è per me una grande gioia vedere ogni anno,
all’inizio della Quaresima, il mio clero, il clero
di Roma, ed è bello per me vedere oggi come siamo
numerosi. Io pensavo che in questa grande aula
saremmo stati un gruppo quasi perso, ma vedo che
siamo un forte esercito di Dio e possiamo con forza
entrare in questo nostro tempo, nelle battaglie
necessarie per promuovere, per far andare avanti il
Regno di Dio. Siamo entrati ieri per la porta della
Quaresima, rinnovamento annuale del nostro
Battesimo; ripetiamo quasi il nostro catecumenato,
andando di nuovo nella profondità del nostro essere
battezzati, riprendendo, ritornando al nostro essere
battezzati e così incorporati in Cristo. In questo
modo, possiamo anche cercare di guidare le nostre
comunità nuovamente in questa comunione intima con
la morte e risurrezione di Cristo, divenire sempre
più conformi a Cristo, divenire sempre più realmente
cristiani.
Il brano della Lettera di san Paolo agli Efesini
che abbiamo ascoltato (4,1-16) è uno dei grandi
testi ecclesiali del Nuovo Testamento. Comincia con
l’autopresentazione dell’autore: «Io Paolo,
prigioniero a motivo del Signore» (v. 1). La parola
greca desmios dice «incatenato»: Paolo, come
un criminale, è in catene, incatenato per Cristo e
così inizia nella comunione con la passione di
Cristo. Questo è il primo elemento
dell’autopresentazione: egli parla incatenato, parla
nella comunione della passione di Cristo e così sta
in comunione anche con la risurrezione di Cristo,
con la sua nuova vita. Sempre noi, quando parliamo,
dobbiamo parlare in comunione con la sua passione e
anche accettare le nostre passioni, le nostre
sofferenze e prove, in questo senso: sono proprio
prove della presenza di Cristo, che Lui è con noi e
che andiamo, in comunione alla sua passione, verso
la novità della vita, verso la risurrezione.
«Incatenato», quindi, è prima una parola della
teologia della croce, della comunione necessaria di
ogni evangelizzatore, di ogni Pastore con il Pastore
supremo, che ci ha redenti «dandosi», soffrendo per
noi. L’amore è sofferenza, è un darsi, è un
perdersi, e proprio in questo modo è fecondo. Ma
così, nell’elemento esteriore delle catene, della
libertà non più presente, appare e traspare anche un
altro aspetto: la vera catena che lega Paolo a
Cristo è la catena dell’amore. «Incatenato per
amore»: un amore che dà libertà, un amore che lo fa
capace di rendere presente il Messaggio di Cristo e
Cristo stesso. E questo dovrebbe essere, anche per
noi tutti, l’ultima catena che ci libera, collegati
con la catena dell’amore a Cristo. Così troviamo la
libertà e la vera strada della vita, e possiamo, con
l’amore di Cristo, guidare a questo amore, che è la
gioia, la libertà, anche gli uomini affidatici.
E poi dice «Esorto» (Ef 4,1): è il suo
compito quello di esortare, ma non è un ammonimento
moralistico. Esorto dalla comunione con Cristo; è
Cristo stesso, ultimamente, che esorta, che invita
con l’amore di un padre e di una madre.
«Comportatevi in maniera degna della chiamata che
avete ricevuto» (v. 1); cioè, primo elemento:
abbiamo ricevuto una chiamata. Io non sono anonimo o
senza senso nel mondo: c’è una chiamata, c’è una
voce che mi ha chiamato, una voce che seguo. E la
mia vita dovrebbe essere un entrare sempre più
profondamente nel cammino della chiamata, seguire
questa voce e così trovare la vera strada e guidare
gli altri su questa strada.
Sono «chiamato con una chiamata». Direi che abbiamo
la grande prima chiamata del Battesimo, di essere
con Cristo; la seconda grande chiamata di essere
Pastori al suo servizio, e dobbiamo essere sempre
più in ascolto di questa chiamata, in modo da poter
chiamare o meglio aiutare anche altri affinché
sentano la voce del Signore che chiama. La grande
sofferenza della Chiesa di oggi nell’Europa e
nell’Occidente è la mancanza di vocazioni
sacerdotali, ma il Signore chiama sempre, manca
l’ascolto. Noi abbiamo ascoltato la sua voce e
dobbiamo essere attenti alla voce del Signore anche
per altri, aiutare perché ci sia ascolto, e così sia
accettata la chiamata, si apra una strada della
vocazione ad essere Pastori con Cristo. San Paolo
ritorna su questa parola «chiamata» alla fine di
questo primo capoverso, e parla di una vocazione, di
una chiamata che è alla speranza - la chiamata
stessa è una speranza – e così dimostra le
dimensioni della chiamata: non è solo individuale,
la chiamata è già un fenomeno dialogico, un fenomeno
nel «noi»; nell’«io e tu» e nel «noi». «Chiamata
alla speranza». Vediamo così le dimensioni della
chiamata; esse sono tre. Chiamata, ultimamente,
secondo questo testo, verso Dio. Dio è la fine; alla
fine arriviamo semplicemente in Dio e tutto il
cammino è un cammino verso Dio. Ma questo cammino
verso Dio non è mai isolato, un cammino solo
nell’«io», è un cammino verso il futuro, verso il
rinnovamento del mondo, e un cammino nel «noi» dei
chiamati che chiama altri, fa ascoltare loro questa
chiamata. Perciò la chiamata è sempre anche una
vocazione ecclesiale. Essere fedeli alla chiamata
del Signore implica scoprire questo «noi» nel quale
e per il quale siamo chiamati, come pure andare
insieme e realizzare le virtù necessarie. La
«chiamata» implica l’ecclesialità, implica quindi la
dimensione verticale e orizzontale, che vanno
inscindibilmente insieme, implica ecclesialità nel
senso di lasciarci aiutare per il «noi» e di
costruire questo «noi» della Chiesa. In tale senso,
san Paolo illustra la chiamata con questa finalità:
un Dio unico, solo, ma con questa direzione verso il
futuro; la speranza è nel «noi» di quelli che hanno
la speranza, che amano all’interno della speranza,
con alcune virtù che sono proprio gli elementi
dell’andare insieme.
La prima è: «con ogni umiltà» (Ef 4,2).
Vorrei soffermarmi un po’ di più su questa perché è
una virtù che nel catalogo delle virtù precristiane
non appare; è una virtù nuova, la virtù della
sequela di Cristo. Pensiamo alla Lettera ai
Filippesi, al capitolo due: Cristo, essendo
uguale a Dio, si è umiliato, accettando forma di
servo e obbedendo fino alla croce (cfr Fil
2,6-8). Questo è il cammino dell’umiltà del Figlio
che noi dobbiamo imitare. Seguire Cristo vuol dire
entrare in questo cammino dell’umiltà. Il testo
greco dice tapeinophrosyne (cfr Ef
4,2): non pensare in grande di se stessi, avere la
misura giusta. Umiltà. Il contrario dell’umiltà è la
superbia, come la radice di tutti i peccati. La
superbia che è arroganza, che vuole soprattutto
potere, apparenza, apparire agli occhi degli altri,
essere qualcuno o qualcosa, non ha l’intenzione di
piacere a Dio, ma di piacere a se stessi, di essere
accettati dagli altri e – diciamo – venerati dagli
altri. L’«io» al centro del mondo: si tratta del mio
io superbo, che sa tutto. Essere cristiano vuol dire
superare questa tentazione originaria, che è anche
il nucleo del peccato originale: essere come Dio, ma
senza Dio; essere cristiano è essere vero, sincero,
realista. L’umiltà è soprattutto verità, vivere
nella verità, imparare la verità, imparare che la
mia piccolezza è proprio la grandezza, perché così
sono importante per il grande tessuto della storia
di Dio con l’umanità. Proprio riconoscendo che io
sono un pensiero di Dio, della costruzione del suo
mondo, e sono insostituibile, proprio così, nella
mia piccolezza, e solo in questo modo, sono grande.
Questo è l’inizio dell’essere cristiano: è vivere la
verità. E solo vivendo la verità, il realismo della
mia vocazione per gli altri, con gli altri, nel
corpo di Cristo, vivo bene. Vivere contro la verità
è sempre vivere male. Viviamo la verità! Impariamo
questo realismo: non voler apparire, ma voler
piacere a Dio e fare quanto Dio ha pensato di me e
per me, e così accettare anche l’altro. L’accettare
l’altro, che forse è più grande di me, suppone
proprio questo realismo e l’amore della verità;
suppone accettare me stesso come «pensiero di Dio»,
così come sono, nei miei limiti e, in questo modo,
nella mia grandezza. Accettare me stesso e accettare
l’altro vanno insieme: solo accettando me stesso nel
grande tessuto divino posso accettare anche gli
altri, che formano con me la grande sinfonia della
Chiesa e della creazione. Io penso che le piccole
umiliazioni, che giorno per giorno dobbiamo vivere,
sono salubri, perché aiutano ognuno a riconoscere la
propria verità ed essere così liberi da questa
vanagloria che è contro la verità e non mi può
rendere felice e buono. Accettare e imparare questo,
e così imparare ad accettare la mia posizione nella
Chiesa, il mio piccolo servizio come grande agli
occhi di Dio. E proprio questa umiltà, questo
realismo, rende liberi. Se sono arrogante, se sono
superbo, vorrei sempre piacere e se non ci riesco
sono misero, sono infelice e devo sempre cercare
questo piacere. Quando invece sono umile ho la
libertà anche di essere in contrasto con un’opinione
prevalente, con pensieri di altri, perché l’umiltà
mi dà la capacità, la libertà della verità. E così,
direi, preghiamo il Signore perché ci aiuti, ci
aiuti ad essere realmente costruttori della comunità
della Chiesa; che cresca, che noi stessi cresciamo
nella grande visione di Dio, del «noi», e siamo
membra del Corpo di Cristo, appartenente così, in
unità, al Figlio di Dio.
La seconda virtù - ma siamo più brevi – è la
«dolcezza», dice la traduzione italiana (Ef
4,2), in greco è praus, cioè «mite,
mansueto»; e anche questa è una virtù cristologica
come l’umiltà, che è seguire Cristo su questa strada
della umiltà. Così anche praus, essere mite,
essere mansueto, è sequela di Cristo che dice:
Venite da me, io sono mite di cuore (cfr Mt
11,29). Questo non vuol dire debolezza. Cristo può
essere anche duro, se necessario, ma sempre con un
cuore buono, rimane sempre visibile la bontà, la
mansuetudine. Nella Sacra Scrittura, qualche volta,
«i mansueti» è semplicemente il nome dei credenti,
del piccolo gregge dei poveri che, in tutte le
prove, rimangono umili e fermi nella comunione del
Signore: cercare questa mitezza, che è il contrario
della violenza. La terza beatitudine. Il Vangelo di
san Matteo dice: felici i mansueti, perché
possederanno la terra (cfr Mt 5,5). Non i
violenti possiedono la terra, alla fine rimangono i
mansueti: essi hanno la grande promessa, e così noi
dobbiamo essere proprio sicuri della promessa di
Dio, della mitezza che è più forte della violenza.
In questa parola della mansuetudine si nasconde il
contrasto con la violenza: i cristiani sono i non
violenti, sono gli oppositori della violenza.
E san Paolo prosegue: «con magnanimità» (Ef
4,2): Dio è magnanimo. Nonostante le nostre
debolezze e i nostri peccati, sempre di nuovo
comincia con noi. Mi perdona, anche se sa che domani
cadrò di nuovo nel peccato; distribuisce i suoi
doni, anche se sa che siamo spesso amministratori
insufficienti. Dio è magnanimo, di grande cuore, ci
affida la sua bontà. E questa magnanimità, questa
generosità fa parte proprio della sequela di Cristo,
di nuovo.
Infine, «sopportandovi a vicenda nell’amore» (Ef
4,2); mi sembra che proprio dall’umiltà segua questa
capacità di accettare l’altro. L’alterità dell’altro
è sempre un peso. Perché l’altro è diverso? Ma
proprio questa diversità, questa alterità è
necessaria per la bellezza della sinfonia di Dio. E
dobbiamo, proprio con l’umiltà nella quale riconosco
i miei limiti, la mia alterità nel confronto con
l’altro, il peso che io sono per l’altro, divenire
capaci non solo di sopportare l’altro, ma, con
amore, trovare proprio nell’alterità anche la
ricchezza del suo essere e delle idee e della
fantasia di Dio.
Tutto questo, quindi, serve come virtù ecclesiale
alla costruzione del Corpo di Cristo, che è lo
Spirito di Cristo, perché divenga di nuovo esempio,
di nuovo corpo, e cresca. Paolo lo dice poi in
concreto, affermando che tutta questa varietà dei
doni, dei temperamenti, dell’essere uomo, serve per
l’unità (cfr Ef 4,11-13). Tutte queste virtù
sono anche virtù dell’unità. Per esempio, per me è
molto significativo che la prima Lettera dopo il
Nuovo Testamento, la Prima Lettera di Clemente,
sia indirizzata ad una comunità, quella dei Corinzi,
divisa e sofferente per la divisione (cfr PG
1, 201-328). In questa Lettera, proprio la parola
«umiltà» è una parola chiave: sono divisi perché
manca l’umiltà, l’assenza dell’umiltà distrugge
l’unità. L’umiltà è una fondamentale virtù
dell’unità e solo così cresce l’unità del Corpo di
Cristo, diventiamo realmente uniti e riceviamo la
ricchezza e la bellezza dell’unità. Perciò è logico
che l’elenco di queste virtù, che sono virtù
ecclesiali, cristologiche, virtù dell’unità, vada
verso l’unità esplicita: «un solo Signore, una sola
fede, un solo Battesimo. Un solo Dio e Padre di
tutti» (Ef 4,5). Una sola fede e un solo
Battesimo, come realtà concreta della Chiesa che sta
sotto l’unico Signore.
Battesimo e fede sono inseparabili. Il Battesimo è
il Sacramento della fede e la fede ha un duplice
aspetto. E’ un atto profondamente personale: io
conosco Cristo, mi incontro con Cristo e do fiducia
a Lui. Pensiamo alla donna che tocca il suo vestito
nella speranza di essere salvata (cfr Mt 9,
20-21); si affida a Lui totalmente e il Signore
dice: Sei salva, perché hai creduto (cfr Mt
9, 22). Anche ai lebbrosi, all’unico che ritorna,
dice: La tua fede ti ha salvato (cfr Lc 17,
19). Quindi la fede inizialmente è soprattutto un
incontro personale, un toccare il vestito di Cristo,
un essere toccato da Cristo, essere in contatto con
Cristo, affidarsi al Signore, avere e trovare
l’amore di Cristo e, nell’amore di Cristo, la chiave
anche della verità, dell’universalità. Ma proprio
per questo, perché chiave dell’universalità
dell’unico Signore, tale fede non è solo un atto
personale di fiducia, ma un atto che ha un
contenuto. La fides qua esige la fides
quae, il contenuto della fede, e il Battesimo
esprime questo contenuto: la formula trinitaria è
l’elemento sostanziale del credo dei cristiani.
Esso, di per sé, è un «sì» a Cristo, e così al Dio
Trinitario, con questa realtà, con questo contenuto
che mi unisce a questo Signore, a questo Dio, che ha
questo Volto: vive come Figlio del Padre nell’unità
dello Spirito Santo e nella comunione del Corpo di
Cristo. Quindi, questo mi sembra molto importante:
la fede ha un contenuto e non è sufficiente, non è
un elemento di unificazione se non c’è e non viene
vissuto e confessato questo contenuto della unica
fede.
Perciò, «Anno della Fede», Anno del Catechismo - per
essere molto pratico - sono collegati
imprescindibilmente. Rinnoveremo il Concilio solo
rinnovando il contenuto - condensato poi di nuovo -
del Catechismo della Chiesa Cattolica. E un
grande problema della Chiesa attuale è la mancanza
di conoscenza della fede, è l’«analfabetismo
religioso», come hanno detto i Cardinali venerdì
scorso circa questa realtà. «Analfabetismo
religioso»; e con questo analfabetismo non possiamo
crescere, non può crescere l’unità. Perciò dobbiamo
noi stessi appropriarci di nuovo di questo
contenuto, come ricchezza dell’unità e non come un
pacchetto di dogmi e di comandamenti, ma come una
realtà unica che si rivela nella sua profondità e
bellezza. Dobbiamo fare il possibile per un
rinnovamento catechistico, perché la fede sia
conosciuta e così Dio sia conosciuto, Cristo sia
conosciuto, la verità sia conosciuta e cresca
l’unità nella verità.
Poi tutte queste unità finiscono nel: «un solo Dio e
Padre di tutti». Tutto quanto non è umiltà, tutto
quanto non è fede comune, distrugge l’unità,
distrugge la speranza e rende invisibile il Volto di
Dio. Dio è Uno e Unico. Il monoteismo era il grande
privilegio di Israele, che ha conosciuto l’unico
Dio, e rimane elemento costitutivo della fede
cristiana. Il Dio Trinitario - lo sappiamo - non
sono tre divinità, ma è un unico Dio; e vediamo
meglio che cosa voglia dire unità: unità è unità
dell’amore. E’ così: proprio perché è il circolo di
amore, Dio è Uno e Unico.
Per Paolo, come abbiamo visto, l’unità di Dio si
identifica con la nostra speranza. Perché? In che
modo? Perché l’unità di Dio è speranza, perché
questa ci garantisce che, alla fine, non ci sono
diversi poteri, alla fine non c’è dualismo tra
poteri diversi e contrastanti, alla fine non rimane
il capo del drago che si potrebbe levare contro Dio,
non rimane la sporcizia del male e del peccato. Alla
fine rimane solo la luce! Dio è unico ed è l’unico
Dio: non c’è altro potere contro di Lui! Sappiamo
che oggi, con i mali che viviamo nel mondo sempre
più crescenti, molti dubitano dell’Onnipotenza di
Dio; anzi diversi teologi – anche buoni – dicono che
Dio non sarebbe Onnipotente, perché non sarebbe
compatibile con l’onnipotenza quanto vediamo nel
mondo; e così essi vogliono creare una nuova
apologia, scusare Dio e «discolpare» Dio da questi
mali. Ma questo non è il modo giusto, perché se Dio
non è Onnipotente, se ci sono e rimangono altri
poteri, non è veramente Dio e non è speranza, perché
alla fine rimarrebbe il politeismo, alla fine
rimarrebbe la lotta, il potere del male. Dio è
Onnipotente, l’unico Dio. Certo, nella storia si è
dato un limite alla sua onnipotenza, riconoscendo la
nostra libertà. Ma alla fine tutto ritorna e non
rimane altro potere; questa è la speranza: che la
luce vince, l’amore vince! Alla fine non rimane la
forza del male, rimane solo Dio! E così siamo nel
cammino della speranza, camminando verso l’unità
dell’unico Dio, rivelatosi per lo Spirito Santo,
nell’Unico Signore, Cristo.
Poi da questa grande visione, san Paolo scende un
po’ ai dettagli e dice di Cristo: «Asceso in alto ha
portato con sé i prigionieri, ha distribuito doni
agli uomini» (Ef 4,8). L’Apostolo cita il
Salmo 68, che descrive in modo poetico la salita di
Dio con l’Arca dell’Alleanza verso le altezze, verso
la cima del Monte Sion, verso il tempio: Dio come
vincitore che ha superato gli altri, che sono
prigionieri, e, come un vero vincitore, distribuisce
doni. Il Giudaismo ha visto in questo piuttosto
un’immagine di Mosé, che sale verso il Monte Sinai
per ricevere nell’altezza la volontà di Dio, i
Comandamenti, non considerati come peso, ma come il
dono di conoscere il Volto di Dio, la volontà di
Dio. Paolo, alla fine, vede qui un’immagine
dell’ascesa di Cristo che sale in alto dopo essere
sceso; sale e tira l’umanità verso Dio, fà posto per
la carne e il sangue in Dio stesso; ci tira verso
l’altezza del suo essere Figlio e ci libera dalla
prigionia del peccato, ci rende liberi perché
vincitore. Essendo vincitore, Egli distribuisce i
doni. E così siamo arrivati dall’ascesa di Cristo
alla Chiesa. I doni sono la charis come tale,
la grazia: essere nella grazia, nell’amore di Dio. E
poi i carismi che concretizzano la charis
nelle singole funzioni e missioni: apostoli,
profeti, evangelisti, pastori e maestri per
edificare così il Corpo di Cristo (cfr Ef
4,11).
Non vorrei entrare adesso in un’esegesi dettagliata.
E’ molto discusso qui che cosa voglia dire apostoli,
profeti… In ogni caso, possiamo dire che la Chiesa è
costruita sul fondamento della fede apostolica, che
rimane sempre presente: gli Apostoli, nella
successione apostolica, sono presenti nei Pastori,
che siamo noi, per la grazia di Dio e nonostante
tutta la nostra povertà. E siamo grati a Dio che ci
ha voluto chiamare per stare nella successione
apostolica e continuare ad edificare il Corpo di
Cristo. Qui appare un elemento che mi sembra
importante: i ministeri – i cosiddetti ministeri –
sono chiamati «doni di Cristo», sono carismi; cioè,
non c’è questa opposizione: da una parte il
ministero, come una cosa giuridica, e dall’altra i
carismi, come dono profetico, vivace, spirituale,
come presenza dello Spirito e la sua novità. No!
Proprio i ministeri sono dono del Risorto e sono
carismi, sono articolazioni della sua grazia; uno
non può essere sacerdote senza essere carismatico.
E’ un carisma essere sacerdote. Questo - mi sembra -
dobbiamo tenerlo presente: essere chiamato al
sacerdozio, essere chiamato con un dono del Signore,
con un carisma del Signore. E così, ispirati dal suo
Spirito, dobbiamo cercare di vivere questo nostro
carisma. Solo in questo modo penso si possa capire
che la Chiesa in Occidente ha collegato
inscindibilmente sacerdozio e celibato: essere in
un’esistenza escatologica verso l’ultima
destinazione della nostra speranza, verso Dio.
Proprio perché il sacerdozio è un carisma e deve
essere anche collegato con un carisma: se non fosse
questo e fosse solamente una cosa giuridica, sarebbe
assurdo imporre un carisma, che è un vero carisma;
ma se il sacerdozio stesso è carisma, è normale che
conviva con il carisma, con lo stato carismatico
della vita escatologica.
Preghiamo il Signore perché ci aiuti a capire sempre
di più questo, a vivere sempre più nel carisma dello
Spirito Santo e a vivere così anche questo segno
escatologico della fedeltà al Signore Unico, che
proprio per il nostro tempo è necessario, con la
decomposizione del matrimonio e della famiglia, che
possono comporsi solo nella luce di questa fedeltà
all’unica chiamata del Signore.
Un ultimo punto. San Paolo parla della crescita
dell’uomo perfetto, che raggiunge la misura della
pienezza di Cristo: non saremo più fanciulli in
balia delle onde, trasportati da qualsiasi vento di
dottrina (cfr Ef 4,13-14). «Al contrario,
agendo secondo la verità nella carità, cerchiamo di
crescere in ogni cosa, tendendo a Lui» (Ef
4,15). Non si può vivere in una fanciullezza
spirituale, in una fanciullezza di fede: purtroppo,
in questo nostro mondo, vediamo questa fanciullezza.
Molti, oltre la prima catechesi, non sono più andati
avanti; forse è rimasto questo nucleo, forse si è
anche distrutto. E del resto, essi sono sulle onde
del mondo e nient’altro; non possono, come adulti,
con competenza e con convinzione profonda, esporre e
rendere presente la filosofia della fede - per così
dire - la grande saggezza, la razionalità della
fede, che apre gli occhi anche degli altri, che apre
gli occhi proprio su quanto è buono e vero nel
mondo. Manca questo essere adulti nella fede e
rimane la fanciullezza nella fede.
Certo, in questi ultimi decenni, abbiamo vissuto
anche un altro uso della parola «fede adulta». Si
parla di «fede adulta», cioè emancipata dal
Magistero della Chiesa. Fino a quando sono sotto la
madre, sono fanciullo, devo emanciparmi; emancipato
dal Magistero, sono finalmente adulto. Ma il
risultato non è una fede adulta, il risultato è la
dipendenza dalle onde del mondo, dalle opinioni del
mondo, dalla dittatura dei mezzi di comunicazione,
dall’opinione che tutti pensano e vogliono. Non è
vera emancipazione, l’emancipazione dalla comunione
del Corpo di Cristo! Al contrario, è cadere sotto la
dittatura delle onde, del vento del mondo. La vera
emancipazione è proprio liberarsi da questa
dittatura, nella libertà dei figli di Dio che
credono insieme nel Corpo di Cristo, con il Cristo
Risorto, e vedono così la realtà, e sono capaci di
rispondere alle sfide del nostro tempo.
Mi sembra che dobbiamo pregare molto il Signore,
perché ci aiuti ad essere emancipati in questo
senso, liberi in questo senso, con una fede
realmente adulta, che vede, fa vedere e può aiutare
anche gli altri ad arrivare alla vera perfezione,
alla vera età adulta, in comunione con Cristo.
In questo contesto c’è la bella espressione dell’aletheuein
en te agape, essere veri nella carità, vivere la
verità, essere verità nella carità: i due concetti
vanno insieme. Oggi il concetto di verità è un po’
sotto sospetto perché si combina verità con
violenza. Purtroppo nella storia ci sono stati anche
episodi dove si cercava di difendere la verità con
la violenza. Ma le due sono contrarie. La verità non
si impone con altri mezzi, se non da se stessa! La
verità può arrivare solo tramite se stessa, la
propria luce. Ma abbiamo bisogno della verità; senza
verità non conosciamo i veri valori e come potremo
ordinare il kosmos dei valori? Senza verità
siamo ciechi nel mondo, non abbiamo strada. Il
grande dono di Cristo è proprio che vediamo il Volto
di Dio e, anche se in modo enigmatico, molto
insufficiente, conosciamo il fondo, l’essenziale
della verità in Cristo, nel suo Corpo. E conoscendo
questa verità, cresciamo anche nella carità che è la
legittimazione della verità e ci mostra che è
verità. Direi proprio che la carità è il frutto
della verità - l’albero si conosce dai frutti – e se
non c’è carità, anche la verità non è propriamente
appropriata, vissuta; e dove è la verità, nasce la
carità. Grazie a Dio, lo vediamo in tutti i secoli:
nonostante i fatti negativi, il frutto della carità
è sempre stato presente nella cristianità e lo è
oggi! Lo vediamo nei martiri, lo vediamo in tante
suore, frati e sacerdoti che servono umilmente i
poveri, i malati, che sono presenza della carità di
Cristo. E così sono il grande segno che qui è la
verità.
Preghiamo il Signore perché ci aiuti a portare il
frutto della carità ed essere così testimoni della
sua verità. Grazie.