IL LINGUAGGIO DELLA
CELEBRAZIONE LITURGICA
Pontificia Università
della Santa Croce
Roma, 24 febbraio 2011
La necessità della
teologia liturgica
Iniziare un corso sulla “ars celebrandi”, trattando
il tema del linguaggio della celebrazione liturgica,
non è possibile farlo senza richiamare alla memoria
il noto passaggio dell’Esortazione Apostolica
Sacramentum caritatis di Benedetto XVI:
“Altrettanto importante per una giusta ars
celebrandi è l'attenzione verso tutte le forme
di linguaggio previste dalla liturgia: parola e
canto, gesti e silenzi, movimento del corpo, colori
liturgici dei paramenti. La liturgia, in effetti,
possiede per sua natura una varietà di registri di
comunicazione che le consentono di mirare al
coinvolgimento di tutto l'essere umano. La
semplicità dei gesti e la sobrietà dei segni posti
nell'ordine e nei tempi previsti comunicano e
coinvolgono di più che l'artificiosità di aggiunte
inopportune. L'attenzione e l'obbedienza alla
struttura propria del rito, mentre esprimono il
riconoscimento del carattere di dono
dell'Eucaristia, manifestano la volontà del ministro
di accogliere con docile gratitudine tale ineffabile
dono” (n. 40).
Fatta questa premessa, che certamente accompagnerà
la nostra riflessione, è necessario affermare che
parlare di linguaggio, nel senso più ampio del
termine, significa per ciò stesso fare riferimento a
una realtà che lo precede. Il linguaggio, da questo
punto di vista, non può mai essere svincolato da
tale realtà, della quale è chiamato a essere
espressione. Quel linguaggio lo si potrà considerare
vero, in quanto pienamente corrispondente a quella
realtà, o lo si potrà considerare falso, ovvero non
in sintonia con essa. Ma, sempre e comunque, lo si
dovrà valutare in relazione a quella realtà.
In tal modo, proprio la considerazione del rapporto
tra linguaggio e realtà sarà in grado di aiutarci a
rilevarne la verità.
Quanto detto ci consente di entrare nel tema di cui
si deve trattare: ovvero “Il linguaggio della
celebrazione liturgica”. Parlare di linguaggio della
celebrazione liturgica sottende che si abbia ben
presente che cosa è la celebrazione liturgica o, in
termini ancora più generali, che cosa è la liturgia.
Altrimenti si corre il rischio di perdersi in un
discorso superficiale e disancorato dalle ragioni
profonde di un linguaggio che, solo a partire da
quelle ragioni, può essere compreso e correttamente
praticato.
E’ per questo motivo che intendo sviluppare il
discorso sul linguaggio liturgico a partire
dall’essenza della liturgia, così da ritrovare la
radice da cui scaturisce il suo ricco patrimonio
espressivo. Solo una ben corredata teologia
liturgica è in grado di avviare un discorso corretto
sulla liturgia, in quanto celebrata e dotata di un
suo proprio linguaggio. Ritorna sempre pertinente,
al di là di ogni sua possibile interpretazione e
contestualizzazione storica, l’antico adagio di
Prospero di Aquitania: “Lex orandi – lex credendi”.
La liturgia è la fede celebrata.
Un ritratto sintetico dell’essenza della liturgia
Diventa così necessario illustrare in sequenza
alcuni tratti distintivi che caratterizzano
l’essenza della liturgia, considerandone poi le
conseguenze per quanto attiene l’espressività
linguistica. La qual cosa intendo fare riferendomi
al
Catechismo della Chiesa Cattolica, quale sintesi
attualmente più autorevole, anche per quanto attiene
alla liturgia, dell’insegnamento del Concilio
Vaticano II e del magistero successivo, presentato e
interpretato in un rapporto di sviluppo nella
continuità con la grande tradizione ecclesiale dei
secoli precedenti.
Vale la pena, al riguardo, citare i numeri con i
quali il testo del Catechismo riassume quanto fin lì
affermato in merito alla liturgia, intesa come opera
della Santa Trinità.
1110. Nella Liturgia della Chiesa Dio Padre è
benedetto e adorato come la sorgente di tutte le
benedizioni della creazione e della salvezza, con le
quali ci ha benedetti nel suo Figlio, per donarci lo
Spirito dell’adozione filiale.
1111. L’opera di Cristo nella Liturgia è
sacramentale perché il suo Mistero di salvezza vi è
reso presente mediante la potenza del suo Santo
Spirito; perché il suo Corpo, che è la Chiesa, è
come il sacramento (segno e strumento) nel quale lo
Spirito Santo dispensa il Mistero della salvezza;
perché, attraverso le sue azioni liturgiche, la
Chiesa pellegrina nel tempo partecipa già,
pregustandola, alla Liturgia celeste.
1112. La missione dello Spirito Santo nella Liturgia
della Chiesa è di preparare l’assemblea a incontrare
Cristo; di ricordare e manifestare Cristo alla fede
dell’assemblea; di rendere presente e attualizzare,
con la sua potenza trasformatrice, l’opera salvifica
di Cristo, e di far fruttificare il dono della
comunione nella Chiesa.
Tenendo presente questa bella sintesi formulata dal
Catechismo e senza perdere di vista quanto affermato
nello stesso Catechismo nelle sue altre parti
riguardanti la celebrazione del mistero cristiano,
intendo di illustrare quei tratti distintivi di cui
parlavo poc’anzi e che caratterizzano l’essenza
della liturgia della Chiesa. A partire da ogni
tratto distintivo circa l’essenza, cercherò poi di
illustrarne alcune conseguenze sotto il profilo del
linguaggio celebrativo.
La liturgia è opera di Cristo
Alcuni anni fa, nel 2009, è stata pubblicata una
raccolta di contributi sulla liturgia del Cardinale
Joseph Ratzinger, dal titolo: “Davanti al
protagonista. Alle radici della liturgia”.
Si tratta semplicemente di un titolo, non c’è
dubbio. Eppure è particolarmente indicativo di ciò
che troviamo alle radici del discorso sulla
liturgia. Alle radici vi troviamo Gesù Cristo, il
Protagonista, il vero e più importante Protagonista
della liturgia.
Attraverso la liturgia, infatti, il Signore continua
nella sua Chiesa l’opera della nostra Redenzione (cf.
Sacrosanctum concilium, 2). Ciò che è stato
nella storia, ovvero il mistero pasquale, il mistero
della nostra salvezza, si rende oggi presente nella
celebrazione liturgica della Chiesa. In tal modo il
Salvatore non è un ricordo del tempo passato, ma è
il Vivente che continua la sua azione salvifica
nella Chiesa, comunicando la sua vita, che è grazia
e anticipo di eternità.
Nella stessa celebrazione eucaristica, l’assemblea
radunata risponde al “Mistero della fede”,
successivo alla consacrazione, con le parole tanto
significative: “Annunziamo la tua morte, Signore,
proclamiamo la tua risurrezione, nell’attesa della
tua venuta”. In questa formulazione della liturgia
romana ritroviamo descritti i tre momenti propri di
ogni celebrazione sacramentale: ovvero, la memoria
del passato evento salvifico, la presente azione di
grazia nella celebrazione, l’anticipazione della
gloria futura.
In tal modo, la Chiesa, convocata per la
celebrazione liturgica, rinnova ogni volta
l’esperienza della verità dell’affermazione paolina:
“Gesù Cristo è lo stesso ieri, oggi e sempre” (Eb
13, 9). Quel Gesù che ieri, in un preciso
momento storico, ha vissuto il mistero della sua
Incarnazione, Passione, Morte e Risurrezione, è lo
stesso Gesù di cui oggi, nel tempo che scorre, si
rinnova sacramentalmente il mistero della salvezza,
così che tutti possano accedervi personalmente. Ed è
sempre lo stesso Gesù che la Chiesa attende tornare
nella gloria, pregustando però fin da ora, come
anticipazione, la gioia della sua presenza e della
sua opera.
La liturgia della Chiesa ha una modalità discreta e
al contempo chiara, tra le molte altre, di ricordare
al popolo di Dio, radunato per la celebrazione dei
divini misteri, la presenza fondamentale del grande
Protagonista. Mi riferisco al saluto liturgico “Il
Signore sia con voi”, che più volte ricorre, ad
esempio nella Messa. Questo saluto è scambiato tra
celebrante e fedeli all’inizio della celebrazione,
più avanti ritorna al momento della proclamazione
del vangelo, ancora lo troviamo all’inizio della
preghiera eucaristica e, infine, prima della
benedizione finale e del congedo. Ogni volta viene
così augurata e manifestata la presenza del Signore.
All’inizio una tale presenza è invocata e affermata
nella comunità radunata e, in un modo peculiare,
nella persona del sacerdote a motivo del sacramento
dell’ordine; al vangelo si ricorda la presenza del
Signore nella sua parola proclamata e si chiede che
diventi anche presenza radicata nel cuore dei
fedeli; più tardi, introducendo la preghiera
eucaristica, si annuncia la reale presenza di Cristo
nel suo Corpo dato e nel suo Sangue sparso, presenza
implorata per la vita di tutti; infine, prima della
benedizione e del congedo, si invoca la presenza del
Signore nella vita quotidiana dei suoi discepoli.
E’ solo un esempio tra i molti, per dire che non è
pensabile andare all’essenza della liturgia senza
riaffermare che il suo primo Protagonista è Gesù
Cristo. Si ricordi ciò che afferma la
Costituzione
sulla sacra liturgia del Concilio Vaticano II: “Per
realizzare un’opera così grande (la comunicazione
della sua opera di salvezza) Cristo è sempre
presente nella sua Chiesa, in modo speciale nelle
azioni liturgiche. E’ presente nel Sacrificio della
Messa sia nella persona del ministro, «egli che,
offertosi una volta sulla croce, offre ancora se
stesso per il ministero dei sacerdoti», sia
soprattutto sotto le specie eucaristiche. E’
presente con la sua virtù nei sacramenti, di modo
che quando uno battezza è Cristo stesso che
battezza. E’ presente nella sua parola, giacché è
lui che parla quando nella Chiesa si legge la Sacra
Scrittura. E’ presente, infine, quando la Chiesa
prega e loda, lui che ha promesso: «Dove sono due o
tre riuniti nel mio nome, là sono io, in mezzo a
loro» (Mt 18, 20)” (n. 7).
Lo splendore della nobile semplicità
La presenza misteriosa e reale di Cristo nella
liturgia e il suo essere protagonista nel rito
celebrato richiede al linguaggio liturgico lo
splendore della nobile semplicità, secondo la
celebre dizione del Concilio Vaticano II (cf.
Sacrosanctum concilium, n. 34). Ho parlato
di “splendore della nobile semplicità”, perché
questa è l’espressione completa usata dai Padri
Conciliari. In essa è dato riscontrare l’intrinseca
relazione tra bellezza, nobiltà, semplicità.
Come sempre, ogni indicazione magisteriale deve
essere letta e compresa nel contesto più ampio del
tema di cui si tratta e in relazione di sviluppo
armonico con l’intero insegnamento della Chiesa. In
tal modo, ma non è possibile dilungarsi, si vede con
chiarezza quanto siano distanti dal vero quelle
marcate insistenze nel richiamare una certa
semplicità che, a volte, hanno indotto a rendere il
rito liturgico sciatto, banale, noioso,
insignificante. Si tratta di un modo di intendere la
semplicità non fondato sull’insegnamento della
Chiesa e la sua grande tradizione liturgica. Per non
dire che, in alcune occasioni, un tale modo di
considerare la nobile semplicità si traduce in
quella che potremmo definire una poco nobile nuova
complessità. Non si tratta di questo quando la
liturgia diventa teatro di trovate soggettive ed
estemporanee, con l’inserimento di simboli privi di
autentico significato o talmente complessi da dover
essere a lungo spiegati?
Torniamo all’autentica nobile semplicità ascoltando
Benedetto XVI, nell’Esortazione apostolica post
sinodale sull’Eucaristia
Sacramentum caritatis: “Il rapporto tra
mistero creduto e celebrato si manifesta in modo
peculiare nel valore teologico e liturgico della
bellezza. La liturgia, infatti, come del resto la
Rivelazione cristiana, ha un intrinseco legame con
la bellezza: è veritatis splendor… Tale
attributo cui facciamo riferimento non è mero
estetismo, ma modalità con cui la verità dell’amore
di Dio in Cristo ci raggiunge, ci affascina, ci
rapisce, facendoci uscire da noi stessi e
attraendoci così verso la nostra vera vocazione:
l’amore… La vera bellezza è l’amore di Dio che si è
definitivamente a noi rivelato nel Mistero pasquale.
La bellezza della liturgia è parte di questo
mistero; essa è espressione altissima della gloria
di Dio e costituisce, in un certo senso, un
affacciarsi del Cielo sulla terra… La bellezza
pertanto non è un fatto decorativo dell’azione
liturgica; ne è piuttosto elemento costitutivo, in
quanto è attributo di Dio stesso e della sua
rivelazione. Tutto ciò deve renderci consapevoli di
quale attenzione si debba avere perché l’azione
liturgica risplenda secondo la propria natura” (n.
35).
Le parole del Papa, come sempre, hanno il grande
dono della chiarezza. Ne consegue che non è
ammissibile alcuna forma di minimalismo e di
pauperismo nella celebrazione liturgica. E questo,
certo, non per fare spettacolo o per un vuoto
estetismo. Il bello, nelle diverse forme antiche e
moderne in cui trova espressione, è la modalità
propria in virtù della quale risplende nelle nostre
liturgie, pur sempre pallidamente, il mistero della
bellezza dell’amore di Dio. Ecco perché non si farà
mai abbastanza per rendere semplici, in quanto
chiari nel loro svolgimento, nobili e belli i nostri
riti. Ce lo insegna la Chiesa, che nella sua lunga
storia non ha mai avuto timore di “sprecare” per
circondare la celebrazione liturgica con le
espressioni più alte dell’arte: dall’architettura,
alla scultura, alla musica, agli oggetti sacri. Ce
lo insegnano i santi che, pur nella loro personale
povertà ed eroica carità, hanno sempre desiderato
che al culto fosse destinato il meglio.
Ascoltiamo ancora Benedetto XVI: “Le nostre liturgie
della terra, interamente volte a celebrare questo
atto unico della storia, non giungeranno mai ad
esprimerne totalmente l’infinita densità. La
bellezza dei riti non sarà certamente mai abbastanza
ricercata, abbastanza curata, abbastanza elaborata,
poiché nulla è troppo bello per Dio, che è la
Bellezza infinita. Le nostre liturgie terrene non
potranno essere che un pallido riflesso della
liturgia, che si celebra nella Gerusalemme del
cielo, punto d’arrivo del nostro pellegrinaggio
sulla terra.
Possano tuttavia le nostre celebrazioni avvicinarsi
ad essa il più possibile e farla pregustare!” (Omelia
alla celebrazione dei Vespri nella Cattedrale di
Notre Dame a Parigi, 12 settembre 2008).
La liturgia è azione della Chiesa
“La bellezza intrinseca della liturgia ha come
soggetto proprio il Cristo risorto e
glorificato nello Spirito Santo, che include la
Chiesa nel suo agire” (Sacramentum
caritatis, n. 36). E’ Benedetto XVI, con
queste parole, a ricordarci che la liturgia è azione
del Cristo totale e, dunque, anche della Chiesa.
Dall’affermazione che la liturgia è azione della
Chiesa derivano alcune considerazioni di non poca
importanza per quell’essenza della liturgia che vado
illustrando. In effetti, quando si dice che la
Chiesa è soggetto agente si fa riferimento alla
Chiesa tutta, in quanto soggetto vivente che
attraversa il tempo, che si realizza nella comunione
gerarchica, che è insieme realtà ancora
pellegrinante sulla terra e realtà già approdata
sulle rive della Gerusalemme celeste.
Nell’agosto del 2006, a Castelgandolfo, Benedetto
XVI, rispondendo alla domanda di un sacerdote, nel
corso di un incontro con il clero della diocesi di
Albano, si esprimeva così nello stile discorsivo
tipico di un colloquio: “La Liturgia è cresciuta in
due millenni e anche dopo la riforma non è divenuta
qualcosa di elaborato soltanto da alcuni liturgisti.
Essa rimane sempre continuazione di questa crescita
permanente dell'adorazione e dell'annuncio. Così, è
molto importante, per poterci sintonizzare bene,
capire questa struttura cresciuta nel tempo ed
entrare con la nostra mens nella vox
della Chiesa. Nella misura in cui noi abbiamo
interiorizzato questa struttura, compreso questa
struttura, assimilato le parole della Liturgia,
possiamo entrare in questa interiore consonanza e
così non solo parlare con Dio come persone singole
ma entrare nel «noi» della Chiesa che prega. E così
trasformare anche il nostro «io» entrando nel «noi»
della Chiesa, arricchendo, allargando questo «io»,
pregando con la Chiesa,con le parole della Chiesa,
essendo realmente in colloquio con Dio”.
Entrare nel “noi” della Chiesa che prega. Questo
“noi” ci parla di una realtà, la Chiesa appunto, che
va al di là dei singoli ministri ordinati e dei
singoli fedeli, delle singole comunità e dei singoli
gruppi. Perché lì la Chiesa si manifesta e si rende
presente nella misura in cui si vive la comunione
con la Chiesa intera, quella Chiesa che è cattolica,
universale, di una universalità che raggiunge tutti
i tempi, tutti i luoghi, e varca la soglia del tempo
per lasciarsi raggiungere dall’eternità.
Ne consegue che fa parte dell’essenza della liturgia
il fatto che questa abbia anzitutto il tratto della
cattolicità, dove unità e varietà si compongono in
armonia così da formare una realtà sostanzialmente
unitaria, pur nella legittima diversità delle forme.
E poi il tratto della non arbitrarietà, che evita di
consegnare alla soggettività del singolo o del
gruppo ciò che invece appartiene a tutti come tesoro
ricevuto, da custodire e trasmettere. E ancora il
tratto della continuità storica, in virtù della
quale l’auspicabile sviluppo appare quello di un
organismo vivo che non rinnega il proprio passato,
attraversando il presente e orientandosi al futuro.
E, infine, il tratto della partecipazione alla
liturgia del cielo, per il quale è quanto mai
appropriato parlare della liturgia della Chiesa come
dello spazio umano e spirituale nel quale il cielo
si affaccia sulla terra. Si pensi, solo a titolo
esemplificativo, al passaggio della Preghiera
eucaristica I, nella quale chiediamo: “…fa’ che
questa offerta, per le mani del tuo angelo santo,
sia portata sull’altare del cielo…”.
Quanto fin qui detto in merito alla liturgia come
azione della Chiesa non sarebbe
sufficiente se non si aggiungesse il tema della
partecipazione. Infatti è proprio la liturgia,
intesa come azione della Chiesa, che esige una
partecipazione consapevole, attiva e fruttuosa (cf.
Sacrosanctum concilium, n. 11). Ogni
considerazione in merito rischia di essere senza
costrutto e fuorviante se il punto di partenza non è
l’azione di Cristo e della Chiesa. E’ proprio questa
azione quella che chiede di essere partecipata in
modo consapevole, attivo e fruttuoso. E ciò è
possibile se si realizza un’autentica comunione del
fedele con l’agire della Chiesa e l’agire di Cristo.
Ma qual è l’agire della Chiesa? E’ l’agire della
Sposa che tende a diventare un’unica realtà con
Cristo Sposo e con il suo agire. E qual è l’agire di
Cristo? La sua offerta di amore al Padre per la
nostra salvezza. Di conseguenza, la partecipazione
consapevole, attiva e fruttuosa in liturgia si ha
nella misura in cui ciascuno e tutti condividiamo
l’azione della Chiesa che tende allo Sposo e,
dunque, ci lasciamo coinvolgere dall’azione dello
Sposo che è donazione d’amore al Padre per la
salvezza del mondo.
In quanto della Chiesa, poi, una tale azione dovrà
realizzare e manifestare la Chiesa stessa, segno
visibile della comunione di Dio e degli uomini, in
Cristo. E avere, dunque, anche una sua rilevanza
esterna, fatta di altre azioni che, esprimendo la
compartecipazione di tutti nel modo proprio di
ciascuno, troveranno sempre la loro motivazione
nell’essere vie di partecipazione all’agire di
Cristo. Non si potrebbe parlare, pertanto, di
partecipazione autenticamente attiva se, ad esempio,
colui che proclama le letture, presenta le offerte,
serve all’altare, anima il canto, svolge qualunque
altro ministero liturgico non trovasse in questa sua
particolare modalità di presenza al rito la via per
entrare in comunione con l’agire della Chiesa e di
Cristo.
Il canto e la musica
Considerando la liturgia come azione della Chiesa
intera, nel significato sopra
indicato, mi piace al riguardo spendere una parola
su quel fondamentale linguaggio liturgico che è il
canto, considerato insieme alla musica.
Dice il salmista: “Un canto di lode mi onora, ed
esso è la via per la quale mostrerò la salvezza di
Dio” (Sal 49, 23). E così commenta san
Gregorio Magno: “Ciò che in latino suona salutare,
salvezza, in ebraico si dice Gesù. Nel canto di lode
perciò viene creata una via di accesso, per la quale
Gesù può rivelarsi, poiché quando mediante il canto
dei Salmi viene riversata in noi la vera
contrizione, si apre in noi una strada che conduce
nel profondo del cuore, alla fine della quale si
giunge a Gesù…” (In Ez I hom. I, 15).
Così il canto e la musica in liturgia, quando si
esprimono secondo la verità del loro essere, nascono
dal cuore che ricerca il mistero di Dio e diventano
un’esegesi dello stesso mistero, della Parola fatta
carne per la nostra salvezza. Pertanto c’è un legame
intrinseco tra la parola, la musica e il canto nella
celebrazione liturgica. Musica e canto, infatti, non
possono essere slegati dalla parola, quella di Dio,
della quale invece devono essere interpretazione
fedele, svelamento comprensibile all’animo credente.
Il canto e la musica in liturgia sgorgano dalle
profondità del cuore, e dunque da Cristo che lo
abita, e riconducono al cuore, vale a dire a Cristo
che della domanda del cuore è risposta vera e
definitiva. Questa è l’oggettività del canto e della
musica liturgica, che non dovrebbe mai essere
consegnata all’estemporaneità di sentimenti
superficiali e di emozioni passeggere non
rispondenti alla grandezza del mistero
celebrato. Questa è la grande dignità del canto e
della musica in liturgia, dove la semplicità non può
in alcun modo fare rima con banalità o solo con mera
utilità.
E’ giusto, quindi affermare che il canto e la musica
in liturgia nascono dalla preghiera e portano alla
preghiera, permettendo a noi di esprimerci con il
linguaggio autentico della liturgia. In tal modo il
canto diventa una via privilegiata di legame tra
cielo e terra, di esperienza di comunione tra la
Chiesa pellegrina e la Gerusalemme celeste, tra il
mondo degli uomini e il mondo di Dio.
Mi sia consentito qui, parlando del canto e della
musica, di accennare brevemente alla lingua latina.
Non è il caso di fare ora riferimento ai numerosi
testi del magistero, anche recente e contemporaneo,
che auspicano un significativo uso del latino in
liturgia. Basti qui ricordare quale straordinario
tesoro di canto e musica per la liturgia ci hanno
consegnato i secoli passati.
Qualcosa di quel tesoro la Chiesa lo ha definito
perennemente valido, in sé e quale criterio per
stabilire ciò che può essere davvero liturgico nelle
nuove forme musicali che si vanno sviluppando nel
tempo. Mi riferisco al gregoriano e alla polifonia
sacra classica, forme di canto liturgico che
consentono di valutare, oggi come ieri, ciò che
attiene alla liturgia e ciò che, pur di valore
artistico e di contenuto religioso, non può avere
spazio nella celebrazione liturgica. Il valore
perenne del gregoriano e della polifonia classica
consiste nella loro capacità di farsi esegesi della
parola di Dio e, dunque, del mistero celebrato, di
essere al servizio della liturgia senza fare della
liturgia uno spazio al servizio della musica e del
canto. Potremo noi rinunciare a mantenere in vita
tali tesori che secoli di storia della Chiesa ci
hanno consegnato? Potremo noi fare a meno di
attingere ancora oggi a quel patrimonio di
spiritualità straordinario? Come sarà mai possibile
dare corpo a un più ampio e degno repertorio di
canto e di musica per la liturgia se non ci saremo
lasciati educare da ciò che lo deve ispirare? E’ in
gioco, anche in questo caso, l’elemento essenziale
dello sviluppo e della riforma nella continuità
dell’unico soggetto Chiesa.
Ecco perché dobbiamo conservare nei modi dovuti il
latino. Senza dimenticare anche altre componenti di
questa lingua liturgica, quale la sua capacità di
dare espressione a quella universalità e cattolicità
della Chiesa, a cui davvero non è lecito rinunciare.
Come non provare, al riguardo, una straordinaria
esperienza di cattolicità quando, nella basilica di
San Pietro come in altri luoghi di raduno
internazionale, uomini e donne di tutti i
continenti, di nazionalità e lingue diverse pregano
e cantano insieme nella stessa lingua? Chi non
percepisce la calda accoglienza della casa comune
quando, entrando in una chiesa di un paese straniero
può, almeno in alcune parti, unirsi ai fratelli
nella fede in virtù dell’uso della stessa lingua?
Perché questo continui a essere concretamente
possibile è necessario che nelle nostre chiese e
comunità l’uso del latino sia conservato, in via
ordinaria, con sano equilibrio e con la dovuta
saggezza pastorale.
La liturgia è preghiera adorante
Il tema della partecipazione, che è stato prima
accennato, offre ora l’opportunità di ampliare
quanto già detto in merito all’agire di Cristo nella
liturgia.
Lo facciamo lasciandoci condurre per mano da una
fondamentale argomentazione del teologo Ratzinger:
“Con il termine ‘actio’ riferito alla liturgia, si
intende nelle fonti il canone eucaristico. La vera
azione liturgica, il vero atto liturgico, è la
oratio: la grande preghiera, che costituisce il
nucleo della celebrazione liturgica e che proprio
per questo, nel suo insieme, è stata chiamata dai
Padri con il termine oratio. Questa
definizione era corretta già a partire dalla stessa
forma liturgica, poiché nella oratio si
svolge ciò che è essenziale alla Liturgia cristiana
[…] Questa oratio – la solenne preghiera
eucaristica, ‘il canone’ - … è actio nel
senso più alto del termine. In essa accade, infatti,
che l’actio umana … passa in secondo piano e
lascia spazio all’actio divina, all’agire di
Dio” (Introduzione allo spirito della Liturgia,
pp.167-168).
Nella oratio, di conseguenza, si svolge ciò
che è essenziale alla liturgia cristiana. Ci
domandiamo: “Che cosa è questo essenziale che si
svolge?” Rispondiamo, seguendo il testo di
Ratzinger: “L’agire di Dio”. Ora si tratta di
approfondire in che cosa consista l’agire di Dio.
Si tratta dell’agire di Dio in Cristo, ovvero di
quell’atto pregato mediante il quale il Signore
offre la vita al Padre per la salvezza del mondo.
Che si tratti di un atto pregato lo ricorda
Benedetto XVI in un passo dell’omelia per la Messa
“in Coena Domini” del 2009, a commento del Canone
Romano: “Come prima cosa - affermava il Santo Padre
- ci colpirà che il racconto dell’istituzione non è
una frase autonoma, ma comincia con un pronome
relativo: qui pridie [La vigilia della sua
passione…]. Questo “qui” aggancia l’intero
racconto alla precedente parola della preghiera, “…
diventi per noi il corpo e il sangue del tuo
amatissimo Figlio, il Signore nostro Gesù Cristo”.
In questo modo, il racconto è connesso con la
preghiera precedente, con l’intero Canone, e reso
esso stesso preghiera. Non è affatto semplicemente
un racconto qui inserito, e non si tratta neppure di
parole autoritative a sé stanti, che magari
interromperebbero la preghiera. È preghiera. E
soltanto nella preghiera si realizza l’atto
sacerdotale della consacrazione che diventa
trasformazione, transustanziazione dei nostri doni
di pane e vino in Corpo e Sangue di Cristo”.
Ma che cosa avviene in quell’atto pregato del
Signore, in quel suo atto che è
preghiera? In quell’agire gli elementi della terra
vengono accolti e trasformati nel suo corpo e nel
suo sangue, così che il nuovo cielo e la nuova terra
vengono anticipati. In quell’agire si compie il
gesto di adorazione supremo che riconduce alla
verità del proprio essere l’umanità tutta e la
creazione intera: ogni realtà ritrova la sua ragione
d’essere in Dio e nella dipendenza da lui.
Così la liturgia è adorazione in quanto rende
presente in modo sacramentale il sacrificio della
croce nel quale Gesù ha reso gloria al Padre con il
suo sì, segno di un amore condotto “fino alla fine”,
adorazione radicale di Dio e della sua volontà. Così
la liturgia è preghiera in quanto preghiera di
Cristo rivolta al Padre nello Spirito, perché
accolga il suo sacrificio.
Ecco perché la liturgia cristiana è atto che conduce
all’adesione, ovvero alla
riunificazione dell’uomo e della creazione con Dio,
all’uscita dallo stato di separazione, alla
comunione di vita con Cristo.
E tutto questo è quanto la Chiesa, sposa di Cristo,
vive nella celebrazione della
liturgia. In effetti, ciò che ancora risulta
essenziale per la liturgia è che coloro che vi
partecipano preghino per condividere lo stesso
sacrificio del Signore, il suo atto di adorazione,
diventando una solo cosa con lui, vero corpo di
Cristo. In altre parole, ciò che è essenziale è che
alla fine venga superata la differenza tra l’agire
di Cristo e il nostro agire, che vi sia una
progressiva armonizzazione tra la sua vita e la
nostra vita, tra il suo sacrificio adorante e il
nostro, così che vi sia una sola azione, ad un tempo
sua e nostra. Quanto affermato da san Paolo non può
che essere l’indicazione di ciò che è essenziale
conseguire in virtù della celebrazione liturgica:
“Sono stato crocifisso con Cristo, e non vivo più
io, ma Cristo vive in me” (Gal 2, 19-20).
Ascoltiamo, al riguardo, Divo Barsotti, in una sua
celebre opera sulla liturgia: “E l’Avvenimento,
l’Atto del Cristo, è prima di tutto Sacrificio,
Sacrificio di adorazione. Il Verbo, nella natura
umana che Egli ha assunto, riconosce con la sua
Morte l’infinita santità di Dio e la sua sovranità.
In Lui la creazione finalmente adora […] Una
partecipazione nostra al Sacrificio di Gesù importa
che noi si viva lo stesso annientamento suo… La
condizione terrestre della nostra vita, nella sua
accettazione volontaria, diviene il segno di una
nostra partecipazione al Sacrificio di Gesù, alla
sua adorazione” (Il mistero della Chiesa nella
Liturgia, edizioni San Paolo, pp. 174-175).
Il sacro silenzio
Se la liturgia è preghiera adorante, ciò significa
che quando è ben celebrata, con il linguaggio che le
è proprio, in diverse sue parti, deve prevedere una
felice alternanza di silenzio e parola, dove il
silenzio anima la parola, permette alla voce di
risuonare in felice sintonia con il cuore, mantiene
ogni espressione vocale e gestuale nel giusto clima
del raccoglimento.
Laddove vi fosse un predominio unilaterale della
parola, non risuonerebbe l’autentico linguaggio
della liturgia. Urge, pertanto, il coraggio di
educare all’interiorizzazione, la disponibilità a
imparare nuovamente l’arte del silenzio, di quel
silenzio in cui apprendiamo quell’unica Parola che
può salvare dall’accumularsi delle parole vane e dei
gesti vuoti e teatrali.
Si ricordi, in proposito, quanto afferma
l’Ordinamento Generale del Messale Romano: “Si deve
osservare, a suo tempo, il sacro silenzio, come
parte della celebrazione. La sua natura dipende dal
momento in cui ha luogo nelle singole celebrazioni.
Così, durante l’atto penitenziale e dopo l’invito
alla preghiera, il silenzio aiuta il raccoglimento;
dopo la lettura o l’omelia, è un richiamo a meditare
brevemente ciò che si è ascoltato; dopo la
Comunione, favorisce la preghiera interiore di lode
e di supplica” (n. 45).
L’Ordinamento Generale, come d’altronde anche la
Sacrosanctum concilium (cf. n.
30) a cui l’Ordinamento si richiama, parla di
“silenzio sacro”. Il silenzio richiesto, pertanto,
non è da considerarsi alla stregua di una pausa tra
un momento celebrativo e il successivo. E’ da
considerarsi piuttosto come un vero e proprio
momento rituale, complementare alla parola, alla
preghiera vocale, al canto, al gesto...
Da questo punto di vista, ci è dato di capire meglio
il motivo per cui durante la
preghiera eucaristica e, in specie, il canone, il
popolo di Dio orante segue nel silenzio la preghiera
del sacerdote celebrante. Si dice, infatti, al n. 78
dell’Ordinamento Generale del Messale Romano: “La
Preghiera eucaristica esige che tutti l’ascoltino
con riverenza e silenzio”. Quel silenzio non
significa inoperosità o mancanza di partecipazione.
Quel silenzio tende a far sì che tutti entrino nel
significato di quel momento rituale che ripropone,
nella realtà del sacramento, l’atto di amore con il
quale Gesù si offre al Padre sulla croce per la
salvezza del mondo. Quel silenzio, davvero sacro, è
lo spazio liturgico nel quale dire sì, con tutta la
forza del nostro essere, all’agire di Cristo, così
che diventi anche il nostro agire nella quotidianità
della vita.
Il silenzio liturgico, allora, è davvero sacro
perché è il luogo spirituale nel quale
realizzare l’adesione di tutta la nostra vita alla
vita del Signore, è lo spazio dell’“amen” prolungato
del cuore che si arrende all’amore di Dio e lo
abbraccia come nuovo criterio del proprio vivere.
Non è forse questo il significato stupendo
dell’“amen” conclusivo della dossologia al termine
della preghiera eucaristica, nella quale tutti
diciamo con la voce quanto a lungo abbiamo ripetuto
nel silenzio del cuore orante?
L’adorazione
Quanto si è detto in merito alla preghiera adorante,
impone che tutto, nel linguaggio dell’azione
liturgica, conduca all’adorazione: la musica, il
canto, il silenzio, il modo di proclamare la parola
di Dio e il modo di pregare, la gestualità, le vesti
liturgiche e le suppellettili sacre, così come anche
l’edificio sacro nel suo complesso. Mi soffermo un
istante su un gesto tipico e centrale
dell’adorazione che oggi rischia di sparire, quale
il mettersi in ginocchio, rifacendomi a un testo del
cardinale Ratzinger: “Noi sappiamo che il Signore ha
pregato stando in ginocchio (Lc 22, 41), che
Stefano (At 7, 60), Pietro (At 9, 40)
e Paolo (At 20, 36) hanno pregato in
ginocchio. L’inno cristologico della Lettera ai
Filippesi (2, 6-11) presenta la liturgia del cosmo
come un inginocchiarsi di fronte al nome di Gesù (2,
10) e vede in ciò adempiuta la profezia isaiana (Is
45, 23) sulla signoria sul mondo del Dio
d’Israele.
Piegando il ginocchio nel nome di Gesù, la Chiesa
compie la verità; essa si inserisce nel gesto del
cosmo che rende omaggio al vincitore e così si pone
dalla parte del vincitore poiché un tale
inginocchiarsi è una rappresentazione e assunzione
imitativa dell’atteggiamento di Colui che «era
uguale a Dio» ed «ha umiliato se stesso fino alla
morte»” (Rivista Communio, 35/1977).
Verrebbe da chiedersi se il ridursi sensibile dei
segni del culto e dell’adorazione non siano motivati
in profondità da un vacillare della fede in Gesù
Figlio di Dio, unico e universale Salvatore di
tutti, da un venir meno della certezza che senza
conversione a Cristo e senza la grazia della croce
non c’è salvezza per nessuno.
E’ anche per questo che è da ritenersi del tutto
appropriata la pratica di inginocchiarsi per
ricevere la santa Comunione. A ulteriore conferma
ascoltiamo il Santo Padre in un passaggio di
Sacramentum caritatis: “Già Agostino aveva
detto: «Nessuno mangia questa carne senza prima
adorarla; peccheremmo se non la adorassimo».
Nell’Eucaristia, infatti, il Figlio di Dio ci viene
incontro e desidera unirsi a noi; l’adorazione
eucaristica non è che l’ovvio sviluppo della
celebrazione eucaristica, la quale è in se stessa il
più grande atto d’adorazione della Chiesa. Ricevere
l’Eucaristia significa porsi in atteggiamento di
adorazione verso Colui che riceviamo. Proprio così e
soltanto così diventiamo una cosa sola
con Lui e pregustiamo in anticipo, in qualche modo,
la bellezza della liturgia celeste” (n. 66).
Qualcuno potrebbe riscontrare una contraddizione tra
il gesto del mettersi in ginocchio e quello
dell’incedere processionalmente. In verità non vi
sono motivi per riscontrare alcuna contraddizione.
Infatti la Chiesa che, nel segno esteriore, si
dirige in processione verso il Signore è la stessa
Chiesa che, sempre nel segno esteriore, alla sua
presenza, si inginocchia e adora.
La liturgia è cosmica
Nel suo celebre testo “Introduzione allo spirito
della liturgia”, il Card. Ratzinger si dilunga per
un intero capitolo, i cui contenuti vengono ripresi
anche altrove all’interno del volume, sul rapporto
tra liturgia, cosmo e storia. Quelle pagine
terminano con un brano che, di seguito, desidero
citare: “Il circolo cosmico e quello storico sono
ora distinti: l’elemento storico riceve il suo
peculiare e definitivo significato dal dono della
libertà come centro dell’essere divino e di quello
creato, ma non viene per questo separato da quello
cosmico. Malgrado la loro differenza, ambedue i
circoli restano in definitiva all’interno dell’unico
circolo dell’essere: la liturgia storica del
cristianesimo è e rimane – inseparabilmente e
inconfondibilmente – cosmica, e solo così essa
sussiste in tutta la sua grandezza. C’è la novità
unica della realtà cristiana, e tuttavia essa non
ripudia la ricerca della storia delle religioni, ma
accoglie in sé tutti gli elementi portanti delle
religioni naturali, mantenendo in tal modo un legame
con loro” (p. 31).
Con queste parole, che sono a suggello di una lunga
e articolata riflessione, il teologo Ratzinger
intende sottolineare il legame inscindibile tra
creazione e alleanza, ordine cosmico e ordine
storico di rivelazione. L’alleanza, che è
rivelazione storica di Dio all’uomo, non annulla la
creazione, che è richiamo cosmico della presenza di
Dio nella vicenda umana. Anzi, la creazione è il
luogo nel quale si realizza l’alleanza e che trova
il suo pieno e definitivo significato nell’alleanza.
Mentre la stessa alleanza trova proprio nella
creazione e nel cosmo il suo fondamento e la sua
possibilità espressiva.
Così, la liturgia cristiana, che porta in sé tutta
la novità della salvezza in Cristo,
conserva e raccoglie ogni espressione di quella
liturgia cosmica che ha caratterizzato la vita dei
popoli alla ricerca di Dio per il tramite della
creazione. E’ quanto mai significativa e istruttiva,
anche da questo punto di vista, la Preghiera
eucaristica I o Canone romano, là dove ci si
riferisce ai “doni di Abele, il giusto, il
sacrificio di Abramo, nostro padre nella fede, e
l’oblazione pura e santa di Melchisedech, tuo sommo
sacerdote”.
Come non ritrovare in questo passaggio della grande
preghiera della Chiesa un riferimento ai sacrifici
antichi, al culto cosmico e legato alla creazione
che ora, nella liturgia cristiana, non solo non è
rinnegato, ma anzi è assunto nel nuovo ed eterno
sacrificio di Cristo Salvatore?
D’altra parte, in questa stessa prospettiva, non si
può che guardare ai molteplici segni e simboli
cosmici dei quali la liturgia della Chiesa, insieme
ai segni e ai simboli tipici dell’alleanza, fa uso
al fine di dare forma al nuovo culto cristiano. Si
pensi alla luce e alla notte, al vento e al fuoco,
all’acqua e alla terra, all’albero e ai frutti. Si
tratta di quell’universo materiale nel quale l’uomo
è chiamato a rilevare le tracce di Dio. E si pensi
ugualmente ai segni e ai simboli della vita sociale:
lavare e ungere, spezzare il pane e condividere il
calice.
Come afferma il Catechismo della Chiesa Cattolica
“le grandi religioni dell’umanità testimoniano,
spesso in modo impressionante, tale senso cosmico e
simbolico dei riti religiosi. La liturgia della
Chiesa presuppone, integra e santifica elementi
della creazione e della cultura umana conferendo
loro la dignità di segni della grazia, della nuova
creazione in Cristo Gesù” (n. 1149).
Scriveva il Servo di Dio Giovanni Paolo II.
“…l’Eucaristia è sempre celebrata, in certo senso,
sull’altare del mondo. Essa unisce cielo e
terra. Comprende e pervade tutto il creato. Il
Figlio di Dio si è fatto uomo, per restituire tutto
il creato, in un supremo atto di lode, a Colui che
lo ha fatto dal nulla […] Davvero è questo il
mysterium fidei che si realizza nell’Eucaristia:
il mondo uscito dalle mani di Dio creatore torna a
Lui redento da Cristo” (Ecclesia de Eucharistia,
n. 8).
Questo, della dimensione cosmica della liturgia, è
un altro dei suoi elementi essenziali. Che, tra
l’altro, introduce al grande tema dell’orientamento
della preghiera liturgica. La preghiera rivolta a
oriente, infatti, è una tradizione che ci conduce
alle origini del cristianesimo e si presenta come
sintesi tipicamente cristiana di cosmo e storia, di
assunzione di un simbolo cosmico, quale è il sole, a
espressione dell’universalità della salvezza in
Cristo, al quale la comunità radunata si orienta con
gioia e speranza.
Nel momento in cui, per diversi motivi che non è qui
il caso di ricordare, si è andata perdendo la
consapevolezza della preghiera orientata a est, in
direzione del sole che sorge, si rende quanto mai
urgente recuperare questa dimensione liturgica che
non si configura come una fuga romantica nel
passato, ma come riscoperta dell’essenziale, di
quell’essenziale nel quale la liturgia della Chiesa
esprime il suo orientamento permanente.
La centralità del crocifisso
Così, anche dal punto di vista del corretto
linguaggio liturgico, si comprende ora
meglio il motivo della collocazione del crocifisso
al centro dell’altare.
Ma ascoltiamo direttamente prima le argomentazioni
del teologo Ratzinger, in un brano del suo testo “La
festa della fede”, e poi il pensiero di Benedetto
XVI, espresso nella prefazione al volume della Sua
Opera Omnia - Teologia della liturgia -,
dedicato alla liturgia.
Ecco le argomentazioni del teologo. “Il vero spazio
e la vera cornice della celebrazione eucaristica è
tutto il cosmo. Questa dimensione cosmica
dell’Eucaristia si faceva presente nell’azione
liturgica mediante l’inorientamento [ndr. il
corretto orientamento verso…]. L’Oriente – oriens –
era anche notoriamente, dal segno del sole nascente,
il simbolo della risurrezione (e pertanto non solo
espressione cristologica, ma indice pure della
potenza del Padre e dell’opera dello Spirito Santo),
nonché richiamo alla speranza nella parusìa […] La
croce dell’altare si può qualificare come un residuo
dell’inorientamento rimasto fino ai giorni nostri.
In essa fu conservata la vecchia tradizione, che era
a suo tempo strettamente collegata al simbolo
cosmico dell’Oriente, di pregare nel segno della
croce il Signore veniente, volgendovi lo sguardo […]
Anche nell’attuale orientamento della celebrazione,
la croce potrebbe essere collocata sull’altare in
tal modo che i sacerdoti e i fedeli la guardino
insieme. Nel canone essi non dovrebbero guardarsi,
ma guardare insieme a lui, il trafitto […] La croce
sull’altare non è… un impedimento alla visuale, ma
un punto comune di riferimento… Ardirei addirittura
la tesi che la croce sull’altare non è impedimento
ma presupposto della celebrazione «versus populum».
Diverrebbe così ricca di significato la distinzione
tra liturgia della parola e canone. Nella prima si
tratta dell’annunzio, e pertanto di
un indirizzo immediato, nell’altra di un’adorazione
comune, nella quale noi tutti stiamo più che mai
durante la invocazione - «conversi ad Dominum» -:
Rivolgiamoci al Signore; convertiamoci al Signore” (La
festa della fede, pp. 131-135).
Ed ecco il pensiero
del Papa. “L’idea che sacerdote e popolo nella
preghiera
dovrebbero guardarsi reciprocamente è nata solo
nella cristianità moderna ed è
completamente estranea in quella antica. Sacerdote e
popolo certamente non pregano l’uno verso l’altro,
ma verso l’unico Signore. Quindi guardano nella
preghiera nella stessa direzione: o verso Oriente
come simbolo cosmico per il Signore che viene, o,
dove questo non è possibile, verso un’immagine di
Cristo nell’abside, verso una croce, o semplicemente
verso il cielo, come il Signore ha fatto nella
preghiera sacerdotale la sera prima della Passione
(Gv 17, 1). Intanto si sta facendo strada sempre di
più, fortunatamente, la proposta da me fatta alla
fine del capitolo in questione della mia opera [Introduzione
allo spirito della liturgia, pp.70-80]: non
procedere a nuove trasformazioni, ma porre
semplicemente la croce al centro dell’altare, verso
la quale possano guardare insieme sacerdote e
fedeli, per lasciarsi guidare in tal modo verso il
Signore, che tutti insieme preghiamo” (Teologia
della liturgia, pp. 7-8).
Un rinnovato amore per ciò che è “oggettivo”
Avviandomi alla conclusione, ritengo importante
sottolineare quella che mi pare
essere una grave urgenza del nostro tempo, ovvero la
necessità della formazione alla liturgia e al suo
linguaggio, a tutti i livelli. Nulla, lo sappiamo, è
ormai possibile dare per scontato. In un tale
processo formativo ritengo vi siano quattro
priorità. Anzitutto, è necessario far approfondire e
assimilare i temi portanti della teologia della
liturgia come fondamento della prassi celebrativa.
In secondo luogo è importante aiutare a capire il
linguaggio liturgico in quanto radicato in una
tradizione secolare, soggetto al discernimento
ecclesiale, sempre in una logica di sviluppo
armonico che sa valorizzare insieme antico e nuovo.
Inoltre è fondamentale introdurre al senso autentico
della celebrazione che, in quanto culto spirituale,
deve plasmare la vita in ogni suo aspetto, fornendo
un nuovo linguaggio – quello di Cristo – alla
quotidianità. Infine è indispensabile suscitare un
rinnovato amore per ciò che è oggettivo, una
convinta e ministeriale adesione al rito, da
intendere non come aspetto coercitivo
dell’espressività, ma piuttosto come condizione
indispensabile per un’espressività autentica e
davvero comunicativa del mistero di Cristo celebrato
nella Chiesa.
Quasi a coronamento di quanto ora affermato e a
richiamo di ciò che non può mai
essere dimenticato quando si tratta di linguaggio
liturgico, anche quando ci si dovesse addentrare
ulteriormente nel dettaglio di tale linguaggio,
ritengo utile e significativo richiamare alla
memoria alcuni brani di Romano Guardini. Sono tratti
dal suo volume “Formazione liturgica” e risultano
inseriti nel capitolo dedicato a “L’elemento
oggettivo”.
Le parole del grande teologo hanno la capacità di
condurci con autorevolezza a
ritrovare la grazia e la vera bellezza in ciò che è
oggettivo, ovvero in quel linguaggio liturgico che
precede la nostra personale, variabile e troppo
angusta sensibilità soggettiva.
“La liturgia rigorosa è quella forma del
comportamento religioso nel quale l’oggettivo si
manifesta nel modo più intenso […]
La liturgia è auto espressione dell’uomo, ma
dell’uomo come deve essere, ed è per questo che essa
diviene severa disciplina. L’uomo superficiale può
facilmente sentire la preghiera liturgica come ‘non
verace’, poiché l’uomo che parla nella liturgia è
quello profondo, essenziale. Esso però giace
sepolto. Perciò la preghiera liturgica deve essere
per lungo tempo un esercizio consapevole, finché il
profondo, il più vero non si risvegli, l’immagine
dell’essere si rettifichi e ora parli realmente
quanto è conforme all’essenza […] La liturgia è auto
espressione dell’uomo. Ma essa gli dice: di un uomo
quale tu non sei ancora. Perciò devi venire alla mia
scuola […]
Ciò che essa esprime è conforme all’essenza;
l’espressione è servizio all’essenza del dialogo tra
Dio e l’anima.
Calibrato sull’essenza è anche il suo modo di
rivelarlo, e così parimenti servizio
all’essenza del corpo, dei gesti, del linguaggio […]
La Chiesa ha regolato moltissimo… Tutto ciò è una
dura prova per lo spirito ribelle del singolo che
amerebbe rendere se stesso misura di tutte le cose;
che, partendo dal proprio frammento strettamente
limitato di realtà posseduta e dal presente della
propria breve vita, vuole giudicare sull’infinito e
sull’eterno; che vuole giudicare sulle profondità e
sulle essenze.
E’ una dura prova che l’urgenza del presente debba
tacere davanti al retaggio del passato, così come
l’estrosità del singolo di fronte a quanto è
positivamente fissato dall’autorità. Storia e legge,
tradizione e autorità: in questo deve incarnarsi
l’oggettivo con tutto il suo peso che pone
all’atteggiamento personale del singolo le più
elevate esigenze.
Tutto viene portato alla Chiesa attraverso la
fiducia, che vede in essa l’umanità rinata, il
compendio oggettivo della creazione messa in
rapporto con Dio in Cristo… Questa fiducia dà la
forza di mettere all’ultimo posto la perplessità del
giudicare e sentire individuale, e dà la ferma
speranza che in tale perdita l’anima troverà il
meglio di se stessa.
La Spirito Santo ha impresso il suo sigillo nella
nostra anima e ha fatto del nostro corpo il suo
tempio (1 Cor 6, 19); Egli conosce il nostro
essere meglio di noi stessi. Le forme
dell’espressione che Egli ci indica, sono nel loro
più profondo educanti. Noi dovremmo immedesimarci,
crescendo, con esse, anche quando non rispondono
senz’altro alla nostra sensibilità e non vengono
percepite nel senso più preciso come ‘veritiere’.
Esse sono veritiere perché hanno carattere
essenziale, in uno strato di significato più
profondo […]… noi dobbiamo passare dall’angustia e
dall’arbitrio soggettivi, uscire per approdare
all’ampiezza e all’ordine oggettivi; dobbiamo
giungere a trovar gioia per quella forte obbedienza
e quella disciplina che portano a tale
atteggiamento. Ma è solo la Chiesa a condurre a tale
meta; pertanto dobbiamo superare ogni diffidenza
verso di essa e acquisire una grande fiducia.
Non possiamo addentrarci qui in proposte pratiche;
si tratta soprattutto di un
orientamento, d’un modo di pensare”.
E proprio volgendo la mente e il cuore a questo
orientamento e a questo modo di pensare desideriamo
educarci ed educare al linguaggio della celebrazione
liturgica.
Mons. Guido Marini
Maestro delle Celebrazioni Liturgiche Pontificie
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