A proposito di alcune obiezioni contro la dottrina
della Chiesa circa la recezione della Comunione
eucaristica da parte di fedeli divorziati risposati
Nel 1998 il cardinale Joseph Ratzinger, prefetto
della Congregazione per la Dottrina della Fede,
introdusse il volume intitolato Sulla pastorale dei
divorziati risposati, pubblicato dalla Libreria
Editrice Vaticana in una collana del dicastero
(«Documenti e Studi», 17). Per l’attualità e
l’ampiezza di prospettive di questo scritto poco
conosciuto, ne riproponiamo la terza parte, con
l’aggiunta di tre note. Il testo è disponibile sul
sito del nostro giornale (www.osservatoreromano.va),
oltre che in italiano, anche in francese, inglese,
portoghese, spagnolo e tedesco.
La Lettera della Congregazione per la Dottrina della
Fede circa la recezione della Comunione eucaristica
da parte di fedeli divorziati risposati del 14
settembre 1994 ha avuto una vivace eco in diverse
parti della Chiesa. Accanto a molte reazioni
positive si sono udite anche non poche voci
critiche. Le obiezioni essenziali contro la dottrina
e la prassi della Chiesa sono presentate qui di
seguito in forma per altro semplificata.
Alcune obiezioni più significative — soprattutto il
riferimento alla prassi ritenuta più flessibile dei
Padri della Chiesa, che ispirerebbe la prassi delle
Chiese orientali separate da Roma, così come il
richiamo ai principi tradizionali dell’ epikèia
e della aequitas canonica — sono state
studiate in modo approfondito dalla Congregazione
per la Dottrina della Fede. Gli articoli dei
professori Pelland, Marcuzzi e Rodriguez Luño (1)
sono stati elaborati nel corso di questo studio. I
risultati principali della ricerca, che indicano la
direzione di una risposta alle obiezioni avanzate,
saranno ugualmente qui brevemente riassunti.
1. Molti ritengono, adducendo alcuni passi del
Nuovo Testamento, che la parola di Gesù
sull’indissolubilità del matrimonio permetta
un’applicazione flessibile e non possa essere
classificata in una categoria rigidamente giuridica.
Alcuni esegeti rilevano criticamente che il
Magistero in relazione all’indissolubilità del
matrimonio citerebbe quasi esclusivamente una sola
pericope — e cioè Marco , 10, 11-12 — e non
considererebbe in modo sufficiente altri passi del
Vangelo di Matteo e della prima Lettera ai Corinzi.
Questi passi biblici menzionerebbero una qualche
“eccezione” alla parola del Signore
sull’indissolubilità del matrimonio, e cioè nel caso
di pornèia ( Matteo , 5, 32; 19, 9) e
nel caso di separazione a motivo della fede ( 1
Corinzi , 7, 12-16). Tali testi sarebbero
indicazioni che i cristiani in situazioni difficili
avrebbero conosciuto già nel tempo apostolico
un’applicazione flessibile della parola di Gesù.
A questa obiezione si deve rispondere che i
documenti magisteriali non intendono presentare in
modo completo ed esaustivo i fondamenti biblici
della dottrina sul matrimonio. Essi lasciano questo
importante compito agli esperti competenti. Il
Magistero sottolinea però che la dottrina della
Chiesa sull’indissolubilità del matrimonio deriva
dalla fedeltà nei confronti della parola di Gesù.
Gesù definisce chiaramente la prassi
veterotestamentaria del divorzio come una
conseguenza della durezza di cuore dell’uomo. Egli
rinvia — al di là della legge — all’inizio della
creazione, alla volontà del Creatore, e riassume il
suo insegnamento con le parole: «L’uomo dunque non
separi ciò che Dio ha congiunto» ( Marco ,
10, 9). Con la venuta del Redentore il matrimonio
viene quindi riportato alla sua forma originaria a
partire dalla creazione e sottratto all’arbitrio
umano — soprattutto all’arbitrio del marito, per la
moglie infatti non vi era in realtà la possibilità
del divorzio. La parola di Gesù sull’indissolubilità
del matrimonio è il superamento dell’antico ordine
della legge nel nuovo ordine della fede e della
grazia. Solo così il matrimonio può rendere
pienamente giustizia alla vocazione di Dio all’amore
ed alla dignità umana e divenire segno dell’alleanza
di amore incondizionato di Dio, cioè «Sacramento»
(cfr. Efesini , 5, 32).
La possibilità di separazione, che Paolo prospetta
in 1 Corinzi , 7, riguarda matrimoni fra un
coniuge cristiano e uno non battezzato. La
riflessione teologica successiva ha chiarito che
solo i matrimoni tra battezzati sono «sacramento»
nel senso stretto della parola e che
l’indissolubilità assoluta vale solo per questi
matrimoni che si collocano nell’ambito della fede in
Cristo. Il cosiddetto «matrimonio naturale» ha la
sua dignità a partire dall’ordine della creazione ed
è pertanto orientato all’indissolubilità, ma può
essere sciolto in determinate circostanze a motivo
di un bene più alto — nel caso la fede. Così la
sistematizzazione teologica ha classificato
giuridicamente l’indicazione di san Paolo come
privilegium paulinum , cioè come possibilità di
sciogliere per il bene della fede un matrimonio non
sacramentale. L’indissolubilità del matrimonio
veramente sacramentale rimane salvaguardata; non si
tratta quindi di una eccezione alla parola del
Signore. Su questo ritorneremo più avanti.
A riguardo della retta comprensione delle clausole
sulla pornèia esiste una vasta letteratura
con molte ipotesi diverse, anche contrastanti. Fra
gli esegeti non vi è affatto unanimità su questa
questione. Molti ritengono che si tratti qui di
unioni matrimoniali invalide e non di eccezioni
all’indissolubilità del matrimonio. In ogni caso la
Chiesa non può edificare la sua dottrina e la sua
prassi su ipotesi esegetiche incerte. Essa deve
attenersi all’insegnamento chiaro di Cristo.
2. Altri obiettano che la tradizione patristica
lascerebbe spazio per una prassi più differenziata,
che renderebbe meglio giustizia alle situazioni
difficili; la Chiesa cattolica in proposito potrebbe
imparare dal principio di «economia» delle Chiese
orientali separate da Roma.
Si afferma che il Magistero attuale si appoggerebbe
solo su di un filone della tradizione patristica, ma
non su tutta l’eredità della Chiesa antica. Sebbene
i Padri si attenessero chiaramente al principio
dottrinale dell’indissolubilità del matrimonio,
alcuni di loro hanno tollerato sul piano pastorale
una certa flessibilità in riferimento a singole
situazioni difficili. Su questo fondamento le Chiese
orientali separate da Roma avrebbero sviluppato più
tardi accanto al principio della akribìa ,
della fedeltà alla verità rivelata, quello della
oikonomìa , della condiscendenza benevola in
singole situazioni difficili. Senza rinunciare alla
dottrina dell’indissolubilità del matrimonio, essi
permetterebbero in determinati casi un secondo e
anche un terzo matrimonio, che d’altra parte è
differente dal primo matrimonio sacramentale ed è
segnato dal carattere della penitenza. Questa prassi
non sarebbe mai stata condannata esplicitamente
dalla Chiesa cattolica. Il Sinodo dei Vescovi del
1980 avrebbe suggerito di studiare a fondo questa
tradizione, per far meglio risplendere la
misericordia di Dio.
Lo studio di padre Pelland mostra la direzione, in
cui si deve cercare la risposta a queste questioni.
Per l’interpretazione dei singoli testi patristici
resta naturalmente competente lo storico. A motivo
della difficile situazione testuale le controversie
anche in futuro non si placheranno. Dal punto di
vista teologico si deve affermare:
a. Esiste un chiaro consenso dei Padri a riguardo
dell’indissolubilità del matrimonio. Poiché questa
deriva dalla volontà del Signore, la Chiesa non ha
nessun potere in proposito. Proprio per questo il
matrimonio cristiano fu fin dall’inizio diverso dal
matrimonio della civiltà romana, anche se nei primi
secoli non esisteva ancora nessun ordinamento
canonico proprio. La Chiesa del tempo dei Padri
esclude chiaramente divorzio e nuove nozze, e ciò
per fedele obbedienza al Nuovo Testamento.
b. Nella Chiesa del tempo dei Padri i fedeli
divorziati risposati non furono mai ammessi
ufficialmente alla sacra comunione dopo un tempo di
penitenza. È vero invece che la Chiesa non ha sempre
rigorosamente revocato in singoli Paesi concessioni
in materia, anche se esse erano qualificate come non
compatibili con la dottrina e la disciplina. Sembra
anche vero che singoli Padri, ad esempio Leone
Magno, cercarono soluzioni “pastorali” per rari casi
limite.
c. In seguito si giunse a due sviluppi contrapposti:
— Nella Chiesa imperiale dopo Costantino si cercò, a
seguito dell’intreccio sempre più forte di Stato e
Chiesa, una maggiore flessibilità e disponibilità al
compromesso in situazioni matrimoniali difficili.
Fino alla riforma gregoriana una simile tendenza si
manifestò anche nell’ambito gallico e germanico.
Nelle Chiese orientali separate da Roma questo
sviluppo continuò ulteriormente nel secondo
millennio e condusse a una prassi sempre più
liberale. Oggi in molte Chiese orientali esiste una
serie di motivazioni di divorzio, anzi già una
«teologia del divorzio», che non è in nessun modo
conciliabile con le parole di Gesù
sull’indissolubilità del matrimonio. Nel dialogo
ecumenico questo problema deve essere assolutamente
affrontato.
— Nell’Occidente fu recuperata grazie alla riforma
gregoriana la concezione originaria dei Padri.
Questo sviluppo trovò in qualche modo una sanzione
nel concilio di Trento e fu riproposto come dottrina
della Chiesa nel concilio Vaticano II.
La prassi delle Chiese orientali separate da Roma,
che è conseguenza di un processo storico complesso,
di una interpretazione sempre più liberale — e che
si allontanava sempre più dalla parola del Signore —
di alcuni oscuri passi patristici così come di un
non trascurabile influsso della legislazione civile,
non può per motivi dottrinali essere assunta dalla
Chiesa cattolica. Al riguardo non è esatta
l’affermazione che la Chiesa cattolica avrebbe
semplicemente tollerato la prassi orientale.
Certamente Trento non ha pronunciato nessuna
condanna formale. I canonisti medievali nondimeno ne
parlavano continuamente come di una prassi abusiva.
Inoltre vi sono testimonianze secondo cui gruppi di
fedeli ortodossi, che divenivano cattolici, dovevano
firmare una confessione di fede con un’indicazione
espressa dell’impossibilità di un secondo
matrimonio.
3. Molti propongono di permettere eccezioni dalla
norma ecclesiale, sulla base dei tradizionali
principi dell’ epikèia e della aequitas
canonica .
Alcuni casi matrimoniali, così si dice, non possono
venire regolati in foro esterno. La Chiesa potrebbe
non solo rinviare a norme giuridiche, ma dovrebbe
anche rispettare e tollerare la coscienza dei
singoli. Le dottrine tradizionali dell’ epikèia
e della aequitas canonica potrebbero
giustificare dal punto di vista della teologia
morale ovvero dal punto di vista giuridico una
decisione della coscienza, che si allontani dalla
norma generale. Soprattutto nella questione della
recezione dei sacramenti la Chiesa dovrebbe qui fare
dei passi avanti e non soltanto opporre ai fedeli
dei divieti.
I due contributi di don Marcuzzi e del professor
Rodríguez Luño illustrano questa complessa
problematica. In proposito si devono distinguere
chiaramente tre ambiti di questioni:
a. Epikèia ed aequitas canonica sono
di grande importanza nell’ambito delle norme umane e
puramente ecclesiali, ma non possono essere
applicate nell’ambito di norme, sulle quali la
Chiesa non ha nessun potere discrezionale.
L’indissolubilità del matrimonio è una di queste
norme, che risalgono al Signore stesso e pertanto
vengono designate come norme di «diritto divino». La
Chiesa non può neppure approvare pratiche pastorali
— ad esempio nella pastorale dei Sacramenti —, che
contraddirebbero il chiaro comandamento del Signore.
In altre parole: se il matrimonio precedente di
fedeli divorziati risposati era valido, la loro
nuova unione in nessuna circostanza può essere
considerata come conforme al diritto, e pertanto per
motivi intrinseci non è possibile una recezione dei
sacramenti. La coscienza del singolo è vincolata
senza eccezioni a questa norma. (2)
b. La Chiesa ha invece il potere di chiarire quali
condizioni devono essere adempiute, perché un
matrimonio possa essere considerato come
indissolubile secondo l’insegnamento di Gesù. Nella
linea delle affermazioni paoline in 1 Corinzi
, 7 essa ha stabilito che solo due cristiani possano
contrarre un matrimonio sacramentale. Essa ha
sviluppato le figure giuridiche del privilegium
paulinum e del privilegium petrinum . Con
riferimento alle clausole sulla pornèia in
Matteo e in Atti , 15, 20 furono formulati
impedimenti matrimoniali. Inoltre furono individuati
sempre più chiaramente motivi di nullità
matrimoniale e furono ampiamente sviluppate le
procedure processuali. Tutto questo contribuì a
delimitare e precisare il concetto di matrimonio
indissolubile. Si potrebbe dire che in questo modo
anche nella Chiesa occidentale fu dato spazio al
principio della oikonomìa , senza toccare
tuttavia l’indissolubilità del matrimonio come tale.
In questa linea si colloca anche l’ulteriore
sviluppo giuridico nel Codice di Diritto Canonico
del 1983, secondo il quale anche le dichiarazioni
delle parti hanno forza probante. Di per sé, secondo
il giudizio di persone competenti, sembrano così
praticamente esclusi i casi, in cui un matrimonio
invalido non sia dimostrabile come tale per via
processuale. Poiché il matrimonio ha essenzialmente
un carattere pubblico-ecclesiale e vale il principio
fondamentale nemo iudex in propria causa
(«Nessuno è giudice nella propria causa»), le
questioni matrimoniali devono essere risolte in foro
esterno. Qualora fedeli divorziati risposati
ritengano che il loro precedente matrimonio non era
mai stato valido, essi sono pertanto obbligati a
rivolgersi al competente tribunale ecclesiastico,
che dovrà esaminare il problema obiettivamente e con
l’applicazione di tutte le possibilità
giuridicamente disponibili.
c. Certamente non è escluso che in processi
matrimoniali intervengano errori. In alcune parti
della Chiesa non esistono ancora tribunali
ecclesiastici che funzionino bene. Talora i processi
durano in modo eccessivamente lungo. In alcuni casi
terminano con sentenze problematiche. Non sembra qui
in linea di principio esclusa l’applicazione della
epikèia in “foro interno”. Nella Lettera
della Congregazione per la Dottrina della Fede del
1994 si fa cenno a questo, quando viene detto che
con le nuove vie canoniche dovrebbe essere escluso
«per quanto possibile» ogni divario tra la verità
verificabile nel processo e la verità oggettiva
(cfr. Lettera, 9). Molti teologi sono dell’opinione
che i fedeli debbano assolutamente attenersi anche
in “foro interno” ai giudizi del tribunale a loro
parere falsi. Altri ritengono che qui in “foro
interno” sono pensabili delle eccezioni, perché
nell’ordinamento processuale non si tratta di norme
di diritto divino, ma di norme di diritto
ecclesiale. Questa questione esige però ulteriori
studi e chiarificazioni. Dovrebbero infatti essere
chiarite in modo molto preciso le condizioni per il
verificarsi di una “eccezione”, allo scopo di
evitare arbitri e di proteggere il carattere
pubblico — sottratto al giudizio soggettivo — del
matrimonio.
4. Molti accusano l’attuale Magistero di involuzione
rispetto al Magistero del Concilio e di proporre una
visione preconciliare del matrimonio.
Alcuni teologi affermano che alla base dei nuovi
documenti magisteriali sulle questioni del
matrimonio starebbe una concezione naturalistica,
legalistica del matrimonio. L’accento sarebbe posto
sul contratto fra gli sposi e sullo ius in corpus
. Il Concilio avrebbe superato questa
comprensione statica e descritto il matrimonio in un
modo più personalistico come patto di amore e di
vita. Così avrebbe aperto possibilità per risolvere
in modo più umano situazioni difficili. Sviluppando
questa linea di pensiero alcuni studiosi pongono la
domanda se non si possa parlare di «morte del
matrimonio», quando il legame personale dell’amore
fra due sposi non esiste più. Altri sollevano
l’antica questione se il Papa non abbia in tali casi
la possibilità di sciogliere il matrimonio.
Chi però legga attentamente i recenti pronunciamenti
ecclesiastici riconoscerà che essi nelle
affermazioni centrali si fondano su Gaudium et
spes e con tratti totalmente personalistici
sviluppano ulteriormente sulla traccia indicata dal
Concilio la dottrina ivi contenuta. È tuttavia
inadeguato introdurre una contrapposizione fra la
visione personalistica e quella giuridica del
matrimonio. Il Concilio non ha rotto con la
concezione tradizionale del matrimonio, ma l’ha
sviluppata ulteriormente. Quando ad esempio si
ripete continuamente che il Concilio ha sostituito
il concetto strettamente giuridico di “contratto”
con il concetto più ampio e teologicamente più
profondo di “patto”, non si può dimenticare in
proposito che anche nel “patto” è contenuto
l’elemento del “contratto” pur essendo collocato in
una prospettiva più ampia. Che il matrimonio vada
molto al di là dell’aspetto puramente giuridico
affondando nella profondità dell’umano e nel mistero
del divino, è già in realtà sempre stato affermato
con la parola “sacramento”, ma certamente spesso non
è stato messo in luce con la chiarezza che il
Concilio ha dato a questi aspetti. Il diritto non è
tutto, ma è una parte irrinunciabile, una dimensione
del tutto. Non esiste un matrimonio senza normativa
giuridica, che lo inserisce in un insieme globale di
società e Chiesa. Se il riordinamento del diritto
dopo il Concilio tocca anche l’ambito del
matrimonio, allora questo non è tradimento del
Concilio, ma esecuzione del suo compito.
Se la Chiesa accettasse la teoria che un matrimonio
è morto, quando i due coniugi non si amano più,
allora approverebbe con questo il divorzio e
sosterrebbe l’indissolubilità del matrimonio in modo
ormai solo verbale, ma non più in modo fattuale.
L’opinione, secondo cui il Papa potrebbe
eventualmente sciogliere un matrimonio sacramentale
consumato, irrimediabilmente fallito, deve pertanto
essere qualificata come erronea. Un tale matrimonio
non può essere sciolto da nessuno. Gli sposi nella
celebrazione nuziale si promettono la fedeltà fino
alla morte.
Ulteriori studi approfonditi esige invece la
questione se cristiani non credenti — battezzati,
che non hanno mai creduto o non credono più in Dio —
veramente possano contrarre un matrimonio
sacramentale. In altre parole: si dovrebbe chiarire
se veramente ogni matrimonio tra due battezzati è
ipso facto un matrimonio sacramentale. Di fatto
anche il Codice indica che solo il contratto
matrimoniale «valido» fra battezzati è allo stesso
tempo sacramento (cfr. Codex iuris canonici ,
can. 1055, § 2). All’essenza del sacramento
appartiene la fede; resta da chiarire la questione
giuridica circa quale evidenza di «non fede» abbia
come conseguenza che un sacramento non si realizzi.
(3)
5. Molti affermano che l’atteggiamento della Chiesa
nella questione dei fedeli divorziati risposati è
unilateralmente normativo e non pastorale.
Una serie di obiezioni critiche contro la dottrina e
la prassi della Chiesa concerne problemi di
carattere pastorale. Si dice ad esempio che il
linguaggio dei documenti ecclesiali sarebbe troppo
legalistico, che la durezza della legge prevarrebbe
sulla comprensione per situazioni umane drammatiche.
L’uomo di oggi non potrebbe più comprendere tale
linguaggio. Gesù avrebbe avuto un orecchio
disponibile per le necessità di tutti gli uomini,
soprattutto per quelli al margine della società. La
Chiesa al contrario si mostrerebbe piuttosto come un
giudice, che esclude dai sacramenti e da certi
incarichi pubblici persone ferite.
Si può senz’altro ammettere che le forme espressive
del Magistero ecclesiale talvolta non appaiano
proprio come facilmente comprensibili. Queste devono
essere tradotte dai predicatori e dai catechisti in
un linguaggio, che corrisponda alle diverse persone
e al loro rispettivo ambiente culturale. Il
contenuto essenziale del Magistero ecclesiale in
proposito deve però essere mantenuto. Non può essere
annacquato per supposti motivi pastorali, perché
esso trasmette la verità rivelata. Certamente è
difficile rendere comprensibili all’uomo
secolarizzato le esigenze del Vangelo. Ma questa
difficoltà pastorale non può condurre a compromessi
con la verità. Giovanni Paolo II nella Lettera
Enciclica Veritatis splendor ha chiaramente
respinto le soluzioni cosiddette «pastorali», che si
pongono in contrasto con le dichiarazioni del
Magistero (cfr. ibidem , 56).
Per quanto riguarda la posizione del Magistero sul
problema dei fedeli divorziati risposati, si deve
inoltre sottolineare che i recenti documenti della
Chiesa uniscono in modo molto equilibrato le
esigenze della verità con quelle della carità. Se in
passato nella presentazione della verità talvolta la
carità forse non risplendeva abbastanza, oggi è
invece grande il pericolo di tacere o di
compromettere la verità in nome della carità.
Certamente la parola della verità può far male ed
essere scomoda. Ma è la via verso la guarigione,
verso la pace, verso la libertà interiore. Una
pastorale, che voglia veramente aiutare le persone,
deve sempre fondarsi sulla verità. Solo ciò che è
vero può in definitiva essere anche pastorale.
«Allora conoscerete la verità e la verità vi farà
liberi» ( Giovanni , 8,32).
Note:
1 Cfr. Ángel Rodríguez Luño, L’epicheia nella
cura pastorale dei fedeli divorziati risposati ,
in Sulla pastorale dei divorziati risposati ,
Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana,
1998, («Documenti e Studi», 17), pp. 75-87; Piero
Giorgio Marcuzzi, s.d.b., Applicazione di «aequitas
et epikeia» ai contenuti della Lettera della
Congregazione per la Dottrina della Fede del 14
settembre 1994 , ibidem , pp. 88-98;
Gilles Pelland, s. j., La pratica della Chiesa
antica relativa ai fedeli divorziati risposati ,
ibidem , pp. 99-131.
2 A tale riguardo vale la norma ribadita da Giovanni
Paolo II nella Lettera apostolica postsinodale
Familiaris consortio , n. 84: «La
riconciliazione nel sacramento della penitenza — che
aprirebbe la strada al sacramento eucaristico — può
essere accordata solo a quelli che, pentiti di aver
violato il segno dell’Alleanza e della fedeltà a
Cristo, sono sinceramente disposti ad una forma di
vita non più in contraddizione con l’indissolubilità
del matrimonio. Ciò comporta, in concreto, che
quando l’uomo e la donna, per seri motivi — quali,
ad esempio, l’educazione dei figli — non possono
soddisfare l’obbligo della separazione, “assumono
l’impegno di vivere in piena continenza, cioè di
astenersi dagli atti propri dei coniugi”». Cfr.
anche Benedetto XVI, Lettera apostolica postsinodale
Sacramentum caritatis , n. 29.
3 Durante un incontro con il clero della diocesi di
Aosta, svoltosi il 25 luglio 2005, Papa Benedetto
XVI ha affermato in merito a questa difficile
questione: «Particolarmente dolorosa è la situazione
di quanti erano sposati in Chiesa, ma non erano
veramente credenti e lo hanno fatto per tradizione,
e poi trovandosi in un nuovo matrimonio non valido
si convertono, trovano la fede e si sentono esclusi
dal Sacramento. Questa è realmente una sofferenza
grande e quando sono stato prefetto della
Congregazione per la Dottrina della Fede ho invitato
diverse Conferenze episcopali e specialisti a
studiare questo problema: un sacramento celebrato
senza fede. Se realmente si possa trovare qui un
momento di invalidità perché al sacramento mancava
una dimensione fondamentale non oso dire. Io
personalmente lo pensavo, ma dalle discussioni che
abbiamo avuto ho capito che il problema è molto
difficile e deve essere ancora approfondito.
©
L'Osservatore Romano 30 novembre 2011
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