Pubblichiamo ampi stralci della relazione che
l’arcivescovo di New York, monsignor Timothy Michael
Dolan, ha tenuto venerdì mattina, 17 febbraio,
nell’Aula nuova del Sinodo, per introdurre la
giornata di preghiera e riflessione convocata dal
Papa per i membri del Collegio cardinalizio e i
nuovi cardinali in occasione del concistoro di
sabato 18.
Risale
all’ultimo comando di Gesù, «Andate, ammaestrate
tutte le genti!», ma è tanto attuale quanto la
Parola di Dio che abbiamo ascoltato nella liturgia
stamattina...
Mi riferisco al sacro dovere della nuova
evangelizzazione. È «sempre antica, sempre nuova».
Il come, il quando, e il dove possono cambiare, ma
il mandato rimane lo stesso, così come il messaggio
e l’ispirazione: «Gesù Cristo... lo stesso ieri e
oggi e nei secoli».
Noi accogliamo l’insegnamento del concilio Vaticano
II, specialmente come viene espresso nei documenti
Lumen gentium,
Gaudium et spes,
e
Ad gentes,
che specificano più precisamente come la Chiesa
intenda il proprio dovere evangelico, definendo
l’intera Chiesa come missionaria; vale a dire che
tutti i cristiani, in virtù del battesimo, la
cresima e l’Eucaristia, sono evangelizzatori.
Una
sfida enorme, sia alla
missio ad gentes
che alla nuova evangelizzazione, è il cosidetto
secolarismo.
Questa secolarizzazione ci chiama ad un’efficace
strategia di evangelizzazione. Permettetemi di
esporla in sette punti:
1. A dire la verità, nell’invitarmi a parlare su
questo tema – «L’annuncio del Vangelo oggi: tra
missio ad gentes
e la nuova evangelizzazione» – l’eminentissimo
segretario di Stato mi ha chiesto di
contestualizzare il secolarismo, lasciando intendere
che la mia arcidiocesi di New York è forse «la
capitale della cultura secolarizzata».
Però — e credo che il mio amico e confratello, il
cardinale Edwin O’Brien, che è cresciuto a New York,
sarà d’accordo — oserei dire che New York, sebbene
dia l’impressione di essere secolarizzata, è
ciononostante una città molto religiosa.
Anche in luoghi che solitamente vengono classificati
come «materialistici» — come ad esempio i mass
media, il mondo dello spettacolo, della finanza,
della politica, dell’arte, della letteratura —
troviamo un’innegabile apertura alla trascendenza,
al divino!
I cardinali che servono Gesù e la sua Chiesa nella
Curia romana possono ricordarsi del discorso
natalizio di Sua Santità due anni fa, nel quale ha
celebrato quest’apertura naturale al divino anche in
quelli che si vantano di aderire al secolarismo:
«... Considero importante soprattutto il fatto che
anche le persone che si ritengono agnostiche o atee,
devono stare a cuore a noi come credenti. Quando
parliamo di una nuova evangelizzazione, queste
persone forse si spaventano. Non vogliono vedere se
stesse come oggetto di missione, né rinunciare alla
loro libertà di pensiero e di volontà. Ma la
questione circa Dio rimane tuttavia presente anche
per loro... Come primo passo dell’evangelizzazione
dobbiamo cercare di tenere desta tale ricerca;
dobbiamo preoccuparci che l’uomo non accantoni la
questione su Dio come questione essenziale della sua
esistenza. Preoccuparci perché egli accetti tale
questione e la nostalgia che in essa si nasconde...
Io penso che la Chiesa dovrebbe anche oggi aprire
una sorta di “atrio dei gentili” dove gli uomini
possano in una qualche maniera agganciarsi a Dio,
senza conoscerlo e prima che abbiano trovato
l’accesso al suo mistero, al cui servizio sta la
vita interna della Chiesa».
Questo è il mio primo punto: noi condividiamo la
convinzione dei filosofi e dei poeti del passato, i
quali non avevano il vantaggio di aver ricevuto la
rivelazione. E cioè che anche una persona che si
vanta di aderire al secolarismo e di disprezzare le
religioni, ha dentro di sé una scintilla d’interesse
nell’aldilà, e riconosce che l’umanità e il creato
sarebbero un enigma assurdo senza un qualche
concetto di “creatore”.
Nei cinema c’è adesso un film intitolato
The Way —
«la Via» — in cui uno dei protagonisti è un attore
ben conosciuto, Martin Sheen. Forse l’avete visto.
Lui recita la parte di un padre, il cui figlio
estraniato muore mentre percorre il cammino di
Santiago de Compostela in Spagna. Il padre
angosciato decide di portare a termine il
pellegrinaggio al posto del figlio perduto. Egli è
l’icona di un uomo secolare: compiaciuto di sé,
sprezzante nei confronti di Dio e della religione,
uno che si definisce un «ex–cattolico», cinico verso
la fede ... ma, nondimeno, incapace di negare che
dentro di sé vi sia un interesse incontenibile di
conoscere l’aldilà, una sete di qualcosa in più —
anzi, un qualcuno di più — che cresce in lui lungo
la strada.
Sì, potremmo prendere in prestito quello che gli
apostoli dicono a Gesù nel Vangelo della domenica
scorsa: «tutti ti cercano»!
E ti stanno cercando ancora oggi...
2. Ciò mi porta al secondo punto: questo fatto ci dà
una fiducia immensa e un coraggio determinato per
compiere il sacro dovere della missione e della
nuova evangelizzazione.
«Non abbiate paura», come dicono, è l’esortazione
più ripetuta nella Bibbia.
Dopo il concilio, la bella notizia era che il
trionfalismo nella Chiesa era morto.
Ma, purtroppo anche la fiducia!
Noi siamo convinti, fiduciosi, e coraggiosi nella
nuova evangelizzazione grazie al potere della
Persona che ci ha affidato questa missione — si dà
il caso che egli sia la seconda Persona della
Santissima Trinità — e grazie alla verità del suo
messaggio e la profonda apertura al divino, pure
nelle persone più secolarizzate nella nostra società
odierna.
Sicuri, sì!
Trionfalisti, mai!
Quello che ci tiene alla larga dall’arroganza e
dalla superbia del trionfalismo è il riconoscimento
di ciò che ci ha insegnato Papa Paolo VI nella
Evangelii nuntiandi: la Chiesa stessa ha sempre
bisogno di essere evangelizzata!
Ciò ci dà l’umiltà di ammettere che nemo dat quod
non habet, che la Chiesa ha il profondo bisogno
di una conversione interiore, il midollo della
chiamata alla evangelizzazione.
3. Un terzo elemento di una missio efficace è
la consapevolezza che Dio non disseta la sete del
cuore umano con un concetto, ma tramite una Persona,
che si chiama Gesù.
L’invito implicito nella missio ad gentes e
la nuova evangelizzazione non è una dottrina, ma un
appello a conoscere, amare e servire — non qualcosa,
ma qualcuno.
Beatissimo Padre, quando lei ha iniziato il suo
Pontificato, ci ha invitato ad una amicizia con
Gesù, espressione con cui lei ha definito la
santità.
È l’amore di una Persona, un rapporto personale che
è all’origine della nostra fede.
Come scrisse sant’Agostino: «Ex una sane doctrina
impressam fidem credentium cordibus singulorum qui
hoc idem credunt verissime dicimus, sed aliud sunt
ea quae creduntur, aliud fides
qua creduntur»
(De
Trinitate,
XIII, 2.5)
4. Ed ecco il quarto punto: questa Persona, questo
Gesù di Nazaret, ci dice che Egli è la verità.
Perciò, la nostra missione ha una sostanza, un
contenuto. A venti anni dalla pubblicazione del
Catechismo della Chiesa Cattolica,
nel cinquantesimo anniversario dell’apertura del
concilio Vaticano II, e alla soglia di quest’Anno
della fede, siamo davanti alla sfida di combattere
l’analfabatismo catechetico.
È vero che la nuova evangelizzazione è urgente
perché qualche volta il secolarismo ha soffocato il
granello della fede; ma ciò è stato possibile perché
molti credenti non avevano il minimo idea della
sapienza, la bellezza, e la coerenza della Verità.
Sua Eminenza il cardinale George Pell ha osservato
che «non è tanto vero che la gente abbia perso la
loro fede, quanto che non la aveva sin dall’inizio;
e se l’aveva in qualche modo, era così
insignificante che gli poteva essere strappata molto
facilmente».
Ecco perché il cardinale Avery Dulles ci ha chiamato
ad una neoapologetica, non radicata in vuote
polemiche, ma nella Verità che ha un nome, Gesù.
Allo stesso modo, quando il beato John Henry Newman
ricevette il biglietto di nomina al Collegio
cardinalizio, ci mise in guardia sui pericoli del
liberalismo in religione, cioè, «la dottrina secondo
cui non c’è alcuna verità positiva nella religione,
ma un credo vale quanto un altro... la religione
rivelata non è una verità, ma un sentimento e una
preferenza personale».
Quando Gesù ci dice «Io sono la Verità», dice anche
di essere «la Via e la Vita».
La Via di Gesù è all’interno e attraverso la Sua
Chiesa come una Madre Santa che ci dona la vita del
Signore.
«Come avrei conosciuto Lui se non per Lei?» chiede
de Lubac, facendo allusione al rapporto inscindibile
tra Gesù e la Sua Chiesa.
Di conseguenza, la nostra missione, questa nuova
evangelizzazione, ha delle dimensioni catechetiche
ed ecclesiali.
Questo ci spinge a pensare la Chiesa in un modo
rinnovato: a concepirla come una missione stessa.
Come ci ha insegnato il beato Giovanni Paolo II
nella
Redemptoris missio,
la Chiesa non ha una missione, come se la «missione»
fosse una cosa tra molte che la Chiesa fa. No, la
Chiesa è una missione, e ciascuno di noi che
riconosce Gesù come Signore e Salvatore dovrebbe
interrogarsi sulla efficacia propria nella missione.
In questi ultimi cinquant’anni dalla apertura del
concilio, abbiamo visto la Chiesa passare per le
ultime fasi della Controriforma e riscoprirsi come
un’opera missionaria. In qualche luogo ciò ha
significato una nuova scoperta del Vangelo. In Paesi
già cristiani ha comportato una rievangelizzazione
che abbandona le acque stagnanti della conservazione
istituzionale e come Giovanni Paolo II ha insegnato
nella
Novo millennio ineunte, ci invita a prendere
il largo per una pesca efficace.
In molti dei Paesi qui rappresentati, la cultura e
l’ambiente sociale una volta trasmetteva il vangelo,
ma oggi non è più così. Ora dunque l’annuncio del
Vangelo — l’esplicito invito a entrare nell’amicizia
del Signore Gesù — deve essere al centro della vita
cattolica e di tutti i cattolici. Ma in ogni
occasione, il concilio Vaticano II e i grandi Papi
che ne hanno dato interpretazione autorevole, ci
spingono a chiamare la nostra gente a pensarsi come
una schiera di missionari ed evangelizzatori.
5. Quando ero seminarista al Collegio Nordamericano
tutti gli studenti di teologia del primo anno di
tutti gli atenei romani furono invitati a una messa
in San Pietro celebrata dal prefetto della
Congregazione per il Clero, il cardinale John
Wright.
Ci aspettavamo una omelia cerebrale. Ma lui iniziò
chiedendoci: «Seminaristi, fate a me e alla Chiesa
un favore: quando girate per le strade di Roma,
sorridete!».
Così, punto cinque: il missionario,
l’evangelizzatore, deve essere una persona di gioia.
«La gioia è il segno infallibile della presenza di
Dio», afferma Leon Bloy.
Quando sono diventato arcivescovo di New York un
prete mi ha detto: «Faresti meglio a smetterla di
sorridere quando giri per le strade di Manhattan o
finirai per farti arrestare!».
Un malato terminale di Aids alla casa Dono della
Pace tenuta dalle missionarie della Carità,
nell’arcidiocesi di Washington del cardinale Donald
Wuerl, ha chiesto il battesimo. Quando il sacerdote
gli ha chiesto una espressione di fede lui ha
mormorato: «quello che so è che io sono infelice, e
le suore invece sono molto felici anche quando le
insulto e sputo loro addosso. Ieri finalmente ho
chiesto loro il motivo della loro felicità. Esse
hanno risposto: “Gesù”. Io voglio questo Gesù così
posso essere felice anche io». Un autentico atto di
fede, vero?
La nuova evangelizzazione si compie con il sorriso,
non con il volto accigliato. La missio ad gentes
è fondamentalmente un sì a tutto ciò che di
dignitoso, buono, vero, bello e nobile c’è nella
persona umana. La Chiesa è fondamentalmente un
“sì!”, non un “no!”.
6. E, penultimo punto, la nuova evangelizzazione, è
un atto di amore.
Recentemente hanno chiesto al nostro confratello
John Thomas Kattrukudiyil, vescovo di Itanagar, nel
nordest dell’India, il motivo della enorme crescita
della Chiesa nella sua diocesi, che registra oltre
dieci mila conversioni adulte l’anno.
«Perché noi presentiamo Dio come un Padre amorevole,
e perché la gente vede che la Chiesa li ama» ha
risposto. Non un amore etereo, ha aggiunto, ma un
amore incarnato in meravigliose scuole per bambini,
cliniche per i malati, case per gli anziani, centri
accoglienza per gli orfani, cibo per gli affamati.
A New York anche il cuore del più convinto laicista
si intenerisce quando visita una delle nostre scuole
cattoliche della città. Quando uno dei nostri
benefattori, che si definiva agnostico, ha chiesto a
suor Michelle perché alla sua età con i dolori di
artrite che aveva alle ginocchia continuasse a
lavorare in una bella ma assai impegnativa scuola,
lei ha risposto: «Perché Dio mi ama e io lo amo e
voglio che questi bambini scoprano questo amore».
7. Gioia, amore e... ultimo punto... mi spiace
doverlo dire, il sangue. Domani, ventidue di noi
udranno quello che la maggior parte di voi ha già
udito:
«A gloria di Dio e ad onore della Sede Apostolica
ricevi questa berretta, segno della dignità
cardinalizia. Sappi che dovrai desiderare di
comportarti con fortezza fino allo spargimento del
tuo sangue: per la diffusione della fede cristiana,
la pace e la tranquillità del popolo di Dio, e la
libertà e la crescita della Santa Romana Chiesa».
Beatissimo Padre, potrebbe, per favore, saltare
«fino allo spargimento del tuo sangue» quando mi
presenterà la berretta?
Ovviamente no! Ma noi siamo audiovisivi scarlatti
per tutti i nostri fratelli e sorelle anche essi
chiamati a soffrire e morire per Gesù.
Fu Paolo VI a notare saggiamente che l’uomo moderno
impara più dai testimoni che dai maestri, e la
suprema testimonianza è il martirio.
Oggi, tristemente, abbiamo martiri in abbondanza.
Grazie Padre Santo, perché ci ricorda così spesso
coloro che oggi soffrono la persecuzione a causa
della loro fede in tutto il mondo.
Grazie cardinale Koch, perché ogni anno chiami la
Chiesa al «giorno di solidarietà» con i perseguitati
a causa del vangelo, e per l’invito ai nostri
interlocutori nell’ecumenismo e nel dialogo
interreligioso ad un «ecumenismo nel martirio».
Mentre piangiamo i cristiani martiri; mentre li
amiamo, preghiamo con e per loro; mentre
interveniamo con forza in loro difesa, noi siamo
anche molto fieri di essi, ci vantiamo in essi e
annunciamo la loro suprema testimonianza al mondo.
Essi accendono la scintilla della missio ad
gentes della nuova evangelizzazione.
Un giovane a New York mi ha detto di essere
ritornato alla fede cattolica, abbandonata
nell’adolescenza, dopo aver letto I monaci di
Tibhirine , sui trappisti martirizzati in
Algeria quindici anni fa, e aver visto la loro
storia nel film francese Uomini di Dio.
Tertulliano non si sarebbe sorpreso.
Grazie a voi, Santo Padre e confratelli, per aver
sopportato il mio italiano primordiale. Quando il
cardinale Bertone mi ha chiesto di parlare in
italiano, mi sono preoccupato perché io parlo
italiano come un bambino. Ma poi ho ricordato
quando, da giovane prete fresco di ordinazione, il
mio primo pastore mi disse mentre andavo a fare
catechismo ai bambini di sei anni: «ora vedremo che
fine farà tutta la tua teologia — e se riesci a
parlare della fede come un bambino!».
E forse conviene concludere proprio con questo
pensiero: abbiamo bisogno di dire di nuovo come un
bambino la eterna verità, la bellezza e la
semplicità di Gesù e della sua Chiesa.
© L'Osservatore Romano 18 febbraio 2012
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