1. Qualche accenno alla liturgia della Chiesa
La presenza attuale della nostra salvezza
Sappiamo bene che nella liturgia si rende presente
in modo sacramentale il mistero della nostra
salvezza. Colui che è risorto da morte, il Vivente,
rinnova il sacrificio redentore per la potenza dello
Spirito Santo. “Chi dunque salva il mondo e l’uomo?
- ha affermato di recente Benedetto XVI -. L’unica
risposta che possiamo dare è: Gesù di Nazaret,
Signore e Cristo, crocifisso e risorto. E dove si
attualizza il Mistero della morte e risurrezione di
Cristo, che porta la salvezza? Nell’azione di Cristo
mediante la Chiesa, in particolare nel sacramento
dell’Eucaristia, che rende presente l’offerta
sacrificale redentrice del Figlio di Dio…” (Udienza
generale, 5 maggio 2010).
Non si tratta, dunque, di ricordare qualcosa che il
tempo ha relegato in un passato ormai per sempre
confinato alle nostre spalle. Neppure si tratta di
un insieme di riti, pur esteticamente belli, ma
privi di vita e incapaci di comunicare salvezza. E
nemmeno si tratta di un ritrovarsi insieme tra
convenuti che condividono un ideale e che intendono
crescere nella imensione comunitaria. Si tratta
piuttosto di una celebrazione in virtù della quale
noi realmente entriamo in relazione con il mistero
della nostra salvezza, con Cristo Signore, il
Salvatore, che ci comunica la sua stessa vita, la
sua grazia. Così il passato si rende attuale, il
bello è una manifestazione reale della bellezza del
Dio vivo, nuovi rapporti fraterni sono il frutto
dell’opera del Signore nel cuore dell’uomo.
A mio avviso si rende urgente, ad ogni generazione
cristiana, rinnovare la percezione di fede di una
tale realtà, di una celebrazione che davvero è il
tramite dell’incontro con il Signore, presente
nell’oggi della vita e della storia. Mi colpisce
sempre molto quanto le guide più avvedute dicono ai
visitatori della basilica di San Pietro in Roma,
quando si soffermano a contemplare il capolavoro di
Michelangelo, “La Pietà”. Come si sa l’opera del
grande artista è collocata dove attualmente ci si
prepara per la celebrazione eucaristica ogni
qualvolta è presente il Santo Padre. Ebbene, le
guide fanno notare che le mani della Madonna sono
aperte, quasi a voler consegnare il corpo
sacrificato di Gesù a coloro che osservano la scena.
La Pietà era stata realizzata da Michelangelo come
pala da altare e, dunque, destinata a fare da sfondo
all’altare della celebrazione eucaristica. In tal
modo il celebrante e l’intera assemblea potevano
contemplare il gesto della SS. Vergine, nell’atto di
donare il Salvatore alla sua Chiesa durante la
celebrazione. Come è bello il richiamo di questo
dettaglio artistico! Nella celebrazione della Messa
proprio il Signore risorto da morte, nella sua
parola, nel suo corpo e nel suo sangue si dona a noi
perché possiamo entrare nel mistero della sua vita
e, dunque, essere salvati.
Mi sia consentito, in proposito, di richiamare un
altro dettaglio artistico della splendida basilica
di San Pietro. E’ noto che il baldacchino
sovrastante il grande altare della confessione è
opera del Bernini. Se si osserva con attenzione il
drappeggio, che ricopre la parte alta del
baldacchino, si può notare che il disegno non
risulta statico bensì capace di dare una chiara
impressione di dinamicità. In altre parole sembra
che quel drappeggio sia mosso da un soffio di vento,
tanto delicato quanto deciso.
In tal modo l’artista ha inteso sottolineare quanto
avviene al momento della preghiera eucaristica e, in
specie, della consacrazione: lo Spirito Santo
davvero scende sull’altare della celebrazione ed è
l’artefice, insieme alle parole e all’azione di
Cristo, della trasformazione sostanziale - ovvero la
transustanziazione - del pane e del vino nel corpo e
sangue del Signore (cf.
Catechismo della Chiesa cattolica,
n. 1353). Lo Spirito datore di vita rende realmente
presente il Signore Risorto nell’atto del suo
sacrificio redentore. Ecco, espressa nell’arte, la
realtà del mistero celebrato. Ora, qui, il Salvatore
è presente e operante nel suo mistero di amore e di
grazia.
Il mistero sacro
Mi soffermo ancora un istante sulla parola
“mistero”. E’ chiaro che con questo termine non si
vuole intendere qualche cosa di oscuro, esoterico e
inquietante. Si vuole piuttosto individuare l’opera
salvifica di Dio, la cui luce è talmente abbagliante
da risultare non del tutto comprensibile all’uomo:
la ragione umana deve, a un certo punto del cammino,
lasciare spazio alla fede per accedere al Vero. E’
proprio tale opera salvifica, come si diceva, che
viene celebrata nella liturgia. Non, dunque, l’opera
dell’uomo ha il primato nella celebrazione ma
l’opera di Dio, l’evento pasquale di morte e
risurrezione. Non si vuole certo misconoscere
l’importanza dell’agire dell’uomo in liturgia; si
vuole solo mettere nella giusta luce il rapporto di
necessaria dipendenza dell’agire umano rispetto
all’agire del Signore.
Così si è espresso, al riguardo,
Benedetto XVI
rivolgendosi ai Vescovi della Conferenza Episcopale
del Brasile in visita “ad limina apostolorum”: «Ora
l'atteggiamento principale e fondamentale del fedele
cristiano che partecipa alla celebrazione liturgica
non è fare, ma ascoltare, aprirsi, ricevere... È
ovvio che, in questo caso, ricevere non significa
restare passivi o disinteressarsi di quello che lì
avviene, ma cooperare - poiché di nuovo capaci di
farlo per la grazia di Dio - secondo “la genuina
natura della vera Chiesa. Questa ha infatti la
caratteristica di essere nello stesso tempo umana e
divina, visibile ma dotata di realtà invisibili,
fervente nell'azione e dedita alla contemplazione,
presente nel mondo e tuttavia pellegrina; tutto
questo, in modo tale, però, che ciò che in essa è
umano sia ordinato e subordinato al divino, il
visibile all'invisibile, l'azione alla
contemplazione, la realtà presente alla città
futura, verso la quale siamo incamminati” (Sacrosanctum
Concilium,
n. 2). Se nella liturgia non emergesse la figura di
Cristo, che è il suo principio ed è realmente
presente per renderla valida, non avremmo più la
liturgia cristiana, completamente dipendente dal
Signore e sostenuta dalla sua presenza creatrice»
(15 aprile 2010).
E’ per questo che al termine “mistero” è necessario
abbinare il termine “sacro”. Affermare la sacralità
della liturgia significa ricordare la necessità di
custodire con cura il mistero che in essa è
celebrato. Sacralità liturgica è l’oggettività di
quel mistero che, nella sua ripetitività, non smette
di interessare l’uomo: in quanto gli dona ciò di cui
realmente ha bisogno e lo salva, consentendogli di
entrare nella vera gioia. In questo senso
l’accoglienza del mistero in vista della
trasformazione e della conversione è il principale
atto cui siamo chiamati nella celebrazione della
liturgia. Questa, se così vogliamo chiamarla, è la
più vera creatività che deve caratterizzare la vita
del singolo e della comunità celebrante. Altre
creatività, quando non previste dal rito e, lo si
può ben dire, a volte selvagge, distolgono dalla
verità della celebrazione e rischiano di essere solo
l’espressione di un’auto celebrazione, personale o
comunitaria, che perde di vista il soggetto primo
della liturgia, che è Dio.
In questo contesto non è da sottovalutare la
questione inerente le rubriche liturgiche e, più in
generale, la normativa che interessa la liturgia. La
norma liturgica, infatti, è la custode più prossima
del mistero celebrato. Quanto la norma afferma
garantisce l’unità rituale e, di conseguenza, è
capace di dare espressione alla cattolicità della
liturgia della Chiesa. Al contempo, la norma veicola
un contenuto liturgico e di fede che una secolare
tradizione e una comprovata esperienza ci hanno
consegnato e che non è lecito trattare con
superficialità e inquinare con la nostra povera e
limitata soggettività. Sta qui il fondamento di
quell’osservanza che a più riprese viene riproposta
nel magistero pontificio, presente e passato.
“La Santa Messa, celebrata nel rispetto delle norme
liturgiche e con un’adeguata valorizzazione della
ricchezza dei segni e dei gesti, - ha affermato
Benedetto XVI, parlando all’apertura del
Convegno
ecclesiale della diocesi di Roma, il 15 giugno di
quest’anno - favorisce e promuove la crescita della
fede eucaristica. Nella celebrazione eucaristica noi
non inventiamo qualcosa, ma entriamo in una realtà
che ci precede, anzi che abbraccia cielo e terra e
quindi anche passato, futuro e presente. Questa
apertura universale, questo incontro con tutti i
figli e le figlie di Dio è la grandezza
dell’Eucaristia: andiamo incontro alla realtà di Dio
presente nel corpo e sangue del Risorto tra di noi.
Quindi, le prescrizioni liturgiche dettate dalla
Chiesa non sono cose esteriori, ma esprimono
concretamente questa realtà della rivelazione del
corpo e sangue di Cristo e così la preghiera rivela
la fede secondo l’antico principio
lex orandi
-
lex credendi.
E per questo possiamo dire che «la migliore
catechesi sull’Eucaristia è la stessa Eucaristia ben
celebrata» (Sacramentum
caritatis,
64)”.
Si rende, pertanto, necessario un atteggiamento
equilibrato, capace di conservare come complementari
e necessarie la prospettiva simbolico-rituale e
quella canonico-disciplinare.
Non l’una senza l’altra, ma l’una con l’altra.
2. Partecipare al mistero celebrato
Il significato di un verbo
Il passo avanti che ora compiamo ci conduce al
grande tema della partecipazione alla celebrazione
liturgica: tema che appassiona e ispira, a volte
porta a discutere e, a mio parere, anche a inutili
polemiche e divisioni. Chi di noi, infatti, non
desidera che la liturgia possa essere realmente
partecipata da tutti? Soprattutto da quando la
Sacrosanctum Concilium
e, sulla scia di essa, la riforma avviata dal
Vaticano II e il successivo magistero pontificio
hanno giustamente insistito per la più ampia e
autentica realizzazione di tale partecipazione?
D’altra parte, se ci sta a cuore la vita della
Chiesa e l’incontro di ogni uomo con Cristo
Salvatore, possiamo forse non desiderare che tutti
partecipino alla sacra liturgia con il maggior
frutto possibile?
Missale Romanum - Rito di Paolo VI
Su questo, pertanto, direi che sia difficile avere
pareri diversi. La disparità di vedute può avere
inizio quando si tratta di meglio specificare che
cosa si intenda per partecipazione, ovvero quali
siano le modalità più adeguate per entrare nel
mistero celebrato. E si sa come, al riguardo, si
continuino spesso a fronteggiare due diversi modi di
considerare il termine in questione. Come sempre
nella dottrina cattolica, anche in questo caso, non
c’è spazio per l'“aut aut”, ovvero per l’esclusione
di un aspetto a favore di un altro, ma per l'“et
et”, ovvero per la presenza complementare e
arricchente dei diversi aspetti.
Entrare in una realtà, partecipare a un avvenimento
è sempre un’esperienza che coinvolge l’uomo in ogni
sua dimensione: intelligenza, volontà, emozione,
sentimento, azione… L’esteriorità dell’agire e il
suo fondamento interiore risultano complementari e
necessari. Così è per la vita liturgica. Proprio
perché è esperienza vitale non può che riguardare
l’intera complessità della persona umana. Se,
dunque, ad esempio, vi è una partecipazione che
avviene per via di comprensione di un testo, vi è
anche una partecipazione che avviene per via di un
innalzamento dell’animo prodotto dall’incontro col
bello. E se si partecipa mediante l’azione, è
possibile realizzare una vera partecipazione anche
mediante un silenzio solo in apparenza inoperante.
Nel mistero celebrato, di conseguenza, si entra con
tutta la complessità del nostro essere persone
umane. Ed è per questo che la liturgia ricerca
sempre quel sano equilibrio di componenti che diano
la possibilità di un’esperienza che si addica a
tutto l’uomo e ad ogni uomo.
Non mi pare che, sempre, nella pratica liturgica
questo trovi felice ed equilibrata realizzazione. E
mi pare altresì che, per la legge del pendolo, se un
tempo la mancanza di partecipazione adeguata poteva
essere addebitata a un difetto di comprensione e di
azione, oggi tale mancanza possa essere addebitata a
un eccesso di comprensione razionale e di azione
esteriore, cui non sempre fanno sufficiente
complemento la comprensione del cuore e l’attenzione
all’agire interiore, al rivivere in sé i sentimenti
e i pensieri di Cristo.
Entrare nell’agire di Cristo
Approfondiamo ancora un po’ la questione, a partire
dall’indirizzo chiaro formulato dalla
Costituzione
sulla sacra liturgia del Vaticano II: “Perciò la
Chiesa si preoccupa vivamente che i fedeli non
assistano come estranei o muti spettatori a questo
mistero di fede, ma che, comprendendolo bene nei
suoi riti e nelle sue preghiere, partecipino
all’azione sacra consapevolmente, piamente e
attivamente; siano formati dalla parola di Dio; si
nutrano alla mensa del corpo del Signore; rendano
grazie a Dio; offrendo la vittima senza macchia, non
soltanto per le mani del sacerdote, ma insieme con
lui, imparino ad offrire se stessi, e di giorno in
giorno, per la mediazione di Cristo, siano
perfezionati nell’unità con Dio e tra di loro, di
modo che Dio sia finalmente tutto in tutti” (n. 48).
Missale Romanum - Rito di san Pio V
A commento di questo brano magisteriale rimane
sempre illuminante quanto affermato dal cardinale
Ratzinger nel suo volume
Introduzione allo spirito della Liturgia:
“In che cosa consiste… questa partecipazione attiva?
Che cosa bisogna fare? Purtroppo questa espressione
è stata molto presto fraintesa e ridotta al suo
significato esteriore, quello della necessità di un
agire comune, quasi si trattasse di far entrare
concretamente in azione il numero maggiore di
persone possibile il più presto possibile. La parola
partecipazione rinvia, però, a un’azione principale,
a cui tutti devono avere parte. Se, dunque, si vuole
scoprire di quale agire si tratta, si deve prima di
tutto accertare quale sia questa ‘actio’ centrale, a
cui devono avere parte tutti i membri della
comunità… Con il termine
actio
riferito alla liturgia, si intende nelle fonti il
canone eucaristico. La vera azione liturgica, il
vero atto liturgico, è la
oratio…
Questa
oratio
- la solenne preghiera eucaristica, il «canone» - è
davvero più che un discorso, è
actio
nel senso più alto del termine. In essa accade,
infatti, che
l’actio
umana… passa in secondo piano e lascia spazio all’actio
divina, all’agire di Dio” (pp. 167-168).
Nella celebrazione liturgica ciò che precede e
costituisce il fondamento è l’agire di Cristo e
della sua Chiesa. Di conseguenza, entrare nell’atto
liturgico significa entrare dentro questo agire che
dona salvezza e trasforma la vita. Si partecipa,
dunque, nella misura in cui l’atto del Signore e
della sua Chiesa diventa anche il nostro stesso
atto, la sua oblazione di amore diventa la nostra,
il suo abbandono filiale e obbediente al Padre
diventa anche nostro, se il sacrificio del Redentore
diventa il nostro stesso sacrificio.
Affermava Divo Barsotti in un suo celebre testo: “E’
proprio della Liturgia cristiana di trascendere
l’attività di ogni uomo e di tutta l’umanità
nell’essere Atto stesso del Cristo; ma la Liturgia
trascende ogni attività umana senza escluderla, anzi
impegnandola tutta fino in fondo, non soltanto in
quanto la supera, ma in quanto anche la esige e la
comprende” (Il
mistero della Chiesa nella Liturgia,
edizioni San Paolo, p. 158)
Come avviene sempre in ciò che è umano, anche nel
rito liturgico l’agire ha una dimensione esteriore e
una interiore. Il gesto di Cristo è un gesto
visibile, espressione di un gesto invisibile.
Pertanto l’atto di entrare nel mistero avrà anche la
componente esteriore del gesto, non c’è dubbio. Ma
perché tale componente non rimanga pura e sterile
esteriorità dovrà essere animata e allo stesso tempo
condurre a quell’agire interiore in cui vi è
conformazione all’agire di Cristo e della sua
Chiesa.
Sia dia spazio, dunque, all’azione esteriore in
liturgia, laddove il rito lo consente e lo auspica.
Ma senza dimenticare che tale azione dovrà essere
sempre ricondotta alla sua verità di espressione
dell’agire interiore. Solo così vi sarà un autentico
accesso al mistero celebrato.
3. L’arte del celebrare
Quanto si sentiva come compito urgente già ai tempi
del Concilio Vaticano II, ovvero la necessità di
un’approfondita formazione liturgica, mi pare che
rimanga nel presente, forse con una nota di urgenza
ancora maggiore. In effetti, solo grazie a una vera
formazione liturgica i riti e le preghiere della
celebrazione potranno essere il tramite bello e
straordinariamente ricco per entrare nel mistero
celebrato. Altrimenti si rischia di rimanere sulla
soglia di una realtà inaccessibile.
D’altra parte, è bene non dimenticarlo, la
celebrazione liturgica realizzata secondo verità e
in conformità a quell'“ars celebrandi” di cui il
Santo Padre Benedetto XVI ci parla nell’Esortazione
Apostolica
Sacramentum
caritatis,
e di cui egli stesso ci dona l’esempio più altro
mediante la sua celebrazione, è già di per sé una
vera e propria scuola, capace di introdurre alla
conoscenza e all’esperienza del mistero di Cristo.
Di questa arte del celebrare desidero ora richiamare
solo alcuni aspetti, quelli che a me pare sia più
importante e urgente sottolineare e spiegare
nell’attuale contesto storico. Questo certamente non
vuol dire sminuire l’importanza di altri. Ma tutto
non si può dire e bisogna dare qualche priorità.
Il sacro silenzio
Una liturgia ben celebrata, in diverse sue parti,
prevede una felice alternanza di silenzio e parola,
dove il silenzio anima la parola, permette alla voce
di risuonare con straordinaria profondità, mantiene
ogni espressione vocale nel giusto clima del
raccoglimento. Si ricordi, in proposito, quanto
afferma l’Ordinamento Generale del Messale Romano:
“Si deve osservare, a suo tempo, il sacro silenzio,
come parte della celebrazione. La sua natura dipende
dal momento in cui ha luogo nelle singole
celebrazioni. Così, durante l’atto penitenziale e
dopo l’invito alla preghiera, il silenzio aiuta il
raccoglimento; dopo la lettura o l’omelia, è un
richiamo a meditare brevemente ciò che si è
ascoltato; dopo la Comunione, favorisce la preghiera
interiore di lode e di supplica” (n. 45).
E’ da notare che si parla di “silenzio sacro”. Il
silenzio richiesto, pertanto, non è da considerarsi
alla stregua di una pausa tra un momento celebrativo
e il successivo. E’ da considerarsi piuttosto come
un vero e proprio momento rituale, complementare
alla parola, alla preghiera vocale, al canto, al
gesto...
Da questo punto di vista, ci è dato di meglio capire
il motivo per cui durante la preghiera eucaristica
e, in specie, il canone, il popolo di Dio riunito in
preghiera segue nel silenzio la preghiera del
sacerdote celebrante. Quel silenzio non significa
inoperosità o mancanza di partecipazione. Quel
silenzio tende a far sì che tutti entrino nel
significato di quel momento rituale che ripropone
nella realtà del sacramento, l’atto di amore con il
quale Gesù si offre al Padre sulla croce per la
salvezza del mondo. Quel silenzio, davvero sacro, è
lo spazio liturgico nel quale dire sì, con tutta la
forza del nostro essere, all’agire di Cristo, così
che diventi anche il nostro agire nella quotidianità
della vita.
Così il silenzio liturgico è davvero sacro perché è
il luogo spirituale nel quale realizzare l’adesione
di tutta la nostra vita alla vita del Signore, è lo
spazio dell'“amen” prolungato del cuore che si
arrende all’amore di Dio e lo abbraccia come nuovo
criterio del proprio vivere. Non è forse questo il
significato stupendo dell’“amen” conclusivo della
dossologia al termine della preghiera eucaristica,
nella quale tutti diciamo con la voce quanto a lungo
abbiamo ripetuto nel silenzio del cuore orante?
Se tutto questo è il senso del silenzio in liturgia,
non è forse vero che le nostre liturgie hanno
bisogno di più spazio per il sacro silenzio?
La nobile bellezza
Afferma Benedetto XVI, nell’Esortazione apostolica
post sinodale sull’Eucaristia
Sacramentum
caritatis:
“Il rapporto tra mistero creduto e celebrato si
manifesta in modo peculiare nel valore teologico e
liturgico della bellezza. La liturgia, infatti, come
del resto la Rivelazione cristiana, ha un intrinseco
legame con la bellezza: è
veritatis splendor…
Tale attributo cui facciamo riferimento non è mero
estetismo, ma modalità con cui la verità dell’amore
di Dio in Cristo ci raggiunge, ci affascina, ci
rapisce, facendoci uscire da noi stessi e
attraendoci così verso la nostra vera vocazione:
l’amore… La vera bellezza è l’amore di Dio che si è
definitivamente a noi rivelato nel Mistero pasquale.
La bellezza della liturgia è parte di questo
mistero; essa è espressione altissima della gloria
di Dio e costituisce, in un certo senso, un
affacciarsi del Cielo sulla terra… La bellezza
pertanto non è un fatto decorativo dell’azione
liturgica; ne è piuttosto elemento costitutivo, in
quanto è attributo di Dio stesso e della sua
rivelazione. Tutto ciò deve renderci consapevoli di
quale attenzione si debba avere perché l’azione
liturgica risplenda secondo la propria natura” (n.
35).
Le parole del Papa non potrebbero essere più chiare.
Ne consegue che non è ammissibile alcuna forma di
grettezza, di minimalismo e di pauperismo nella
celebrazione liturgica. Il bello, nelle diverse
forme antiche e moderne in cui trova espressione, è
la modalità propria in virtù della quale risplende
nelle nostre liturgie, pur sempre pallidamente, il
mistero della bellezza dell’amore di Dio. Ecco
perché non si farà mai abbastanza per rendere belli
i nostri riti. Ce lo insegna la Chiesa, che nella
sua lunga storia non ha mai avuto timore di
“sprecare” per circondare la celebrazione liturgica
con le espressioni più alte dell’arte:
dall’architettura, alla scultura, alla musica, agli
oggetti sacri. Ce lo insegnano i santi che, pur
nella loro personale povertà ed eroica carità, hanno
sempre desiderato che al culto fosse destinato il
meglio.
Ascoltiamo ancora Benedetto XVI: “Le nostre liturgie
della terra, interamente volte a celebrare questo
atto unico della storia, non giungeranno mai ad
esprimerne totalmente l’infinita densità. La
bellezza dei riti non sarà certamente mai abbastanza
ricercata, abbastanza curata, abbastanza elaborata,
poiché nulla è troppo bello per Dio, che è la
Bellezza infinita. Le nostre liturgie terrene non
potranno essere che un pallido riflesso della
liturgia, che si celebra nella Gerusalemme del
cielo, punto d’arrivo del nostro pellegrinaggio
sulla terra. Possano tuttavia le nostre celebrazioni
avvicinarsi ad essa il più possibile e farla
pregustare!” (Omelia
alla celebrazione dei Vespri
nella Cattedrale di Notre Dame a Parigi, 12
settembre 2008).
Il crocifisso al centro dell’altare
Nel suo testo
Le festa della fede,
la cui prima edizione risale al 1981, il cardinale
Ratzinger si poneva il problema dell’orientamento
nella celebrazione liturgica. Riportare alcuni brani
del suo testo, mi pare il modo più immediato per
capire l’importanza della sua riflessione e della
sua proposta.
“Il vero spazio e la vera cornice della celebrazione
eucaristica è tutto il cosmo. Questa dimensione
cosmica dell’Eucaristia si faceva presente
nell’azione liturgica mediante l’inorientamento
[ndr. il corretto orientamento verso…]. L’Oriente –
oriens – era anche notoriamente, dal segno del sole
nascente, il simbolo della risurrezione (e pertanto
non solo espressione cristologia, ma indice pure
della potenza del Padre e dell’opera dello Spirito
Santo), nonché richiamo alla speranza nella parusìa
[…] La croce dell’altare si può qualificare come un
residuo dell’inorientamento rimasto fino ai giorni
nostri. In essa fu conservata la vecchia tradizione,
che era a suo tempo strettamente collegata al
simbolo cosmico dell’Oriente, di pregare nel segno
della croce il Signore veniente, volgendovi lo
sguardo […] Anche nell’attuale orientamento della
celebrazione, la croce potrebbe essere collocata
sull’altare in tal modo che i sacerdoti e i fedeli
la guardino insieme. Nel canone essi non dovrebbero
guardarsi, ma guardare insieme a lui, il trafitto
[…] La croce sull’altare non è… un impedimento alla
visuale, ma un punto comune di riferimento… Ardirei
addirittura la tesi che la croce sull’altare non è
impedimento ma presupposto della celebrazione
«versus populum». Diverrebbe così ricca di
significato la distinzione tra liturgia della parola
e canone. Nella prima si tratta dell’annunzio, e
pertanto di un indirizzo immediato, nell’altra di
un’adorazione comune, nella quale noi tutti stiamo
più che mai durante la invocazione - «conversi ad
Dominum» -: Rivolgiamoci al Signore; convertiamoci
al Signore” (pp. 131-135).
Alla luce di queste limpide affermazioni si
comprende meglio quanto sottolineato dal Santo Padre
Benedetto XVI nella prefazione al I volume della Sua
Opera Omnia –
Teologia
della liturgia
-, dedicato alla liturgia e da poco uscito in
Italia: “L’idea che sacerdote e popolo nella
preghiera dovrebbero guardarsi reciprocamente è nata
solo nella cristianità moderna ed è completamente
estranea in quella antica. Sacerdote e popolo
certamente non pregano l’uno verso l’altro, ma verso
l’unico Signore. Quindi guardano nella preghiera
nella stessa direzione: o verso Oriente come simbolo
cosmico per il Signore che viene, o, dove questo non
è possibile, verso un’immagine di Cristo
nell’abside, verso una croce, o semplicemente verso
il cielo, come il Signore ha fatto nella preghiera
sacerdotale la sera prima della Passione (Gv 17, 1).
Intanto si sta facendo strada sempre di più,
fortunatamente, la proposta da me fatta alla fine
del capitolo in questione della mia opera [Introduzione
allo spirito della liturgia,
pp.70-80]: non procedere a nuove trasformazioni, ma
porre semplicemente la croce al centro dell’altare,
verso la quale possano guardare insieme sacerdote e
fedeli, per lasciarsi guidare in tal modo verso il
Signore, che tutti insieme preghiamo”.
L’adorazione
Che cosa intendiamo per adorazione? Certamente non
si tratta di una relazione intellettuale o
sentimentale con il mistero. La si potrebbe definire
come il riconoscimento pieno di meraviglia della
onnipotenza di Dio, della sua maestà intangibile,
della sua signoria provvidente e misericordiosa,
della sua bellezza infinita che è coincidenza di
Verità e di Amore... E l’adorazione, quando è
autentica, conduce all’adesione, ovvero alla
riunificazione dell’uomo e della creazione con Dio,
all’uscita dallo stato di separazione, alla
comunione di vita con Cristo... Tutto questo è
quanto la Chiesa, sposa di Cristo, vive nella
celebrazione della liturgia. Adora e aderisce, adora
per aderire.
Ascoltiamo ancora Divo Barsotti nell’opera già
citata: “E l’Avvenimento, l’Atto del Cristo, è prima
di tutto Sacrificio, Sacrificio di adorazione. Il
Verbo, nella natura umana che Egli ha assunto,
riconosce con la sua Morte l’infinita santità di Dio
e la sua sovranità. In Lui la creazione finalmente
adora […] Una partecipazione nostra al Sacrificio di
Gesù importa che noi si viva lo stesso annientamento
suo… La condizione terrestre della nostra vita,
nella sua accettazione volontaria, diviene il segno
di una nostra partecipazione al Sacrificio di Gesù,
alla sua adorazione” (Idem,
pp. 174-175).
Ecco perché tutto, nell’azione liturgica, deve
condurre all’adorazione: la musica, il canto, il
silenzio, il modo di proclamare la parola di Dio e
il modo di pregare, la gestualità, le vesti
liturgiche e le suppellettili sacre, così come anche
l’edificio sacro nel suo complesso. Mi soffermo un
istante su un gesto tipico e centrale
dell’adorazione che oggi rischia di sparire, quale
il mettersi in ginocchio, rifacendomi a un testo del
cardinale Ratzinger: “Noi sappiamo che il Signore ha
pregato stando in ginocchio (Lc 22, 41), che Stefano
(At 7, 60), Pietro (At 9, 40) e Paolo (At 20, 36)
hanno pregato in ginocchio. L’inno cristologico
della Lettera ai Filippesi (2, 6-11) presenta la
liturgia del cosmo come un inginocchiarsi di fronte
al nome di Gesù (2, 10) e vede in ciò adempiuta la
profezia isaiana (Is 45, 23) sulla signoria sul
mondo del Dio d’Israele. Piegando il ginocchio nel
nome di Gesù, la Chiesa compie la verità; essa si
inserisce nel gesto del cosmo che rende omaggio al
vincitore e così si pone dalla parte del vincitore
poiché un tale inginocchiarsi è una rappresentazione
e assunzione imitativa dell’atteggiamento di Colui
che «era uguale a Dio» ed «ha umiliato se stesso
fino alla morte»” (Rivista
Communio,
35/1977).
E’ anche per questo che è da ritenersi del tutto
appropriata la pratica di inginocchiarsi per
ricevere la santa Comunione. A ulteriore conferma
ascoltiamo il Santo Padre in un passaggio di
Sacramentum
caritatis:
“Già Agostino aveva detto: «Nessuno mangia questa
carne senza prima adorarla; peccheremmo se non la
adorassimo». Nell’Eucaristia, infatti, il Figlio di
Dio ci viene incontro e desidera unirsi a noi;
l’adorazione eucaristica non è che l’ovvio sviluppo
della celebrazione eucaristica, la quale è in se
stessa il più grande atto d’adorazione della Chiesa.
Ricevere l’Eucaristia significa porsi in
atteggiamento di adorazione verso Colui che
riceviamo. Proprio così e soltanto così diventiamo
una cosa sola con Lui e pregustiamo in anticipo, in
qualche modo, la bellezza della liturgia celeste”
(n. 66). Si può parlare al riguardo di una
contraddizione rispetto all’incedere
processionalmente, quale segno di un popolo che di
dirige verso il suo Signore? La Chiesa che, nel
segno esteriore, si dirige in processione verso il
Signore è la stessa Chiesa che, sempre nel segno
esteriore, alla sua presenza, si inginocchia e
adora. Ancora una volta si tratta di
complementarietà in vista di una ricchezza più
grande e non di esclusione.
Anche alla luce di questo brano si capisce il motivo
per cui il Santo Padre Benedetto XVI, in occasione
della solennità del Corpus Domini del 2008, ha
iniziato a distribuire la santa Comunione ai fedeli
in ginocchio.
Il canto e la musica
Mi piace al riguardo partire da una citazione del
papa san Gregorio Magno, nella quale si ritrova
formulato con singolare profondità ed efficacia il
nucleo centrale della musica e del canto in
liturgia: “Quando il canto della salmodia risuona
dalle profondità del cuore, il Signore onnipotente
trova per esso una via di accesso ai cuori, per
inondare colui che protende tutti i suoi sensi ad
ascoltarLo dei misteri della profezia o della grazia
della contrizione. Sta scritto infatti: ‘Un canto di
lode mi onora, ed esso è la via per la quale
mostrerò la salvezza di Dio’ (Sal 49, 23). Ciò che
in latino suona
salutare,
salvezza, in ebraico si dice Gesù. Nel canto di lode
perciò viene creata una via di accesso, per la quale
Gesù può rivelarsi, poiché quando mediante il canto
dei Salmi viene riversata in noi la vera
contrizione, si apre in noi una strada che conduce
nel profondo del cuore, alla fine della quale si
giunge a Gesù…” (In
Ez I hom.
I, 15).
Così il canto e la musica in liturgia, quando sono
nella verità del loro essere, nascono dal cuore che
ricerca il mistero di Dio e diventano un’esegesi
dello stesso mistero, parola che nella nota musicale
si apre sull’orizzonte della salvezza, di Cristo.
Pertanto c’è un legame intrinseco tra la parola, la
musica e il canto nella celebrazione liturgica.
Musica e canto, infatti, non possono essere slegati
dalla parola, quella di Dio, della quale invece
devono essere interpretazione fedele e disvelamento.
Il canto e la musica in liturgia partono dalle
profondità del cuore, e dunque da Cristo che lo
abita, e riportano al cuore, vale a dire a Cristo
che della domanda del cuore è risposta vera e
definitiva. Questa è l’oggettività del canto e della
musica liturgica, che non dovrebbe mai essere
consegnata all’estemporaneità superficiale di
sentimenti e di emozioni passeggere non rispondenti
alla grandezza del mistero celebrato.
E’ giusto, quindi affermare che il canto e la musica
in liturgia nascono dalla preghiera e portano alla
preghiera, permettendo a noi di entrare nel mistero,
per tornare alla terminologia che è parte del titolo
di questa conferenza. E qui, nel canto e nella
musica, troviamo forse una delle vie più alte di
ingresso e di partecipazione al mistero, capace di
fare sintesi di tante altre componenti della
partecipazione liturgica.
Mi sia consentito qui, parlando del canto e della
musica, di fare brevemente cenno alla lingua latina.
E’ risaputo quale straordinario tesoro di canto e
musica per la liturgia ci hanno consegnato i secoli
passati. E qualcosa di quel tesoro la Chiesa lo ha
definito perennemente valido, in sé e quale criterio
per stabilire ciò che può essere davvero liturgico
nelle nuove forme musicali che si vanno sviluppando
nel tempo. Mi riferisco al gregoriano e alla
polifonia sacra classica, forme di canto liturgico
che consentono di valutare, oggi come ieri, ciò che
attiene alla liturgia e ciò che, pur di valore
artistico e di contenuto religioso, non può avere
spazio nella celebrazione liturgica. Il valore
perenne del gregoriano e della polifonia classica
consiste nella loro capacità di farsi esegesi della
parola di Dio e, dunque, del mistero celebrato, di
essere al servizio della liturgia senza fare della
liturgia uno spazio al servizio della musica e del
canto. Potremo noi rinunciare a mantenere in vita
tali tesori che secoli di storia della Chiesa ci
hanno consegnato? Potremo noi fare a meno di
attingere ancora oggi a quel patrimonio di
spiritualità straordinario? Come sarà mai possibile
dare corpo a un più ampio e degno repertorio di
canto e di musica per la liturgia se non ci saremo
lasciarti educare da ciò che lo deve ispirare?
Ecco perché dobbiamo conservare nei modi dovuti il
latino. Senza dimenticare anche altre componenti di
questa lingua liturgica, quale la sua capacità di
dare espressione a quella universalità e cattolicità
della Chiesa, a cui davvero non è lecito rinunciare.
Come non provare, al riguardo, una straordinaria
esperienza di cattolicità quando, nella basilica di
San Pietro, uomini e donne di tutti i continenti, di
nazionalità e lingue diverse pregano e cantano
insieme nella stessa lingua? Chi non percepisce la
calda accoglienza della casa comune quando, entrando
in una chiesa di un paese straniero può, almeno in
alcune parti, unirsi ai fratelli nella fede in virtù
dell’uso della stessa lingua?
Conclusione
Come si diceva, nel considerare alcuni aspetti
dell’arte celebrativa è stata data qualche priorità.
Sottolineare alcune priorità, all’interno di una
panoramica più generale, forse può essere di qualche
aiuto anche in relazione alle considerazioni più
strettamente inerenti l’arte e l’architettura sacra.
Come si sa l’arte e l’architettura sacra si pongono
a servizio della liturgia. Per questo è quanto mai
necessario che arte e architettura conoscano bene la
liturgia, il suo spirito, la sua arte. Solo così
potranno realizzare lodevolmente il loro compito.
Valga ancora una volta quanto affermato da Benedetto
XVI: “Il legame profondo tra la bellezza e la
liturgia deve farci considerare con attenzione tutte
le espressioni artistiche poste al servizio della
celebrazione. Una componente importante dell'arte
sacra è certamente
l'architettura
delle chiese, nelle quali deve risaltare l'unità tra
gli elementi propri del presbiterio: altare,
crocifisso, tabernacolo, ambone, sede. A tale
proposito si deve tenere presente che lo scopo
dell'architettura sacra è di offrire alla Chiesa che
celebra i misteri della fede, in particolare
l'Eucaristia, lo spazio più adatto all'adeguato
svolgimento della sua azione liturgica. Infatti, la
natura del tempio cristiano è definita dall'azione
liturgica stessa, che implica il radunarsi dei
fedeli (ecclesia),
i quali sono le pietre vive del tempio (cfr
1 Pt
2,5)” (Sacramentum
caritatis,
41).
Le parole autorevolissime del Santo Padre siano un
chiaro indirizzo per tutti voi.
Mons. Guido Marini
Maestro delle Celebrazioni Liturgiche Pontificie
|