi sacrifici. Infatti di fronte alle molteplici
difficoltà che anche nelle circostanze più ordinarie la fedeltà all'ordine
morale può esigere, il cristiano è chiamato, con la grazia di Dio invocata
nella preghiera, ad un impegno talvolta eroico, sostenuto dalla virtù della
fortezza, mediante la quale — come insegna san Gregorio Magno — egli può
perfino « amare le difficoltà di questo mondo in vista del premio eterno ».146
94.
In questa testimonianza all'assolutezza del bene morale i
cristiani non sono soli: essi trovano conferme nel senso morale dei popoli e
nelle grandi tradizioni religiose e sapienziali dell'Occidente e dell'Oriente,
non senza un'interiore e misteriosa azione dello Spirito di Dio. Valga per tutti
l'espressione del poeta latino Giovenale: « Considera il più grande dei
crimini preferire la sopravvivenza all'onore e, per amore della vita fisica,
perdere le ragioni del vivere ».147 La voce della coscienza ha sempre
richiamato senza ambiguità che ci sono verità e valori morali per i quali si
deve essere disposti anche a dare la vita. Nella parola e soprattutto nel
sacrificio della vita per il valore morale la Chiesa riconosce la medesima
testimonianza a quella verità che, già presente nella creazione, risplende
pienamente sul volto di Cristo: « Sappiamo — scrive san Giustino — che i
seguaci delle dottrine degli stoici sono stati odiati ed uccisi quando hanno
dato prova di saggezza nel loro discorso morale ... a motivo del seme del Verbo
insito in tutto il genere umano ».148
Le norme
morali universali e immutabili al servizio della persona e della società
95.
La dottrina della Chiesa e in particolare la sua fermezza nel difendere la
validità universale e permanente dei precetti che proibiscono gli atti
intrinsecamente cattivi è giudicata non poche volte come il segno di
un'intransigenza intollerabile, soprattutto nelle situazioni enormemente
complesse e conflittuali della vita morale dell'uomo e della società d'oggi:
un'intransigenza che contrasterebbe col senso materno della Chiesa. Questa, si
dice, manca di comprensione e di compassione. Ma, in realtà, la maternità
della Chiesa non può mai essere separata dalla sua missione di insegnamento,
che essa deve compiere sempre come Sposa fedele di Cristo, la Verità in
persona: « Come Maestra, essa non si stanca di proclamare la norma morale... Di
tale norma la Chiesa non è affatto né l'autrice né l'arbitra. In obbedienza
alla verità, che è Cristo, la cui immagine si riflette nella natura e nella
dignità della persona umana, la Chiesa interpreta la norma morale e la propone
a tutti gli uomini di buona volontà, senza nasconderne le esigenze di radicalità
e di perfezione ».149
In
realtà, la vera comprensione e la genuina compassione devono significare amore
alla persona, al suo vero bene, alla sua libertà autentica. E questo non
avviene, certo, nascondendo o indebolendo la verità morale, bensì proponendola
nel suo intimo significato di irradiazione della Sapienza eterna di Dio, giunta
a noi in Cristo, e di servizio all'uomo, alla crescita della sua libertà e al
perseguimento della sua felicità.150
Nello
stesso tempo la presentazione limpida e vigorosa della verità morale non può
mai prescindere da un profondo e sincero rispetto, animato da amore paziente e
fiducioso, di cui ha sempre bisogno l'uomo nel suo cammino morale, spesso reso
faticoso da difficoltà, debolezze e situazioni dolorose. La Chiesa che non può
mai rinunciare al « principio della verità e della coerenza, per cui non
accetta di chiamare bene il male e male il bene »,151 deve essere sempre
attenta a non spezzare la canna incrinata e a non spegnere il lucignolo che
fumiga ancora (cf Is 42,3). Paolo VI
ha scritto: « Non sminuire in nulla la salutare dottrina di Cristo è eminente
forma di carità verso le anime. Ma ciò deve sempre accompagnarsi con la
pazienza e la bontà di cui il Signore stesso ha dato l'esempio nel trattare con
gli uomini. Venuto non per giudicare ma per salvare (cf Gv
3,17), Egli fu certo intransigente con il male, ma misericordioso verso le
persone ».152
96.
La fermezza della Chiesa, nel difendere le norme morali universali e immutabili,
non ha nulla di mortificante. È solo al servizio della vera libertà dell'uomo:
dal momento che non c'è libertà al di fuori o contro la verità, la difesa
categorica, ossia senza cedimenti e compromessi, delle esigenze assolutamente
irrinunciabili della dignità personale dell'uomo, deve dirsi via e condizione
per l'esistere stesso della libertà.
Questo
servizio è rivolto a ogni uomo, considerato
nell'unicità e nell'irripetibilità del suo essere ed esistere: solo
nell'obbedienza alle norme morali universali l'uomo trova piena conferma della
sua unicità di persona e possibilità di vera crescita morale. E, proprio per
questo, tale servizio è rivolto a tutti
gli uomini: non solo ai singoli, ma anche alla comunità, alla società come
tale. Queste norme costituiscono, infatti, il fondamento incrollabile e la
solida garanzia di una giusta e pacifica convivenza umana, e quindi di una vera
democrazia, che può nascere e crescere solo sull'uguaglianza di tutti i suoi
membri, accomunati nei diritti e doveri. Di
fronte alle norme morali che proibiscono il male intrinseco non ci sono
privilegi né eccezioni per nessuno. Essere il padrone del mondo o l'ultimo
« miserabile » sulla faccia della terra non fa alcuna differenza: davanti alle
esigenze morali siamo tutti assolutamente uguali.
97.
Così le norme morali, e in primo luogo quelle negative che proibiscono il male,
manifestano il loro significato e la
loro forza insieme personale e sociale: proteggendo
l'inviolabile dignità personale di ogni uomo, esse servono alla conservazione
stessa del tessuto sociale umano e al suo retto e fecondo sviluppo. In
particolare, i comandamenti della seconda tavola del Decalogo, ricordati anche
da Gesù al giovane del Vangelo (cf Mt
19,18), costituiscono le regole primordiali di ogni vita sociale.
Questi
comandamenti sono formulati in termini generali. Ma, il fatto che « principio,
soggetto e fine di tutte le istituzioni sociali è e deve essere la persona
umana »,153 permette di precisarli e di esplicitarli in un codice di
comportamento più dettagliato. In tal senso le regole morali fondamentali della
vita sociale comportano delle esigenze
determinate alle quali devono attenersi sia i poteri pubblici sia i
cittadini. Al di là delle intenzioni, talvolta buone, e delle circostanze,
spesso difficili, le autorità civili e i soggetti particolari non sono mai
autorizzati a trasgredire i diritti fondamentali e inalienabili della persona
umana. Così, solo una morale che riconosce delle norme valide sempre e per
tutti, senza alcuna eccezione, può garantire il fondamento etico della
convivenza sociale, sia nazionale che internazionale.
La
morale e il rinnovamento della vita sociale e politica
98.
Di fronte alle gravi forme di ingiustizia sociale ed economica e di corruzione
politica di cui sono investiti interi popoli e nazioni, cresce l'indignata
reazione di moltissime persone calpestate e umiliate nei loro fondamentali
diritti umani e si fa sempre più diffuso e acuto il bisogno
di un radicale rinnovamento personale e sociale capace di assicurare
giustizia, solidarietà, onestà, trasparenza.
Certamente
lunga e faticosa è la strada da percorrere; numerosi e ingenti sono gli sforzi
da compiere perché si possa attuare un simile rinnovamento, anche per la
molteplicità e la gravità delle cause che generano e alimentano le situazioni
di ingiustizia oggi presenti nel mondo. Ma, come la storia e l'esperienza di
ciascuno insegnano, non è difficile ritrovare alla base di queste situazioni
cause propriamente « culturali », collegate cioè con determinate visioni
dell'uomo, della società e del mondo. In realtà, al cuore della questione
culturale sta il senso morale, che
a sua volta si fonda e si compie nel senso religioso.154
99.
Solo Dio, il Bene supremo, costituisce la base irremovibile e la condizione
insostituibile della moralità, dunque dei comandamenti, in particolare di
quelli negativi che proibiscono sempre e in ogni caso il comportamento e gli
atti incompatibili con la dignità personale di ogni uomo. Così il Bene supremo
e il bene morale si incontrano nella verità:
la verità di Dio Creatore e Redentore e la verità dell'uomo da Lui creato e
redento. Solo su questa verità è possibile costruire una società rinnovata e
risolvere i complessi e pesanti problemi che la scuotono, primo fra tutti quello
di vincere le più diverse forme di totalitarismo
per aprire la via all'autentica libertà della
persona. « Il totalitarismo nasce dalla negazione della verità in senso
oggettivo: se non esiste una verità trascendente, obbedendo alla quale l'uomo
acquista la sua piena identità, allora non esiste nessun principio sicuro che
garantisca giusti rapporti tra gli uomini. Il loro interesse di classe, di
gruppo, di Nazione li oppone inevitabilmente gli uni agli altri. Se non si
riconosce la verità trascendente, allora trionfa la forza del potere, e
ciascuno tende a realizzare fino in fondo i mezzi di cui dispone per imporre il
proprio interesse o la propria opinione, senza riguardo ai diritti dell'altro...
La radice del moderno totalitarismo, dunque, è da individuare nella negazione
della trascendente dignità della persona umana, immagine visibile del Dio
invisibile e, proprio per questo, per sua natura stessa, soggetto di diritti che
nessuno può violare: né l'individuo, né il gruppo, né la classe, né la
Nazione o lo Stato. Non può farlo nemmeno la maggioranza di un corpo sociale,
ponendosi contro la minoranza, emarginandola, opprimendola, sfruttandola o
tentando di annientarla ».155
Per
questo la connessione inscindibile tra verità e libertà — che esprime il
vincolo essenziale tra la sapienza e la volontà di Dio — possiede un
significato d'estrema importanza per la vita delle persone nell'ambito
socio-economico e socio-politico, come emerge dalla dottrina sociale della
Chiesa — la quale « appartiene... al campo della teologia e, specialmente,
della teologia morale »,156 — e dalla sua presentazione di comandamenti che
regolano, in riferimento non solo ad atteggiamenti generali ma anche a precisi e
determinati comportamenti e atti concreti, la vita sociale, economica e
politica.
100.
Così il Catechismo della Chiesa Cattolica, dopo aver affermato che « in
materia economica, il rispetto della dignità umana esige la pratica della virtù
della temperanza, per moderare
l'attaccamento ai beni di questo mondo; della virtù della giustizia, per rispettare i diritti del prossimo e dargli ciò che
gli è dovuto; e della solidarietà, seguendo
la regola aurea e secondo la liberalità del Signore, il quale "da ricco
che era, si è fatto povero" per noi, perché noi diventassimo "ricchi
per mezzo della sua povertà" (2 Cor 8,9)
»,157 presenta una serie di comportamenti e di atti che contrastano la dignità
umana: il furto, il tenere deliberatamente cose avute in prestito o oggetti
smarriti, la frode nel commercio (cf Dt 25,
13-16), i salari ingiusti (cf Dt 24,14-15;
Gc 5,4), il rialzo dei prezzi
speculando sull'ignoranza e sul bisogno altrui (cf Am 8,4-6), l'appropriazione e l'uso privato dei beni sociali di
un'impresa, i lavori eseguiti male, la frode fiscale, la contraffazione di
assegni e di fatture, le spese eccessive, lo sperpero, ecc.158 Ed ancora: « Il
settimo comandamento proibisce gli atti o le iniziative che, per qualsiasi
ragione, egoistica o ideologica, mercantile o totalitaria, portano all'asservimento
di esseri umani, a misconoscere la loro dignità personale, ad acquistarli,
a venderli e a scambiarli come fossero merci. Ridurre le persone, con la
violenza, ad un valore d'uso oppure ad una fonte di guadagno, è un peccato
contro la loro dignità e i loro diritti fondamentali. San Paolo ordinava ad un
padrone cristiano di trattare il suo schiavo cristiano "non più come uno
schiavo, ma... come un fratello... come uomo..., nel Signore" (Fm 16) ».159
101.
Nell'ambito politico si deve rilevare che la veridicità nei rapporti tra
governanti e governati, la trasparenza nella pubblica amministrazione,
l'imparzialità nel servizio della cosa pubblica, il rispetto dei diritti degli
avversari politici, la tutela dei diritti degli accusati contro processi e
condanne sommarie, l'uso giusto e onesto del pubblico denaro, il rifiuto di
mezzi equivoci o illeciti per conquistare, mantenere e aumentare ad ogni costo
il potere, sono principi che trovano la loro radice prima — come pure la loro
singolare urgenza — nel valore trascendente della persona e nelle esigenze
morali oggettive di funzionamento degli Stati.160 Quando essi non vengono
osservati, viene meno il fondamento stesso della convivenza politica e tutta la
vita sociale ne risulta progressivamente compromessa, minacciata e votata alla
sua dissoluzione (cf Sal 131, 3-4; Ap 18,2-3.9-24). Dopo la caduta, in molti Paesi, delle ideologie che
legavano la politica ad una concezione totalitaria del mondo — e prima fra
esse il marxismo —, si profila oggi un rischio non meno grave per la negazione
dei fondamentali diritti della persona umana e per il riassorbimento nella
politica della stessa domanda religiosa che abita nel cuore di ogni essere
umano: è il rischio dell'alleanza fra
democrazia e relativismo etico, che toglie alla convivenza civile ogni
sicuro punto di riferimento morale e la priva, più radicalmente, del
riconoscimento della verità. Infatti, « se non esiste nessuna verità ultima
la quale guida e orienta l'azione politica, allora le idee e le convinzioni
possono esser facilmente strumentalizzate per fini di potere. Una democrazia
senza valori si converte facilmente in un totalitarismo aperto oppure subdolo,
come dimostra la storia ».161
Così
in ogni campo della vita personale, familiare, sociale e politica, la morale —
che si fonda sulla verità e che nella verità si apre all'autentica libertà
— rende un servizio originale, insostituibile e di enorme valore non solo per
la singola persona e per la sua crescita nel bene, ma anche per la società e
per il suo vero sviluppo.
Grazia e
obbedienza alla legge di Dio
102.
Anche nelle situazioni più difficili l'uomo deve osservare la norma morale per
essere obbediente al santo comandamento di Dio e coerente con la propria dignità
personale. Certamente l'armonia tra libertà e verità domanda, alcune volte,
sacrifici non comuni e va conquistata ad alto prezzo: può comportare anche il
martirio. Ma, come l'esperienza universale e quotidiana mostra, l'uomo è
tentato di rompere tale armonia: « Non quello che voglio io faccio, ma quello
che detesto... Io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio » (Rm 7, 15.19).
Donde
deriva, ultimamente, questa scissione interiore dell'uomo? Egli incomincia la
sua storia di peccato quando non riconosce più il Signore come suo Creatore, e
vuole essere lui stesso a decidere, in totale indipendenza, ciò che è bene e
ciò che è male. « Voi diventerete come Dio, conoscendo il bene e il male » (Gn 3,5): questa è la prima tentazione, a cui fanno eco tutte le
altre tentazioni, alle quali l'uomo è più facilmente inclinato a cedere per le
ferite della caduta originale.
Ma
le tentazioni si possono vincere, i peccati si possono evitare, perché con i
comandamenti il Signore ci dona la possibilità di osservarli: « I suoi occhi
su coloro che lo temono, egli conosce ogni azione degli uomini. Egli non ha
comandato a nessuno di essere empio e non ha dato a nessuno il permesso di
peccare » (Sir 15,19-20).
L'osservanza della legge di Dio, in determinate situazioni, può essere
difficile, difficilissima: non è mai però impossibile. È questo un
insegnamento costante della tradizione della Chiesa, così espresso dal Concilio
di Trento: « Nessuno poi, benché giustificato, deve ritenersi libero
dall'osservanza dei comandamenti; nessuno deve far propria quell'espressione
temeraria e condannata con la scomunica dei Padri, secondo la quale è
impossibile all'uomo giustificato osservare i comandamenti di Dio. Dio infatti
non comanda ciò che è impossibile, ma nel comandare ti esorta a fare tutto
quello che puoi, a chiedere ciò che non puoi e ti aiuta perché tu possa;
infatti "i comandamenti di Dio non sono gravosi" (cf 1 Gv 5,3) e "il suo giogo è soave e il suo peso è
leggero" (cf Mt 11,30) ».162
103.
All'uomo è sempre aperto lo spazio spirituale della speranza, con l'aiuto
della grazia divina e con la collaborazione
della libertà umana.
È
nella Croce salvifica di Gesù, nel dono dello Spirito Santo, nei Sacramenti che
scaturiscono dal costato trafitto del Redentore (cf Gv
19, 34), che il credente trova la grazia e la forza per osservare sempre la
legge santa di Dio, anche in mezzo alle difficoltà più gravi. Come dice
sant'Andrea di Creta, la legge stessa « fu vivificata dalla grazia e fu posta
al suo servizio in una composizione armonica e feconda. Ognuna delle due conservò
le sue caratteristiche senza alterazioni e confusioni. Tuttavia la legge, che
prima costituiva un onere gravoso e una tirannia, diventò per opera di Dio peso
leggero e fonte di libertà ».163
Solo
nel mistero della Redenzione di Cristo stanno le « concrete » possibilità
dell'uomo. «
Sarebbe un errore gravissimo concludere... che la norma insegnata dalla Chiesa
è in se stessa solo un "ideale" che deve poi essere adattato,
proporzionato, graduato alle, si dice, concrete possibilità dell'uomo: secondo
un "bilanciamento dei vari beni in questione". Ma quali sono le
"concrete possibilità dell'uomo"? E di quale
uomo si parla? Dell'uomo dominato dalla
concupiscenza o dell'uomo redento da
Cristo? Poiché è di questo che si tratta: della realtà
della redenzione di Cristo. Cristo ci
ha redenti! Ciò significa: Egli ci ha donato la possibilità di realizzare l'intera
verità del nostro essere; Egli ha liberato la nostra libertà dal dominio
della concupiscenza. E se l'uomo redento ancora pecca, ciò non è dovuto
all'imperfezione dell'atto redentore di Cristo, ma alla volontà
dell'uomo di sottrarsi alla grazia che sgorga da quell'atto. Il comandamento
di Dio è certamente proporzionato alle capacità dell'uomo: ma alle capacità
dell'uomo a cui è donato lo Spirito Santo; dell'uomo che, se caduto nel
peccato, può sempre ottenere il perdono e godere della presenza dello Spirito
».164
104.
In questo contesto si apre il giusto spazio alla
misericordia di Dio per il peccato dell'uomo che si converte e alla comprensione
per l'umana debolezza. Questa comprensione non significa mai compromettere e
falsificare la misura del bene e del male per adattarla alle circostanze. Mentre
è umano che l'uomo, avendo peccato, riconosca la sua debolezza e chieda
misericordia per la propria colpa, è invece inaccettabile l'atteggiamento di
chi fa della propria debolezza il criterio della verità sul bene, in modo da
potersi sentire giustificato da solo, anche senza bisogno di ricorrere a Dio e
alla sua misericordia. Un simile atteggiamento corrompe la moralità dell'intera
società, perché insegna a dubitare dell'oggettività della legge morale in
generale e a rifiutare l'assolutezza dei divieti morali circa determinati atti
umani, e finisce con il confondere tutti i giudizi di valore.
Dobbiamo,
invece, raccogliere il messaggio che ci
viene dalla parabola evangelica del fariseo e del pubblicano (cf Lc 18,9-14). Il pubblicano poteva forse avere qualche
giustificazione per i peccati commessi, tale da diminuire la sua responsabilità.
Non è però su queste giustificazioni che si sofferma la sua preghiera, ma
sulla propria indegnità davanti all'infinita santità di Dio: « O Dio, abbi
pietà di me peccatore » (Lc 18,13).
Il fariseo, invece, si è giustificato da solo, trovando forse per ognuna delle
sue mancanze una scusa. Siamo così messi a confronto con due diversi
atteggiamenti della coscienza morale dell'uomo di tutti i tempi. Il pubblicano
ci presenta una coscienza « penitente », che è pienamente consapevole della
fragilità della propria natura e che vede nelle proprie mancanze, quali che ne
siano le giustificazioni soggettive, una conferma del proprio essere bisognoso
di redenzione. Il fariseo ci presenta una coscienza « soddisfatta di se stessa
», che si illude di poter osservare la legge senza l'aiuto della grazia ed è
convinta di non aver bisogno della misericordia.
105.
A tutti è chiesta grande vigilanza per non lasciarsi contagiare
dall'atteggiamento farisaico, che pretende di eliminare la coscienza del proprio
limite e del proprio peccato, e che oggi si esprime in particolare nel tentativo
di adattare la norma morale alle proprie capacità e ai propri interessi e
persino nel rifiuto del concetto stesso di norma. Al contrario, accettare la «
sproporzione » tra la legge e la capacità umana, ossia la capacità delle sole
forze morali dell'uomo lasciato a se stesso, accende il desiderio della grazia e
predispone a riceverla. « Chi mi libererà da questo corpo votato alla morte?
», si domanda l'apostolo Paolo. E con una confessione gioiosa e riconoscente
risponde: « Siano rese grazie a Dio per mezzo di Gesù Cristo nostro Signore!
» (Rm 7,24-25).
La
stessa coscienza troviamo in questa preghiera di sant'Ambrogio di Milano: « Che
cos'è, infatti, l'uomo se tu non lo visiti? Non dimenticare pertanto il debole.
Ricordati, o Signore, che mi hai fatto debole, che mi hai plasmato di polvere.
Come potrò stare ritto, se tu non ti volgi continuamente per rendere salda
questa argilla, di modo che la mia solidità promani dal tuo volto? "Appena
nascondi il viso, tutte le cose vengono meno" (Sal
1032,29): se ti volgi, guai a me! Non hai da guardare in me nient'altro che
contagi di delitti: non è utile né essere abbandonati, né esser visti perché,
mentre siam visti, provochiamo disgusto. Possiamo tuttavia pensare che non
respinge quelli che vede, perché purifica quelli che guarda. Lo divora un
fuoco, capace di bruciare la colpa (cf Gl 2,3)
».165
Morale e
nuova evangelizzazione
106.
L'evangelizzazione è la sfida più forte ed esaltante che la Chiesa è chiamata
ad affrontare sin dalla sua origine. In realtà, a porre questa sfida non sono
tanto le situazioni sociali e culturali che essa incontra lungo la storia,
quanto il mandato di Gesù Cristo risorto, che definisce la ragione stessa
dell'esistenza della Chiesa: « Andate in tutto il mondo e predicate il Vangelo
ad ogni creatura » (Mc 16,15).
Il
momento però che stiamo vivendo, almeno presso numerose popolazioni, è
piuttosto quello di una formidabile provocazione alla « nuova evangelizzazione
», ossia all'annuncio del Vangelo sempre nuovo e sempre portatore di novità,
una evangelizzazione che dev'essere « nuova nel suo ardore, nei suoi metodi e
nella sua espressione ».166 La scristianizzazione, che pesa su interi popoli e
comunità un tempo già ricchi di fede e di vita cristiana, comporta non solo la
perdita della fede o comunque la sua insignificanza per la vita, ma anche, e
necessariamente, un declino o un oscuramento del senso morale: e questo sia per il
dissolversi della consapevolezza dell'originalità della morale evangelica, sia
per l'eclissi degli stessi principi e valori etici fondamentali. Le tendenze
soggettiviste, relativiste e utilitariste, oggi ampiamente diffuse, si
presentano non semplicemente come posizioni pragmatiche, come dati di costume,
ma come concezioni consolidate dal punto di vista teoretico che rivendicano una
loro piena legittimità culturale e sociale.
107.
L'evangelizzazione — e pertanto la
« nuova evangelizzazione » — comporta anche l'annuncio e la proposta morale. Gesù stesso,
proprio predicando il Regno di Dio e il suo amore salvifico, ha rivolto
l'appello alla fede e alla conversione (cf Mc
1,15). E Pietro, con gli altri Apostoli, annunciando la risurrezione di Gesù
di Nazaret dai morti, propone una vita nuova da vivere, una « via » da seguire
per essere discepoli del Risorto (cf At 2,37- 41; 3,17-20).
Come
e ancor più che per le verità di fede, la nuova evangelizzazione che propone i
fondamenti e i contenuti della morale cristiana manifesta la sua autenticità, e
nello stesso tempo sprigiona tutta la sua forza missionaria, quando si compie
attraverso il dono non solo della parola annunciata,
ma anche di quella vissuta. In
particolare è la vita di santità, che
risplende in tanti membri del Popolo di Dio, umili e spesso nascosti agli occhi
degli uomini, a costituire la via più semplice e affascinante sulla quale è
dato di percepire immediatamente la bellezza della verità, la forza liberante
dell'amore di Dio, il valore della fedeltà incondizionata a tutte le esigenze
della legge del Signore, anche nelle circostanze più difficili. Per questo la
Chiesa, nella sua sapiente pedagogia morale, ha sempre invitato i credenti a
cercare e a trovare nei santi e nelle sante, e in primo luogo nella Vergine
Madre di Dio « piena di grazia » e « tutta santa », il modello, la forza e
la gioia per vivere una vita secondo i comandamenti di Dio e le Beatitudini del
Vangelo.
La
vita dei santi, riflesso della bontà di Dio — di Colui che « solo è buono
» —, costituisce non solo una vera confessione di fede e un impulso alla sua
comunicazione agli altri, ma anche una glorificazione di Dio e della sua
infinita santità. La vita santa porta così a pienezza di espressione e di
attuazione il triplice e unitario munus
propheticum, sacerdotale et regale che ogni cristiano riceve in dono nella
rinascita battesimale « da acqua e da Spirito » (Gv
3,5). La sua vita morale possiede il valore di un « culto spirituale » (Rm 12,1; cf Fil 3,3),
attinto e alimentato da quella inesauribile sorgente di santità e di
glorificazione di Dio che sono i Sacramenti, in specie l'Eucaristia: infatti,
partecipando al sacrificio della Croce, il cristiano comunica con l'amore di
donazione di Cristo ed è abilitato e impegnato a vivere questa stessa carità
in tutti i suoi atteggiamenti e comportamenti di vita. Nell'esistenza morale si
rivela e si attua anche il servizio regale del cristiano: quanto più, con
l'aiuto della grazia, egli obbedisce alla legge nuova dello Spirito Santo, tanto
più cresce nella libertà alla quale è chiamato mediante il servizio della
verità, della carità e della giustizia.
108.
Alla radice della nuova evangelizzazione e della vita morale nuova, che essa
propone e suscita nei suoi frutti di santità e di missionarietà, sta lo
Spirito di Cristo, principio e forza della fecondità della santa Madre
Chiesa, come ci ricorda Paolo VI: « L'evangelizzazione non sarà mai possibile
senza l'azione dello Spirito Santo ».167 Allo Spirito di Gesù, accolto dal
cuore umile e docile del credente, si devono dunque il fiorire della vita morale
cristiana e la testimonianza della santità nella grande varietà delle
vocazioni, dei doni, delle responsabilità e delle condizioni e situazioni di
vita: è lo Spirito Santo — rilevava già Novaziano, in questo esprimendo
l'autentica fede della Chiesa — « Colui che ha dato fermezza agli animi ed
alle menti dei discepoli, che ha dischiuso i misteri evangelici, che ha
illuminato in loro le cose divine; da Lui rinvigoriti, essi non ebbero timore né
delle carceri né delle catene per il nome del Signore; anzi calpestarono gli
stessi poteri e i tormenti del mondo, armati ormai e rafforzati per mezzo suo,
avendo in sé i doni che questo stesso Spirito elargisce ed invia come gioielli
alla Chiesa sposa di Cristo. È Lui, infatti, che nella Chiesa suscita i
profeti, istruisce i maestri, guida le lingue, compie prodigi e guarigioni,
produce opere mirabili, concede il discernimento degli spiriti, assegna i
compiti di governo, suggerisce i consigli, ripartisce ed armonizza ogni altro
dono carismatico, e perciò rende dappertutto ed in tutto compiutamente perfetta
la Chiesa del Signore ».168
Nel
contesto vivo di questa nuova evangelizzazione, destinata a generare e a nutrire
« la fede che opera per mezzo della carità » (Gal
5,6) e in rapporto all'opera dello Spirito Santo possiamo ora comprendere il
posto che nella Chiesa, comunità dei credenti, spetta alla riflessione che la teologia deve sviluppare sulla vita morale, così
come possiamo presentare la missione e la responsabilità propria dei teologi
moralisti.
Il
servizio dei teologi moralisti
109.
Chiamata all'evangelizzazione e alla
testimonianza di una vita di fede è tutta la Chiesa, resa partecipe del munus
propheticum del Signore Gesù mediante il dono del suo Spirito. Grazie alla
presenza permanente in essa dello Spirito di verità (cf Gv
14,16-17) « la totalità dei fedeli che hanno ricevuto l'unzione dello
Spirito Santo (cf 1 Gv 2,20. 27) non
può sbagliarsi nel credere, e manifesta questa sua proprietà peculiare
mediante il senso soprannaturale della fede di tutto il popolo, quando "dai
Vescovi fino agli ultimi fedeli laici" esprime l'universale suo consenso in
materia di fede e di costumi ».169
Per
compiere la sua missione profetica, la Chiesa deve continuamente risvegliare o
« ravvivare » la propria vita di fede (cf 2
Tm 1,6), in particolare mediante una riflessione sempre più approfondita,
sotto la guida dello Spirito Santo, sul contenuto della fede stessa. È al
servizio di questa « ricerca credente dell'intelligenza della fede » che si
pone, in modo specifico, la « vocazione
» del teologo nella Chiesa: « Fra le vocazioni suscitate dallo Spirito
nella Chiesa — leggiamo nell'Istruzione
Donum veritatis — si distingue quella del teologo, che in modo particolare
ha la funzione di acquisire, in comunione con il Magistero, un'intelligenza
sempre più profonda della Parola di Dio contenuta nella Scrittura ispirata e
trasmessa dalla Tradizione viva della Chiesa. Di sua natura la fede fa appello
all'intelligenza, perché svela all'uomo la verità sul suo destino e la via per
raggiungerlo. Anche se la verità rivelata è superiore ad ogni nostro dire ed i
nostri concetti sono imperfetti di fronte alla sua grandezza ultimamente
insondabile (cf Ef 3,19), essa invita
tuttavia la ragione — dono di Dio fatto per cogliere la verità — ad entrare
nella sua luce, diventando così capace di comprendere in una certa misura
quanto ha creduto. La scienza teologica, che, rispondendo all'invito della voce
della verità, cerca l'intelligenza della fede, aiuta il Popolo di Dio, secondo
il comandamento dell'Apostolo (cf 1 Pt 3,15),
a rendere conto della sua speranza a coloro che lo richiedono ».170
È
fondamentale per definire l'identità stessa e, di conseguenza, per attuare la
missione propria della teologia riconoscerne l'intimo
e vivo nesso con la Chiesa, il suo mistero, la sua vita e missione: « La
teologia è scienza ecclesiale, perché cresce nella Chiesa e agisce sulla
Chiesa... Essa è a servizio della Chiesa e deve quindi sentirsi dinamicamente
inserita nella missione della Chiesa, particolarmente nella sua missione
profetica ».171 Per sua natura e dinamismo la teologia autentica può fiorire e
svilupparsi solo mediante una convinta e responsabile partecipazione e «
appartenenza » alla Chiesa quale « comunità di fede », così come a questa
stessa Chiesa e alla sua vita di fede torna il frutto della ricerca e
dell'approfondimento teologico.
110.
Quanto si è detto circa la teologia in genere può e dev'essere riproposto per
la teologia morale, colta nella sua
specificità di riflessione scientifica sul Vangelo come dono e
comandamento di vita nuova, sulla vita « secondo la verità nella carità
» (Ef 4,15), sulla vita di santità
della Chiesa, nella quale risplende la verità del bene portato sino alla sua
perfezione. Non solo nell'ambito della fede, ma anche e in modo indivisibile
nell'ambito della morale, interviene il Magistero
della Chiesa, il cui compito è « di discernere, mediante giudizi normativi
per la coscienza dei fedeli, gli atti che sono in se stessi conformi alle
esigenze della fede e ne promuovono l'espressione nella vita, e quelli che al
contrario, per la loro malizia intrinseca, sono incompatibili con queste
esigenze ».172 Predicando i comandamenti di Dio e la carità di Cristo, il
Magistero della Chiesa insegna ai fedeli anche i precetti particolari e
determinati e chiede loro di considerarli in coscienza come moralmente
obbligatori. Svolge, inoltre, un importante compito di vigilanza, avvertendo i
fedeli della presenza di eventuali errori, anche solo impliciti, quando la loro
coscienza non giunge a riconoscere la giustezza e la verità delle regole morali
che il Magistero insegna.
S'inserisce
qui il compito specifico di quanti per mandato dei legittimi Pastori insegnano
teologia morale nei Seminari e nelle Facoltà Teologiche. Essi hanno il grave
dovere di istruire i fedeli — specialmente i futuri Pastori — su tutti i
comandamenti e le norme pratiche che la Chiesa dichiara con autorità.173
Nonostante gli eventuali limiti delle argomentazioni umane presentate dal
Magistero, i teologi moralisti sono chiamati ad approfondire le ragioni dei suoi
insegnamenti, ad illustrare la fondatezza dei suoi precetti e la loro
obbligatorietà, mostrandone la mutua connessione e il rapporto con il fine
ultimo dell'uomo.174 Spetta ai teologi moralisti esporre la dottrina della
Chiesa e dare, nell'esercizio del loro ministero, l'esempio di un assenso leale,
interno ed esterno, all'insegnamento del Magistero sia nel campo del dogma che
in quello della morale.175 Unendo le loro forze per collaborare col Magistero
gerarchico, i teologi avranno a cuore di mettere sempre meglio in luce i
fondamenti biblici, le significazioni etiche e le motivazioni antropologiche che
sostengono la dottrina morale e la visione dell'uomo proposte dalla Chiesa.
111.
Il servizio che nell'ora attuale i teologi moralisti sono chiamati a dare è di
primaria importanza, non solo per la vita e la missione della Chiesa, ma anche
per la società e la cultura umana. Tocca a loro, in intima e vitale connessione
con la teologia biblica e dogmatica, sottolineare nella riflessione scientifica
« l'aspetto dinamico che fa risaltare la risposta, che l'uomo deve dare
all'appello divino nel processo della sua crescita nell'amore, nell'ambito di
una comunità salvifica. In tal modo la teologia morale acquisterà una
dimensione spirituale interna, rispondendo alle esigenze di sviluppo pieno della
imago Dei, che è nell'uomo, e alle leggi del processo spirituale
descritto nell'ascetica e mistica cristiane ».176
Certamente
oggi la teologia morale e il suo insegnamento si trovano di fronte a una
particolare difficoltà. Poiché la morale della Chiesa implica necessariamente
una dimensione normativa, la teologia morale non può ridursi a un
sapere elaborato solo nel contesto delle cosiddette scienze umane. Mentre queste si occupano del fenomeno della moralità
come fatto storico e sociale, la teologia morale, che pur deve servirsi delle
scienze dell'uomo e della natura, non è però subordinata ai risultati
dell'osservazione empirico-formale o della comprensione fenomenologica. In realtà,
la pertinenza delle scienze umane in teologia morale è sempre da commisurare
alla domanda originaria: Che cosa è il bene o il male? Che cosa fare per ottenere la vita
eterna?
112.
Il teologo moralista deve pertanto esercitare un accurato discernimento nel
contesto dell'odierna cultura prevalentemente scientifica e tecnica, esposta ai
pericoli del relativismo, del pragmatismo e del positivismo. Dal punto di vista
teologico, i principi morali non sono dipendenti dal momento storico nel quale
sono scoperti. Il fatto poi che taluni credenti agiscano senza seguire gli
insegnamenti del Magistero o considerino a torto come moralmente giusta una
condotta dichiarata dai loro Pastori come contraria alla legge di Dio, non può
costituire argomento valido per rifiutare la verità delle norme morali
insegnate dalla Chiesa. L'affermazione dei principi morali non è di competenza
dei metodi empirico-formali. Senza negare la validità di tali metodi, ma anche
senza restringere ad essi la sua prospettiva, la teologia morale, fedele al
senso soprannaturale della fede, prende in considerazione soprattutto la
dimensione spirituale del cuore umano e la sua vocazione all'amore divino.
Infatti,
mentre le scienze umane, come tutte le scienze sperimentali, sviluppano un
concetto empirico e statistico di « normalità », la fede insegna che una
simile normalità porta in sé le tracce di una caduta dell'uomo dalla sua
situazione originaria, ossia è intaccata dal peccato. Solo la fede cristiana
indica all'uomo la via del ritorno al « principio » (cf Mt
19,8), una via che spesso è ben diversa da quella della normalità
empirica. In tal senso le scienze umane, nonostante il grande valore delle
conoscenze che offrono, non possono essere assunte come indicatori decisivi
delle norme morali. È il Vangelo che svela la verità integrale sull'uomo e sul
suo cammino morale, e così illumina e ammonisce i peccatori annunciando loro la
misericordia di Dio, il quale incessantemente opera per preservarli tanto dalla
disperazione di non poter conoscere ed osservare la legge divina quanto dalla
presunzione di potersi salvare senza merito. Egli inoltre ricorda loro la gioia
del perdono, che solo concede la forza di riconoscere nella legge morale una
verità liberatrice, una grazia di speranza, un cammino di vita.
113.
L'insegnamento della dottrina morale implica l'assunzione consapevole di queste
responsabilità intellettuali, spirituali e pastorali. Perciò, i teologi
moralisti, che accettano l'incarico di insegnare la dottrina della Chiesa, hanno
il grave dovere di educare i fedeli a questo discernimento morale, all'impegno
per il vero bene e al ricorso fiducioso alla grazia divina.
Se
gli incontri e i conflitti di opinione possono costituire espressioni normali
della vita pubblica nel contesto di una democrazia rappresentativa, la dottrina
morale non può certo dipendere dal semplice rispetto di una procedura; essa
infatti non viene minimamente stabilita seguendo le regole e le forme di una
deliberazione di tipo democratico. Il
dissenso, fatto di calcolate contestazioni e di polemiche attraverso i mezzi
della comunicazione sociale, è contrario
alla comunione ecclesiale e alla retta comprensione della costituzione
gerarchica del Popolo di Dio. Nell'opposizione all'insegnamento dei Pastori
non si può riconoscere una legittima espressione né della libertà cristiana né
delle diversità dei doni dello Spirito. In questo caso, i Pastori hanno il
dovere di agire in conformità con la loro missione apostolica, esigendo che sia
sempre rispettato il diritto dei fedeli a
ricevere la dottrina cattolica nella sua purezza e integrità: « Il teologo,
non dimenticando mai di essere anch'egli membro del Popolo di Dio, deve nutrire
rispetto nei suoi confronti e impegnarsi nel dispensargli un insegnamento che
non leda in alcun modo la dottrina della fede ».177
Le
nostre responsabilità di Pastori
114.
La responsabilità verso la fede e la vita di fede del Popolo di Dio grava in
una forma peculiare e propria sui Pastori, come ci ricorda il Concilio Vaticano
II: « Tra le funzioni principali dei Vescovi eccelle la predicazione del
Vangelo. I Vescovi, infatti, sono gli araldi della fede, che portano a Cristo
nuovi discepoli, sono i Dottori autentici, cioè rivestiti dell'autorità di
Cristo, che predicano al popolo loro affidato la fede da credere e da applicare
nella pratica della vita, che illustrano questa fede alla luce dello Spirito
Santo, traendo fuori dal tesoro della Rivelazione cose nuove e vecchie (cf Mt
13,52), la fanno fruttificare e vegliano per tener lontano dal loro gregge gli
errori che lo minacciano (cf 2 Tm 4,1-4)
».178
È
nostro comune dovere, e prima ancora nostra comune grazia, insegnare ai fedeli
come Pastori e Vescovi della Chiesa, ciò che li conduce sulla via di Dio, così
come fece un giorno il Signore Gesù con il giovane del Vangelo. Rispondendo
alla sua domanda: « Che cosa devo fare di buono per ottenere la vita eterna? »,
Gesù ha rimandato a Dio, Signore della creazione e dell'Alleanza; ha ricordato
i comandamenti morali, già rivelati nell'Antico Testamento; ne ha indicato lo
spirito e la radicalità invitando alla sua sequela nella povertà, nell'umiltà
e nell'amore: « Vieni e seguimi! ». La verità di questa dottrina ha avuto il
suo sigillo sulla Croce nel sangue di Cristo: essa è divenuta, nello Spirito
Santo, la legge nuova della Chiesa e di ogni cristiano.
Questa
« risposta » alla domanda morale è affidata da Gesù Cristo in un modo
particolare a noi Pastori della Chiesa, chiamati a renderla oggetto del nostro
insegnamento, nell'adempimento dunque del nostro munus
propheticum. Nello stesso tempo la nostra responsabilità di Pastori, nei
riguardi della dottrina morale cristiana, deve attuarsi anche nella forma del munus sacerdotale: ciò avviene quando dispensiamo ai fedeli i doni
di grazia e di santificazione come risorsa per obbedire alla legge santa di Dio,
e quando con la nostra costante e fiduciosa preghiera sosteniamo i credenti
perché siano fedeli alle esigenze della fede e vivano secondo il Vangelo (cf Col
1,9-12). La dottrina morale cristiana deve costituire, oggi soprattutto, uno
degli ambiti privilegiati della nostra vigilanza pastorale, dell'esercizio del
nostro munus regale.
115.
È la prima volta, infatti, che il Magistero della Chiesa espone con una certa
ampiezza gli elementi fondamentali di tale dottrina, e presenta le ragioni del
discernimento pastorale necessario in situazioni pratiche e culturali complesse
e talvolta critiche.
Alla
luce della Rivelazione e dell'insegnamento costante della Chiesa e specialmente
del Concilio Vaticano II, ho brevemente richiamato i tratti essenziali della
libertà, i valori fondamentali connessi con la dignità della persona e con la
verità dei suoi atti, così da poter riconoscere, nell'obbedienza alla legge
morale, una grazia e un segno della nostra adozione nel Figlio unico (cf Ef
1,4-6). In particolare, con questa Enciclica, vengono proposte valutazioni
su alcune tendenze attuali nella teologia morale. Le comunico ora, in obbedienza
alla parola del Signore che a Pietro ha affidato l'incarico di confermare i suoi
fratelli (cf Lc 22,32), per illuminare
e aiutare il nostro comune discernimento.
Ciascuno
di noi conosce l'importanza della dottrina che rappresenta il nucleo
dell'insegnamento di questa Enciclica e che oggi viene richiamata con l'autorità
del successore di Pietro. Ciascuno di noi può avvertire la gravità di quanto
è in causa, non solo per le singole persone ma anche per l'intera società, con
la riaffermazione dell'universalità e
della immutabilità dei comandamenti morali, e in particolare di quelli che
proibiscono sempre e senza eccezioni gli atti
intrinsecamente cattivi.
Nel
riconoscere tali comandamenti il cuore cristiano e la nostra carità pastorale
ascoltano l'appello di Colui che « ci ha amati per primo » (1
Gv 4,19). Dio ci chiede di essere santi come egli è santo (cf Lv 19,2), di essere — in Cristo — perfetti come egli è perfetto
(cf Mt 5,48): l'esigente fermezza del
comandamento si fonda sull'inesauribile amore misericordioso di Dio (cf Lc
6, 36), e il fine del comandamento è di condurci, con la grazia di Cristo,
sulla via della pienezza della vita propria dei figli di Dio.
116.
Abbiamo il dovere, come Vescovi, di vigilare
perché la Parola di Dio sia fedelmente insegnata. Miei Confratelli
nell'Episcopato, fa parte del nostro ministero pastorale vegliare sulla
trasmissione fedele di questo insegnamento morale e ricorrere alle misure
opportune perché i fedeli siano custoditi da ogni dottrina e teoria ad esso
contraria. In questo compito siamo tutti aiutati dai teologi; tuttavia, le
opinioni teologiche non costituiscono né la regola né la norma del nostro
insegnamento. La sua autorità deriva, con l'assistenza dello Spirito Santo e
nella comunione cum Petro et sub Petro, dalla
nostra fedeltà alla fede cattolica ricevuta dagli Apostoli. Come Vescovi,
abbiamo l'obbligo grave di vigilare personalmente
perché la « sana dottrina » (1 Tm 1,10)
della fede e della morale sia insegnata nelle nostre diocesi.
Una
particolare responsabilità si impone ai Vescovi per quanto riguarda le istituzioni
cattoliche. Si tratti di organismi per la pastorale familiare o sociale,
oppure di istituzioni dedicate all'insegnamento o alle cure sanitarie, i Vescovi
possono erigere e riconoscere queste strutture e delegare loro alcune
responsabilità; tuttavia non sono mai esonerati dai loro propri obblighi.
Spetta a loro, in comunione con la Santa Sede, il compito di riconoscere, o di
ritirare in casi di grave incoerenza, l'appellativo di « cattolico » a
scuole,179 università,180 cliniche e servizi socio-sanitari, che si richiamano
alla Chiesa.
117.
Nel cuore del cristiano, nel nucleo più segreto del- l'uomo, risuona sempre la
domanda che un giorno il giovane del Vangelo rivolse a Gesù: « Maestro, che
cosa devo fare di buono per ottenere la vita eterna? » (Mt
19,16). Occorre però che ciascuno la rivolga al Maestro « buono », perché
è l'unico che possa rispondere nella pienezza della verità, in ogni
situazione, nelle più diverse circostanze. E quando i cristiani gli rivolgono
la domanda che sale dalla loro coscienza, il Signore risponde con le parole
dell'Alleanza Nuova affidate alla sua Chiesa. Ora, come dice di sé l'Apostolo,
noi siamo mandati « a predicare il vangelo; non però con un discorso sapiente,
perché non sia resa vana la croce di Cristo » (1
Cor 1,17). Per questo la risposta della Chiesa alla domanda dell'uomo ha la
saggezza e la potenza di Cristo crocifisso, la Verità che si dona.
Quando
gli uomini pongono alla Chiesa le domande della loro coscienza, quando
nella Chiesa i fedeli si rivolgono ai Vescovi e ai Pastori, nella
risposta della Chiesa c'è la voce di Gesù Cristo, la voce della verità circa
il bene e il male. Nella parola pronunciata dalla Chiesa risuona,
nell'intimo delle persone, la voce di Dio, che « solo è buono » (Mt
19,17), che solo « è amore » (1 Gv 4,8.16).
Nell'unzione
dello Spirito questa parola dolce ed esigente si fa luce e vita per l'uomo.
È ancora l'apostolo Paolo ad invitarci alla fiducia, perché « la nostra
capacità viene da Dio, che ci ha resi ministri adatti di una Nuova Alleanza,
non della lettera ma dello Spirito... Il Signore è lo Spirito e dove c'è lo
Spirito del Signore c'è libertà. E noi tutti, a viso scoperto, riflettendo
come in uno specchio la gloria del Signore, veniamo trasformati in quella
medesima immagine, di gloria in gloria, secondo l'azione dello Spirito del
Signore » (2 Cor 3,5-6.17-18).
CONCLUSIONE
Maria
Madre di misericordia
118.
Affidiamo, al termine di queste considerazioni, noi stessi, le sofferenze e le
gioie della nostra esistenza, la vita morale dei credenti e degli uomini di
buona volontà, le ricerche degli studiosi di morale a Maria, Madre di Dio e
Madre di misericordia.
Maria
è Madre di misericordia perché Gesù Cristo, suo Figlio, è mandato dal Padre
come Rivelazione della misericordia di Dio (cf Gv
3, 16-18). Egli è venuto non per condannare ma per perdonare, per usare
misericordia (cf Mt 9,13). E la
misericordia più grande sta nel suo essere in mezzo a noi e nella chiamata che
ci è rivolta ad incontrare Lui e a confessarlo, insieme con Pietro, come « il
Figlio del Dio vivente » (Mt 16,16).
Nessun peccato dell'uomo può cancellare la misericordia di Dio, può impedirle
di sprigionare tutta la sua forza vittoriosa, se appena la invochiamo. Anzi, lo
stesso peccato fa risplendere ancora di più l'amore del Padre che, per
riscattare lo schiavo, ha sacrificato il suo Figlio: 181 la sua misericordia per
noi è redenzione. Questa misericordia giunge a pienezza con il dono dello
Spirito, che genera ed esige la vita nuova. Per quanto numerosi e grandi siano
gli ostacoli opposti dalla fragilità e dal peccato dell'uomo, lo Spirito, che
rinnova la faccia della terra (cf Sal 1031,30),
rende possibile il miracolo del compimento perfetto del bene. Questo
rinnovamento, che dà la capacità di fare ciò che è buono, nobile, bello,
gradito a Dio e conforme alla sua volontà, è in un certo senso la fioritura
del dono della misericordia, che libera dalla schiavitù del male e dà la forza
di non peccare più. Attraverso il dono della vita nuova Gesù ci rende
partecipi del suo amore e ci conduce al Padre nello Spirito.
119.
È questa la consolante certezza della fede cristiana, alla quale essa deve la
sua profonda umanità e la sua straordinaria
semplicità. Talvolta, nelle discussioni sui nuovi complessi problemi
morali, può sembrare che la morale cristiana sia in se stessa troppo difficile,
ardua da comprendere e quasi impossibile da praticare. Ciò è falso, perché
essa consiste, in termini di semplicità evangelica, nel seguire
Gesù Cristo, nell'abbandonarsi a Lui, nel lasciarsi trasformare dalla sua
grazia e rinnovare dalla sua misericordia, che ci raggiungono nella vita di
comunione della sua Chiesa. « Chi vuole vivere — ci ricorda sant'Agostino
—, ha dove vivere, ha donde vivere. Si avvicini, creda, si lasci incorporare
per essere vivificato. Non rifugga dalla compagine delle membra ».182 Può
capire dunque l'essenza vitale della morale cristiana, con la luce dello
Spirito, ogni uomo, anche il meno dotto, anzi soprattutto chi sa conservare un
« cuore semplice » (Sal 852,11).
D'altra parte, questa semplicità evangelica non esime dall'affrontare la
complessità del reale, ma può introdurre alla sua più vera comprensione,
perché la sequela di Cristo metterà progressivamente in luce i caratteri
dell'autentica moralità cristiana e darà, al tempo stesso, l'energia di vita
per la sua realizzazione. È compito del Magistero della Chiesa vegliare perché
il dinamismo della sequela di Cristo si sviluppi in modo organico, senza che ne
vengano falsate o occultate le esigenze morali, con tutte le loro conseguenze.
Chi ama Cristo osserva i suoi comandamenti (cf Gv
14,15).
120.
Maria è Madre di misericordia anche perché a lei Gesù affida la sua Chiesa e
l'intera umanità. Ai piedi della Croce, quando accetta Giovanni come figlio,
quando chiede, insieme con Cristo, il perdono al Padre per coloro che non sanno
quello che fanno (cf Lc 23,34), Maria
in perfetta docilità allo Spirito sperimenta la ricchezza e l'universalità
dell'amore di Dio, che le dilata il cuore e la fa capace di abbracciare l'intero
genere umano. È resa, in tal modo, Madre di tutti noi, e di ciascuno di noi,
Madre che ci ottiene la misericordia divina.
Maria
è segno luminoso ed esempio affascinante di vita morale: « la vita di lei sola
è insegnamento per tutti », scrive sant'Ambrogio,183 che rivolgendosi in
particolare alle vergini ma in un orizzonte aperto a tutti così afferma: « Il
primo ardente desiderio di imparare lo dà la nobiltà del maestro. E chi è più
nobile della Madre di Dio? o più splendida di Colei che fu eletta dallo stesso
Splendore? ».184 Maria vive e realizza la propria libertà donando se stessa a
Dio ed accogliendo in sé il dono di Dio. Custodisce nel suo grembo verginale il
Figlio di Dio fatto uomo fino al tempo della nascita, lo alleva, lo fa crescere
e lo accompagna in quel gesto supremo di libertà, che è il sacrificio totale
della propria vita. Con il dono di se stessa, Maria entra pienamente nel disegno
di Dio, che si dona al mondo. Accogliendo e meditando nel suo cuore avvenimenti
che non sempre comprende (cf Lc 2,19),
diventa il modello di tutti coloro che ascoltano la parola di Dio e la osservano
(cf Lc 11, 28) e merita il titolo di
« Sede della Sapienza ». Questa Sapienza è Gesù Cristo stesso, il Verbo
eterno di Dio, che rivela e compie perfettamente la volontà del Padre (cf Eb 10,5-10). Maria invita ogni uomo ad accogliere questa Sapienza.
Anche a noi rivolge l'ordine dato ai servi, a Cana in Galilea durante il
banchetto di nozze: « Fate quello che egli vi dirà » (Gv
2,5).
Maria
condivide la nostra condizione umana, ma in una totale trasparenza alla grazia
di Dio. Non avendo conosciuto il peccato, ella è in grado di compatire ogni
debolezza. Comprende l'uomo peccatore e lo ama con amore di Madre. Proprio per
questo sta dalla parte della verità e condivide il peso della Chiesa nel
richiamare a tutti e sempre le esigenze morali. Per lo stesso motivo non accetta
che l'uomo peccatore venga ingannato da chi pretenderebbe di amarlo
giustificandone il peccato, perché sa che in tal modo sarebbe reso vano il
sacrificio di Cristo, suo Figlio. Nessuna assoluzione, offerta da compiacenti
dottrine anche filosofiche o teologiche, può rendere l'uomo veramente felice:
solo la Croce e la gloria di Cristo risorto possono donare pace alla sua
coscienza e salvezza alla sua vita.
O
Maria,
Dato
a Roma, presso San Pietro, il 6 agosto, festa della Trasfigurazione del Signore,
dell'anno 1993, decimoquinto del mio Pontificato. |