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LA
"SANTA REGOLA" DI SAN BENEDETTO
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La
"Santa Regola" di
San
BENEDETTO
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Indice dei
capitoli della Regola di S. Benedetto:
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Prologo
Capitolo
I - Le varie categorie di monaci
Capitolo
II - L'Abate
Capitolo
III - La consultazione della comunità
Capitolo
IV - Gli strumenti delle buone opere
Capitolo
V - L'obbedienza
Capitolo
VI - L'amore del silenzio
Capitolo
VII - L'umiltà
Capitolo
VIII - L'Ufficio divino nella notte
Capitolo
IX - I salmi dell'Ufficio notturno
Capitolo X - L'Ufficio notturno dell'estate
Capitolo XI - L'Ufficio notturno nelle Domeniche
Capitolo XII - Le lodi
Capitolo XIII - Le lodi nei giorni feriali
Capitolo XIV - L'Ufficio vigilare nelle feste dei Santi
Capitolo XV - Quando si deve dire l'alleluia
Capitolo XVI - La celebrazione delle ore del giorno
Capitolo XVII - Salmi delle ore del giorno
Capitolo XVIII - L'ordine dei salmi nelle ore del giorno
Capitolo XIX - La partecipazione interiore all'Ufficio divino
Capitolo XX - La riverenza nella preghiera
Capitolo XXI - I decani del monastero
Capitolo XXII - Il dormitorio dei monaci
Capitolo XXIII - La scomunica per le colpe
Capitolo XXIV - La misura della scomunica
Capitolo XXV - Le colpe più gravi
Capitolo XXVI - Rapporti dei confratelli con gli scomunicati
Capitolo XXVII - La sollecitudine dell'abate per gli scomunicati
Capitolo XXVIII - La procedura nei confronti degli ostinati
Capitolo XXIX - La riammissione dei fratelli che hanno lasciato il
monastero
Capitolo XXX - La correzione dei ragazzi
Capitolo XXXI - Il cellerario del monastero
Capitolo XXXII - Gli arnesi e gli oggetti del monastero
Capitolo XXXIII - Il "vizio" della proprietà
Capitolo XXXIV - La distribuzione del necessario
Capitolo XXXV - Il servizio della cucina
Capitolo XXXVI - I fratelli infermi
Capitolo XXXVII - I vecchi e i ragazzi
Capitolo XXXVIII - La lettura in refettorio
Capitolo XXXIX - La misura del cibo
Capitolo XL - La misura del vino
Capitolo XLI - L'orario dei pasti
Capitolo XLII - Il silenzio dopo compieta
Capitolo XLIII - La puntualità nell'Ufficio divino e in refettorio
Capitolo XLIV - La riparazione degli scomunicati
Capitolo XLV - La riparazione per gli errori commessi in coro
Capitolo XLVI - La riparazione per le altre mancanze
Capitolo XLVII - Il segnale per l'Ufficio divino
Capitolo XLVIII - Il lavoro quotidiano
Capitolo XLIX - La Quaresima dei monaci
Capitolo L - I monaci che lavorano lontano o sono in viaggio
Capitolo LI - I monaci che si recano nelle vicinanze
Capitolo LII - La chiesa del monastero
Capitolo LIII - L'accoglienza degli ospiti
Capitolo LIV - La distribuzione delle lettere e dei regali destinati ai
singoli monaci
Capitolo LV - Gli abiti e le calzature dei monaci
Capitolo LVI - La mensa dell'abate
Capitolo LVII - I monaci che praticano un'arte o un mestiere
Capitolo LVIII - Norme per l'accettazione dei fratelli
Capitolo LIX - I piccoli oblati
Capitolo LX - I sacerdoti aspiranti alla vita monastica
Capitolo LXI - L'accoglienza dei monaci forestieri
Capitolo LXII - I sacerdoti del monastero
Capitolo LXIII - L'ordine della comunità
Capitolo LXIV - L'elezione dell'abate
Capitolo LXV - Il priore del monastero
Capitolo LXVI - I portinai del monastero
Capitolo LXVII - I monaci mandati in viaggio
Capitolo LXVIII - Le obbedienze impossibili
Capitolo LXIX - Divieto di arrogarsi le difese dei confratelli
Capitolo LXX - Divieto di arrogarsi la riprensione dei confratelli
Capitolo LXXI - L'obbedienza fraterna
Capitolo LXXII - Il buon zelo dei monaci
Capitolo LXXIII - La modesta portata di questa regola
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Regola dei monaci
Prologo
-
Ascolta, figlio mio, gli insegnamenti del maestro e apri docilmente il
tuo cuore; accogli volentieri i consigli ispirati dal suo amore paterno e mettili
in pratica con impegno,
-
in modo che tu possa tornare attraverso la solerzia dell'obbedienza a
Colui dal quale ti sei allontanato per l'ignavia della disobbedienza.
-
Io mi rivolgo personalmente a te, chiunque tu sia, che, avendo deciso
di rinunciare alla volontà propria, impugni le fortissime e valorose armi
dell'obbedienza per militare sotto il vero re, Cristo Signore.
-
Prima di tutto chiedi a Dio con costante e intensa preghiera di
portare a termine quanto di buono ti proponi di compiere,
-
affinché, dopo averci misericordiosamente accolto tra i suoi figli,
egli non debba un giorno adirarsi per la nostra indegna condotta.
-
Bisogna dunque servirsi delle grazie che ci concede per obbedirgli a
ogni istante con tanta fedeltà da evitare, non solo che egli giunga a diseredare
i suoi figli come un padre sdegnato,
-
ma anche che, come un sovrano tremendo, irritato dalle nostre colpe,
ci condanni alla pena eterna quali servi infedeli che non lo hanno voluto seguire
nella gloria.
-
Alziamoci, dunque, una buona volta, dietro l'incitamento della
Scrittura che esclama: "E' ora di scuotersi dal sonno!"
-
e aprendo gli occhi a quella luce divina ascoltiamo con trepidazione
ciò che ci ripete ogni giorno la voce ammonitrice di Dio:
-
" Se oggi udrete la sua voce, non indurite il vostro cuore!"
-
e ancora: " Chi ha orecchie per intendere, ascolti ciò che lo
Spirito dice alle Chiese!".
-
E che dice? " Venite, figli, ascoltatemi, vi insegnerò il timore
di Dio.
-
Correte, finché avete la luce della vita, perché non vi colgano le
tenebre della morte".
-
Quando poi il Signore cerca il suo operaio tra la folla, insiste
dicendo:
-
"Chi è l'uomo che vuole la vita e arde dal desiderio di vedere
giorni felici?".
-
Se a queste parole tu risponderai: "Io!", Dio replicherà:
-
"Se vuoi avere la vita, quella vera ed eterna, guarda la tua
lingua dal male e le tue labbra dalla menzogna. Allontanati dall'iniquità, opera
il bene, cerca la pace e seguila".
-
Se agirete così rivolgerò i miei occhi verso di voi e le mie
orecchie ascolteranno le vostre preghiere, anzi, prima ancora che mi invochiate
vi dirò: "Ecco sono qui!".
-
Fratelli carissimi, che può esserci di più dolce per noi di questa
voce del Signore che ci chiama?
-
Guardate come nella sua misericordiosa bontà ci indica la via della
vita!
-
Armati dunque di fede e di opere buone, sotto la guida del Vangelo,
incamminiamoci per le sue vie in modo da meritare la visione di lui, che ci ha
chiamati nel suo regno.
-
Se, però, vogliamo trovare dimora sotto la sua tenda, ossia nel suo
regno, ricordiamoci che è impossibile arrivarci senza correre verso la meta,
operando il bene.
-
Ma interroghiamo il Signore, dicendogli con le parole del profeta:
"Signore, chi abiterà nella tua tenda e chi dimorerà sul tuo monte
santo?".
-
E dopo questa domanda, fratelli, ascoltiamo la risposta con cui il
Signore ci indica la via che porta a quella tenda:
-
"Chi cammina senza macchia e opera la giustizia;
-
chi pronuncia la verità in cuor suo e non ha tramato inganni con la
sua lingua;
-
chi non ha recato danni al prossimo, né ha accolto l'ingiuria
lanciata contro di lui";
-
chi ha sgominato il diavolo, che malignamente cercava di sedurlo con
le sue suggestioni, respingendolo dall'intimo del proprio cuore e ha impugnato
coraggiosamente le sue insinuazioni per spezzarle su Cristo al loro primo
sorgere;
-
gli uomini timorati di Dio, che non si insuperbiscono per la propria
buona condotta e, pensando invece che quanto di bene c'è in essi non è opera
loro, ma di Dio,
-
lo esaltano proclamando col profeta: "Non a noi, Signore, non a
noi, ma al tuo nome dà gloria!".
-
Come fece l'apostolo Paolo, che non si attribuì alcun merito della
sua predicazione, ma disse:" Per grazia di Dio sono quel che sono"
-
e ancora: "chi vuole gloriarsi, si glori nel Signore".
-
Perciò il Signore stesso dichiara nel Vangelo: "Chi ascolta da
me queste parole e le mette in pratica, sarà simile a un uomo saggio il quale
edificò la sua casa sulla roccia.
-
E vennero le inondazioni e soffiarono i venti e si abbatterono su
quella casa, ma essa non cadde, perché era fondata sulla roccia".
-
Dopo aver concluso con queste parole il Signore attende che, giorno
per giorno, rispondiamo con i fatti alle sue sante esortazioni.
-
Ed è proprio per permetterci di correggere i nostri difetti che ci
vengono dilazionati i giorni di questa vita
-
secondo le parole dell'Apostolo: "Non sai che con la sua pazienza
Dio vuole portarti alla conversione?"
-
Difatti il Signore misericordioso afferma: "Non voglio la morte
del peccatore, ma che si converta e viva".
-
Dunque, fratelli miei, avendo chiesto al Signore a chi toccherà la
grazia di dimorare nella sua tenda, abbiamo appreso quali sono le condizioni per
rimanervi, purché sappiamo comportarci nel modo dovuto.
-
Perciò dobbiamo disporre i cuori e i corpi nostri a militare sotto la
santa obbedienza.
-
Per tutto quello poi, di cui la nostra natura si sente incapace,
preghiamo il Signore di aiutarci con la sua grazia.
-
E se vogliamo arrivare alla vita eterna, sfuggendo alle pene
dell'inferno,
-
finche c'è tempo e siamo in questo corpo e abbiamo la possibilità di
compiere tutte queste buone azioni,
-
dobbiamo correre e operare adesso quanto ci sarà utile per l'eternità.
-
Bisogna dunque istituire una scuola del servizio del Signore
-
nella quale ci auguriamo di non prescrivere nulla di duro o di
gravoso;
-
ma se, per la correzione dei difetti o per il mantenimento della carità,
dovrà introdursi una certa austerità, suggerita da motivi di giustizia,
-
non ti far prendere dallo scoraggiamento al punto di abbandonare la
via della salvezza, che in principio è necessariamente stretta e ripida.
-
Mentre invece, man mano che si avanza nella vita monastica e nella
fede, si corre per la via dei precetti divini col cuore dilatato dall'indicibile
sovranità dell'amore.
-
Così, non allontanandoci mai dagli insegnamenti di Dio e perseverando
fino alla morte nel monastero in una fedele adesione alla sua dottrina,
partecipiamo con la nostra sofferenza ai patimenti di Cristo per meritare di
essere associati al suo regno.
Fine del Prologo
Capitolo I - Le varie categorie di
monaci
-
E' noto che ci sono quattro categorie di monaci.
-
La prima è quella dei cenobiti, che vivono in un monastero, militando
sotto una regola e un abate.
-
La seconda è quella degli anacoreti o eremiti, ossia di coloro che
non sono mossi dall'entusiastico fervore dei principianti, ma sono stati
lungamente provati nel monastero,
-
dove con l'aiuto di molti hanno imparato a respingere le insidie del
demonio;
-
quindi, essendosi bene addestrati tra le file dei fratelli al
solitario combattimento dell'eremo, sono ormai capaci, con l'aiuto di Dio, di
affrontare senza il sostegno altrui la lotta corpo a corpo contro le
concupiscenze e le passioni.
-
La terza categoria di monaci, veramente detestabile è formata dai
sarabaiti: molli come piombo, perché non sono stati temprati come l'oro nel
crogiolo dell'esperienza di una regola,
-
costoro conservano ancora le abitudini mondane, mentendo a Dio con la
loro tonsura.
-
A due a due, a tre a tre o anche da soli, senza la guida di un
superiore, chiusi nei loro ovili e non in quello del Signore, hanno come unica
legge l'appagamento delle proprie passioni,
-
per cui chiamano santo tutto quello che torna loro comodo, mentre
respingono come illecito quello che non gradiscono.
-
C'è infine una quarta categoria di monaci, che sono detti girovaghi,
perché per tutta la vita passano da un paese all'altro, restando tre o quattro
giorni come ospiti nei vari monasteri,
-
sempre vagabondi e instabili, schiavi delle proprie voglie e dei
piaceri della gola, peggiori dei sarabaiti sotto ogni aspetto.
-
Ma riguardo alla vita sciagurata di tutti costoro è preferibile
tacere piuttosto che parlare.
-
Lasciamoli quindi da parte e con l'aiuto del Signore occupiamoci
dell'ordinamento della prima categoria, ossia quella fortissima e valorosa dei
cenobiti.
Capitolo II
- L'Abate
-
Un abate degno di stare a capo di un monastero deve sempre avere
presenti le esigenze implicite nel suo nome, mantenendo le proprie azioni al
livello di superiorità che esso comporta.
-
Sappiamo infatti per fede che in monastero egli tiene il posto di
Cristo, poiché viene chiamato con il suo stesso nome,
-
secondo quanto dice l'Apostolo: "Avete ricevuto lo Spirito di
figli adottivi, che vi fa esclamare: Abba, Padre!"
-
Perciò l'abate non deve insegnare, né stabilire o ordinare nulla di
contrario alle leggi del Signore,
-
anzi il suo comando e il suo insegnamento devono infondere nelle anime
dei discepoli il fermento della santità.
-
Si ricordi sempre che nel tremendo giudizio di Dio dovrà rendere
conto tanto del suo insegnamento, quanto dell'obbedienza dei discepoli
-
e sappia che il pastore sarà considerato responsabile di tutte le
manchevolezze che il padre di famiglia avrà potuto riscontrare nel gregge.
-
D'altra parte è anche vero che, se il pastore avrà usato ogni
diligenza nei confronti di un gregge irrequieto e indocile, cercando in tutti i
modi di correggerne la cattiva condotta,
-
verrà assolto nel divino giudizio e potrà ripetere con il profeta al
Signore: "Non ho tenuto la tua giustizia nascosta in fondo al cuore, ma ho
proclamato la tua verità e la tua salvezza; essi tuttavia mi hanno disprezzato,
ribellandosi contro di me".
-
E allora la giusta punizione delle pecore ribelli sarà la morte, che
avrà finalmente ragione della loro ostinazione.
-
Dunque, quando uno assume il titolo di Abate deve imporsi ai propri
discepoli con un duplice insegnamento,
-
mostrando con i fatti più che con le parole tutto quello che è buono
e santo: in altri termini, insegni oralmente i comandamenti del Signore ai
discepoli più sensibili e recettivi, ma li presenti esemplificati nelle sue
azioni ai più tardi e grossolani.
-
Confermi con la sua condotta che bisogna effettivamente evitare quanto
ha presentato ai discepoli come riprovevole, per non correre il rischio di essere
condannato dopo aver predicato agli altri
-
e di non sentirsi dire dal Signore per i suoi peccati: "Come ti
arroghi di esporre i miei precetti e di avere sempre la mia alleanza sulla bocca,
tu che hai in odio la disciplina e ti getti le mie parole dietro le spalle?"
-
e ancora: "Tu che vedevi la pagliuzza nell'occhio del tuo
fratello, non ti sei accorto della trave nel tuo".
-
Si guardi dal fare preferenze nelle comunità:
-
non ami l'uno piò dell'altro, a eccezione di quello che avrà trovato
migliore nella condotta e nell'obbedienza:
-
non anteponga un monaco proveniente da un ceto elevato a uno di umili
origini, a meno che non ci sia un motivo ragionevole per stabilire una tale
precedenza.
-
Ma se, per ragioni di giustizia, riterrà di dover agire così lo
faccia per chiunque; altrimenti ciascuno conservi il proprio posto,
-
perché, sia il servo che il libero, tutti siamo una cosa sola in
Cristo e, militando sotto uno stesso Signore, prestiamo un eguale servizio.
Infatti, "dinanzi a Dio non ci sono parzialità"
-
e una cosa sola ci distingue presso di lui: se siamo umili e migliori
degli altri nelle opere buone.
-
Quindi l'abate ami tutti allo stesso modo, seguendo per ciascuno una
medesima regola di condotta basata sui rispettivi meriti.
-
Per quanto riguarda poi la direzione dei monaci, bisogna che tenga
presente la norma dell'apostolo: "Correggi, esorta, rimprovera"
-
e precisamente, alternando i rimproveri agli incoraggiamenti, a
seconda dei tempi e delle circostanze, sappia dimostrare la severità del maestro
insieme con la tenerezza del padre.
-
In altre parole, mentre deve correggere energicamente gli
indisciplinati e gli irrequieti, deve esortare amorevolmente quelli che
obbediscono con docilità a progredire sempre più. Ma è assolutamente
necessario che rimproveri severamente e punisca i negligenti e coloro che
disprezzano la disciplina.
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Non deve chiudere gli occhi sulle eventuali mancanze, ma deve
stroncarle sul nascere, ricordandosi della triste fine di Eli, sacerdote di Silo.
-
Riprenda, ammonendoli una prima e una seconda volta, i monaci più
docili e assennati,
-
ma castighi duramente i riottosi, gli ostinati, i superbi e i
disobbedienti, appena tentano di trasgredire, ben sapendo che sta scritto:
"Lo stolto non si corregge con le parole"
-
e anche: "Battendo tuo figlio con la verga, salverai l'anima sua
dalla morte".
-
L'abate deve sempre ricordarsi quel che è e come viene chiamato,
nella consapevolezza che sono maggiori le esigenze poste a colui al quale è
stato affidato di più.
-
Bisogna che prenda chiaramente coscienza di quanto sia difficile e
delicato il compito che si è assunto di dirigere le anime e porsi al servizio
dei vari temperamenti, incoraggiando uno, rimproverando un altro e correggendo un
terzo:
-
perciò si conformi e si adatti a tutti, secondo la rispettiva indole
e intelligenza, in modo che, invece di aver a lamentare perdite nel gregge
affidato alle sue cure, possa rallegrarsi per l'incremento del numero dei buoni.
-
Soprattutto si guardi dal perdere di vista o sottovalutare la salvezza
delle anime, di cui è responsabile, per preoccuparsi eccessivamente delle realtà
terrene, transitorie e caduche,
-
ma pensi sempre che si è assunto l'impegno di dirigere delle anime,
di cui un giorno dovrà rendere conto
-
e non cerchi una scusante nelle eventuali difficoltà economiche,
ricordandosi che sta scritto :"Cercate anzitutto il regno di Dio e la sua
giustizia e tutte queste cose vi saranno date in soprappiù"
-
e anche: "Nulla manca a coloro che lo temono".
-
Sappia inoltre che chi si assume l'impegno di dirigere le anime deve
prepararsi a renderne conto
-
e stia certo che, quanti sono i monaci di cui deve prendersi cura,
tante solo le anime di cui nel giorno del giudizio sarà ritenuto responsabile di
fronte a Dio, naturalmente oltre che della propria.
-
Così nel continuo timore dell'esame a cui verrà sottoposto il
pastore riguardo alle pecore che gli sono state affidate mentre si preoccupa del
rendiconto altrui, si fa più attento al proprio
-
e corregge i suoi personali difetti, aiutando gli altri a migliorarsi
con le sue ammonizioni.
Capitolo III
- La consultazione della comunità
-
Ogni volta che in monastero bisogna trattare qualche questione
importante, l'abate convochi tutta la comunità ed esponga personalmente l'affare
in oggetto.
-
Poi, dopo aver ascoltato il parere dei monaci, ci rifletta per proprio
conto e faccia quel che gli sembra più opportuno.
-
Ma abbiamo detto di consultare tutta la comunità, perché spesso è
proprio al più giovane che il Signore rivela la soluzione migliore.
-
I monaci poi esprimano il loro parere con tutta umiltà e
sottomissione, senza pretendere di imporre a ogni costo le loro vedute;
-
comunque la decisione spetta all'abate e, una volta che questi avrà
stabilito ciò che è più conveniente, tutti dovranno obbedirgli.
-
D'altra parte, come è doveroso che i discepoli obbediscano al
maestro, così è bene che anche lui predisponga tutto con prudenza ed equità.
-
Dunque in ogni cosa tutti seguano come maestra la Regola e nessuno osi
allontanarsene.
-
Nessun membro della comunità segua la volontà propria,
-
né si azzardi a contestare sfacciatamente con l'abate, dentro o fuori
del monastero.
-
Chi si permette un simile contegno, sia sottoposto alle punizioni
previste dalla Regola.
-
L'abate però dal canto suo operi tutto col timor di Dio e secondo le
prescrizioni della Regola, ben sapendo che di tutte le sue decisioni dovrà
certamente rendere conto a Dio, giustissimo giudice.
-
Se poi in monastero si devono trattare questioni di minore importanza,
si serva solo del consiglio dei più anziani,
-
come sta scritto: "Fa' tutto col consiglio e dopo non avrai a
pentirtene".
Capitolo IV
- Gli strumenti delle buone opere
-
Prima di tutto amare il Signore Dio con tutto il cuore, con tutta
l'anima, con tutte le forze;
-
poi il prossimo come se stesso.
-
Quindi non uccidere,
-
non commettere adulterio,
-
non rubare,
-
non avere desideri illeciti,
-
non mentire;
-
onorare tutti gli uomini,
-
e non fare agli altri ciò che non vorremmo fosse fatto a noi.
-
Rinnegare completamente se stesso. per seguire Cristo;
-
mortificare il proprio corpo,
-
non cercare le comodità,
-
amare il digiuno.
-
Soccorrere i poveri,
-
vestire gli ignudi,
-
visitare gli infermi,
-
seppellire i morti ;
-
alleviare tutte le sofferenze,
-
consolare quelli che sono nell'afflizione.
-
Rendersi estraneo alla mentalità del mondo;
-
non anteporre nulla all'amore di Cristo.
-
Non dare sfogo all'ira,
-
non serbare rancore,
-
non covare inganni nel cuore,
-
non dare un falso saluto di pace,
-
non abbandonare la carità.
-
Non giurare per evitare spergiuri,
-
dire la verità con il cuore e con la bocca,
-
non rendere male per male,
-
non fare torti a nessuno, ma sopportare pazientemente quelli che
vengono fatti a noi;
-
amare i nemici,
-
non ricambiare le ingiurie e le calunnie, ma piuttosto rispondere con
la benevolenza verso i nostri offensori,
-
sopportare persecuzioni per la giustizia.
-
Non essere superbo,
-
non dedito al vino,
-
né vorace,
-
non dormiglione,
-
né pigro;
-
non mormoratore,
-
né maldicente.
-
Riporre in Dio la propria speranza,
-
attribuire a Lui e non a sé quanto di buono scopriamo in noi,
-
ma essere consapevoli che il male viene da noi e accettarne la
responsabilità.
-
Temere il giorno del
giudizio,
-
tremare al pensiero dell'inferno,
-
anelare con tutta l'anima alla vita eterna,
-
prospettarsi sempre la possibilità della morte.
-
Vigilare continuamente sulle proprie azioni,
-
essere convinti che Dio ci guarda dovunque.
-
Spezzare subito in Cristo tutti i cattivi pensieri che ci sorgono in
cuore e manifestarli al padre spirituale.
-
Guardarsi dai discorsi cattivi o sconvenienti,
-
non amare di parlar molto,
-
non dire parole leggere o ridicole,
-
non ridere spesso e smodatamente.
-
Ascoltare volentieri la lettura della parola di Dio,
-
dedicarsi con frequenza alla preghiera;
-
in questa confessare ogni giorno a Dio con profondo dolore le colpe
passate
-
e cercare di emendarsene per l'avvenire.
-
Non appagare i desideri della natura corrotta,
-
odiare la volontà propria,
-
obbedire in tutto agli ordini dell'abate, anche se - Dio non voglia! -
questi agisse diversamente da come parla, ricordando quel precetto del
Signore:" Fate quello che dicono, ma non fate quello che fanno".
-
Non voler esser detto santo prima di esserlo, ma diventare veramente
tale, in modo che poi si possa dirlo con più fondamento.
-
Adempiere quotidianamente i comandamenti di Dio.
-
Amare la castità,
-
non odiare nessuno,
-
non essere geloso,
-
non coltivare l'invidia,
-
non amare le contese,
-
fuggire l'alterigia
-
e rispettare gli anziani,
-
amare i giovani,
-
pregare per i nemici nell'amore di Cristo,
-
nell'eventualità di un contrasto con un fratello, stabilire la pace
prima del tramonto del sole.
-
E non disperare mai della misericordia di Dio.
-
Ecco, questi sono gli strumenti dell'arte spirituale!
-
Se li adopereremo incessantemente di giorno e di notte e li
riconsegneremo nel giorno del giudizio, otterremo dal Signore la ricompensa
promessa da lui stesso:
-
"Né occhio ha mai visto, né orecchio ha udito, né mente d'uomo
ha potuto concepire ciò che Dio ha preparato a coloro che lo amano".
-
L'officina poi in cui bisogna usare con la massima diligenza questi
strumenti è formata dai chiostri del monastero e dalla stabilità nella propria
famiglia monastica.
Capitolo V
- L'obbedienza
-
Il segno più evidente dell'umiltà è la prontezza nell'obbedienza.
-
Questa è caratteristica dei monaci che non hanno niente più caro di
Cristo
-
e, a motivo del servizio santo a cui si sono consacrati o anche per il
timore dell'inferno e in vista della gloria eterna,
-
appena ricevono un ordine dal superiore non si concedono dilazioni
nella sua esecuzione, come se esso venisse direttamente da Dio.
-
E' di loro che il Signore dice: " Appena hai udito, mi hai
obbedito"
-
mentre rivolgendosi ai superiori dichiara: "Chi ascolta voi,
ascolta me".
-
Quindi, questi monaci, che si distaccano subito dalle loro preferenze
e rinunciano alla propria volontà,
-
si liberano all'istante dalle loro occupazioni, lasciandole a mezzo, e
si precipitano a obbedire, in modo che alla parola del superiore seguano
immediatamente i fatti.
-
Quasi allo stesso istante, il comando del maestro e la perfetta
esecuzione del discepolo si compiono di comune accordo con quella velocità che
è frutto del timor di Dio:
-
così in coloro che sono sospinti dal desiderio di raggiungere la vita
eterna.
-
Essi si slanciano dunque per la via stretta della quale il Signore
dice: "Angusta è la via che conduce alla vita";
-
perciò non vivono secondo il proprio capriccio né seguono le loro
passioni e i loro gusti, ma procedono secondo il giudizio e il comando altrui;
rimangono nel monastero e desiderano essere sottoposti a un abate.
-
Senza dubbio costoro prendono a esempio quella sentenza del Signore
che dice: "Non sono venuto a fare la mia volontà, ma quella di colui che mi
ha mandato".
-
Ma questa obbedienza sarà accetta a Dio e gradevole agli uomini, se
il comando ricevuto verrà eseguito senza esitazione, lentezza o tiepidezza e
tantomeno con mormorazioni o proteste,
-
perché l'obbedienza che si presta agli uomini è resa a Dio, come ha
detto lui stesso: "Chi ascolta voi, ascolta me".
-
I monaci dunque devono obbedire con slancio e generosità, perché
"Dio ama chi dà lietamente".
-
Se infatti un fratello obbedisce malvolentieri e mormora, non dico con
la bocca, ma anche solo con il cuore,
-
pur eseguendo il comando, non compie un atto gradito a Dio, il quale
scorge 1a mormorazione nell'intimo della sua coscienza;
-
quindi, con questo comportamento, egli non si acquista alcun merito,
anzi, se non ripara e si corregge, incorre nel castigo comminato ai mormoratori.
Capitolo VI
- L'amore del silenzio
-
Facciamo come dice il profeta: "Ho detto: Custodirò le mie vie
per non peccare con la lingua; ho posto un freno sulla mia bocca, non ho parlato,
mi sono umiliato e ho taciuto anche su cose buone".
-
Se con queste parole egli dimostra che per amore del silenzio bisogna
rinunciare anche ai discorsi buoni, quanto più è necessario troncare quelli
sconvenienti in vista della pena riserbata al peccato!
-
Dunque l'importanza del silenzio è tale che persino ai discepoli
perfetti bisogna concedere raramente il permesso di parlare, sia pure di
argomenti buoni, santi ed edificanti, perché sta scritto:
-
"Nelle molte parole non eviterai il peccato"
-
e altrove: "Morte e vita sono in potere della lingua".
-
Se infatti parlare e insegnare é compito del maestro, il dovere del
discepolo è di tacere e ascoltare.
-
Quindi, se bisogna chiedere qualcosa al superiore, lo si faccia con
grande umiltà e rispettosa sottomissione.
-
Escludiamo poi sempre e dovunque la trivialità, le frivolezze e le
buffonerie e non permettiamo assolutamente che il monaco apra la bocca per
discorsi di questo genere.
Capitolo VII
- L'umiltà
-
La sacra Scrittura si rivolge a noi, fratelli, proclamando a gran
voce: "Chiunque si esalta sarà umiliato e chi si umilia sarà
esaltato".
-
Così dicendo, ci fa intendere che ogni esaltazione è una forma di
superbia,
-
dalla quale il profeta mostra di volersi guardare quando dice:
"Signore, non si è esaltato il mio cuore, né si è innalzato il mio
sguardo, non sono andato dietro a cose troppo grandi o troppo alte per me".
-
E allora? "Se non ho nutrito sentimenti di umiltà, se il mio
cuore si è insuperbito, tu mi tratterai come un bimbo svezzato dalla propria
madre".
-
Quindi, fratelli miei, se vogliamo raggiungere la vetta più eccelsa
dell'umiltà e arrivare rapidamente a quella glorificazione celeste, a cui si
ascende attraverso l'umiliazione della vita presente,
-
bisogna che con il nostro esercizio ascetico innalziamo la scala che
apparve in sogno a Giacobbe e lungo la quale questi vide scendere e salire gli
angeli.
-
Non c'è dubbio che per noi quella discesa e quella salita possono
essere interpretate solo nel senso che con la superbia si scende e con l'umiltà
si sale.
-
La scala così eretta, poi, è la nostra vita terrena che, se il cuore
è umile, Dio solleva fino al cielo;
-
noi riteniamo infatti che i due lati della scala siano il corpo e
l'anima nostra, nei quali la divina chiamata ha inserito i diversi gradi di umiltà
o di esercizio ascetico per cui bisogna salire.
-
Dunque il primo grado dell'umiltà è quello in cui, rimanendo sempre
nel santo timor di Dio, si fugge decisamente la leggerezza e la dissipazione,
-
si tengono costantemente presenti i divini comandamenti e si pensa di
continuo all'inferno, in cui gli empi sono puniti per i loro peccati, e alla vita
eterna preparata invece per i giusti.
-
In altre parole, mentre si astiene costantemente dai peccati e dai
vizi dei pensieri, della lingua, delle mani, dei piedi e della volontà propria,
come pure dai desideri della carne,
-
l'uomo deve prendere coscienza che Dio lo osserva a ogni istante dal
cielo e che, dovunque egli si trovi, le sue azioni non sfuggono mai allo sguardo
divino e sono di continuo riferite dagli angeli.
-
E' ciò che ci insegna il profeta, quando mostra Dio talmente presente
ai nostri pensieri da affermare: "Dio scruta le reni e i cuori"
-
come pure: "Dio conosce i pensieri degli uomini".
-
Poi aggiunge: "Hai intuito di lontano i miei pensieri"
-
e infine: "Il pensiero dell'uomo sarà svelato dinanzi a
te".
-
Quindi, per potersi coscienziosamente guardare dai cattivi pensieri,
bisogna che il monaco vigile e fedele ripeta sempre tra sé: "Sarò senza
macchia dinanzi a lui, solo se mi guarderò da ogni malizia".
-
Ci è poi vietato di fare la volontà propria, dato che la Scrittura
ci dice: "Allontanati dalle tue voglie"
-
e per di più nel Pater chiediamo a Dio che in noi si compia la sua
volontà.
-
Perciò ci viene giustamente insegnato di non fare la nostra volontà,
evitando tutto quello di cui la Scrittura dice: "Ci sono vie che agli uomini
sembrano diritte, ma che si sprofondano negli abissi dell'inferno"
-
e anche nel timore di quanto è stato affermato riguardo ai
negligenti: "Si sono corrotti e sono divenuti spregevoli nella loro
dissolutezza".
-
Quanto poi alle passioni della nostra natura decaduta, bisogna credere
ugualmente che Dio è sempre presente, secondo il detto del profeta: "Ogni
mio desiderio sta davanti a te".
-
Dobbiamo quindi guardarci dalle passioni malsane, perché la morte è
annidata sulla soglia del piacere.
-
Per questa ragione la Scrittura prescrive: "Non seguire le tue
voglie".
-
Se dunque "gli occhi di Dio scrutano i buoni e i cattivi"
-
e se "il Signore esamina attentamente i figli degli uomini per
vedere se vi sia chi abbia intelletto e cerchi Dio",
-
se a ogni momento del giorno e della notte le nostre azioni vengono
riferite al Signore dai nostri angeli custodi,
-
bisogna, fratelli miei, che stiamo sempre in guardia per evitare che
un giorno Dio ci veda perduti dietro il male e isteriliti, come dice il profeta
nel salmo e,
-
pur risparmiandoci per il momento, perché è misericordioso e aspetta
la nostra conversione, debba dirci in avvenire: "Hai fatto questo e ho
taciuto".
-
Il secondo grado dell'umiltà è quello in cui, non amando la propria
volontà, non si trova alcun piacere nella soddisfazione dei propri desideri,
-
ma si imita il Signore, mettendo in pratica quella sua parola, che
dice: "Non sono venuto a fare la mia volontà, ma quella di colui che mi ha
mandato".
-
Cosa" pure un antico testo afferma: "La volontà propria
procura la pena, mentre la sottomissione conquista il premio".
-
Terzo grado dell'umiltà è quello in cui il monaco per amore di Dio
si sottomette al superiore in assoluta obbedienza, a imitazione del Signore, del
quale l'Apostolo dice: "Fatto obbediente fino alla morte".
-
Il quarto grado dell'umiltà è quello del monaco che, pur incontrando
difficoltà, contrarietà e persino offese non provocate nell'esercizio
dell'obbedienza, accetta in silenzio e volontariamente la sofferenza
-
e sopporta tutto con pazienza, senza stancarsi né cedere secondo il
monito della Scrittura: " Chi avrà sopportato sino alla fine questi sarà
salvato".
-
E ancora: "Sia forte il tuo cuore e spera nel Signore".
-
E per dimostrare come il servo fedele deve sostenere per il Signore
tutte le possibili contrarietà, esclama per bocca di quelli che patiscono:
"Ogni giorno per te siamo messi a morte, siamo trattati come pecore da
macello".
-
Ma con la sicurezza che nasce dalla speranza della divina
retribuzione, costoro soggiungono lietamente: "E di tutte queste cose
trionfiamo in pieno, grazie a colui che ci ha amato",
-
mentre altrove la Scrittura dice: "Ci hai provato, Signore, ci
hai saggiato come si saggia l'argento col fuoco; ci hai fatto cadere nella rete,
ci hai caricato di tribolazioni".
-
E per indicare che dobbiamo assoggettarci a un superiore, prosegue
esclamando: "Hai posto degli uomini sopra il nostro capo".
-
Quei monaci, però, adempiono il precetto del Signore, esercitando la
pazienza anche nelle avversità e nelle umiliazioni, e, percossi su una guancia,
presentano l'altra, cedono anche il mantello a chi strappa loro di dosso la
tunica, quando sono costretti a fare un miglio di cammino ne percorrono due,
-
come l'Apostolo Paolo sopportano i falsi fratelli e ricambiano con
parole le offese e le ingiurie.
-
Il quinto grado dell'umiltà consiste nel manifestare con un'umile
confessione al proprio abate tutti i cattivi pensieri che sorgono nell'animo o le
colpe commesse in segreto,
-
secondo l'esortazione della Scrittura, che dice: "Manifesta al
Signore la tua via e spera in lui".
-
E anche: "Aprite l'animo vostro al Signore, perché è buono ed
eterna è la sua misericordia",
-
mentre il profeta esclama: "Ti ho reso noto il mio peccato e non
ho nascosto la mia colpa.
-
Ho detto: "confesserò le mie iniquità dinanzi al Signore"
e tu hai perdonato la malizia del mio cuore".
-
Il sesto grado dell'umiltà è quello in cui il monaco si contenta
delle cose più misere e grossolane e si considera un operaio incapace e indegno
nei riguardi di tutto quello che gli impone l'obbedienza,
-
ripetendo a se stesso con il profeta: "Sono ridotto a nulla e
nulla so; eccomi dinanzi a te come una bestia da soma, ma sono sempre con
te".
-
Il settimo grado dell'umiltà consiste non solo nel qualificarsi come
il più miserabile di tutti, ma nell'esserne convinto dal profondo del cuore,
-
umiliandosi e dicendo con il profeta: "Ora io sono un verme e non
un uomo, l'obbrobrio degli uomini e il rifiuto della plebe";
-
"Mi sono esaltato e quindi umiliato e confuso"
-
e ancora: "Buon per me che fui umiliato, perché imparassi la tua
legge".
-
L'ottavo grado dell'umiltà è quello in cui il monaco non fa nulla al
di fuori di ciò a cui lo sprona la regola comune del monastero e l'esempio dei
superiori e degli anziani.
-
Il nono grado dell'umiltà è proprio del monaco che sa dominare la
lingua e, osservando fedelmente il silenzio, tace finché non è interrogato,
-
perché la Scrittura insegna che "nelle molte parole non manca il
peccato"
-
e che "l'uomo dalle molte chiacchiere va senza direzione sulla
terra".
-
Il decimo grado dell'umiltà è quello in cui il monaco non è sempre
pronto a ridere, perché sta scritto: "Lo stolto nel ridere alza la
voce".
-
L'undicesimo grado dell'umiltà è quello nel quale il monaco, quando
parla, si esprime pacatamente e seriamente, con umiltà e gravità, e pronuncia
poche parole assennate, senza alzare la voce,
-
come sta scritto: "Il saggio si riconosce per la sobrietà nel
parlare".
-
Il dodicesimo grado, infine, è quello del monaco, la cui umiltà non
è puramente interiore, ma traspare di fronte a chiunque lo osservi da tutto il
suo atteggiamento esteriore,
-
in quanto durante l'Ufficio divino, in coro, nel monastero, nell'orto,
per via, nei campi, dovunque, sia che sieda, cammini o stia in piedi, tiene
costantemente il capo chino e gli occhi bassi;
-
e, considerandosi sempre reo per i propri peccati, si vede già
dinanzi al tremendo giudizio di Dio,
-
ripetendo continuamente in cuor suo ciò che disse, con gli occhi
fissi a terra il pubblicano del Vangelo: "Signore, io, povero peccatore, non
sono degno di alzare gli occhi al cielo".
-
E ancora con il profeta: "Mi sono sempre curvato e
umiliato".
-
Una volta ascesi tutti questi gradi dell'umiltà, il monaco giungerà
subito a quella carità, che quando è perfetta, scaccia il timore;
-
per mezzo di essa comincerà allora a custodire senza alcuno sforzo e
quasi naturalmente, grazie all'abitudine, tutto quello che prima osservava con
una certa paura;
-
in altre parole non più per timore dell'inferno, ma per timore di
Cristo, per la stessa buona abitudine e per il gusto della virtù.
-
Sono questi i frutti che, per opera dello Spirito Santo, il Signore si
degnerà di rendere manifesti nel suo servo, purificato ormai dai vizi e dai
peccati.
Capitolo VIII
- L'Ufficio divino nella notte
-
Durante la stagione invernale, cioè dal principio di novembre sino a
Pasqua, secondo un calcolo ragionevole, la sveglia sia verso le due del mattino,
-
in modo che il sonno si prolunghi un po' oltre la mezzanotte e tutti
si possano alzare sufficientemente riposati.
-
Il tempo che rimane dopo l'Ufficio vigilare venga impiegato dai
monaci, che ne hanno bisogno, nello studio del salterio o delle lezioni.
Da Pasqua, invece, sino al suddetto inizio di novembre,
l'orario venga disposto in modo tale che, dopo un brevissimo intervallo nel quale i
fratelli possono uscire per le necessità della natura, l'Ufficio vigiliare sia
seguito immediatamente dalle Lodi, che devono essere recitate al primo albeggiare.
Capitolo
IX - I
salmi dell'Ufficio notturno
-
Nel suddetto periodo invernale si dica prima di tutto per tre volte il
versetto: "Signore, apri le mie labbra e la mia bocca annunzierà la tua
lode",
-
a cui si aggiunga il salmo 3 con il Gloria;
-
dopo di questo il salmo 94 cantato con l'antifona oppure lentamente.
-
Quindi segua l'inno e poi sei salmi con le antifone,
-
finiti i quali e detto il versetto, l'abate dia la benedizione e,
mentre tutti stanno seduti ai rispettivi posti, i fratelli leggano a turno dal
lezionario posto sul leggio tre lezioni, intercalate da responsori cantati.
-
Due responsori si cantino senza il Gloria, ma dopo la terza lezione il
cantore lo intoni
-
e allora tutti subito si alzino in piedi per l'onore e la riverenza
dovuti alla Santa Trinità.
-
Quanto ai libri da leggere nell'Ufficio vigilare, siano tutti di
autorità divina, sia dell'antico che del nuovo Testamento, compresi i relativi
commenti, scritti da padri di sicura fama e genuina fede cattolica.
-
Dopo queste tre lezioni con i rispettivi responsori, seguano gli altri
sei salmi da cantare con l'Alleluia
-
e dopo questi una lezione tratta dalle lettere di S. Paolo, da
recitarsi a memoria, il versetto, la prece litanica, cioè il Kyrie eleison,
-
e così si metta fine all'Ufficio vigilare.
|
Capitolo X - L'Ufficio notturno dell'estate
-
Da Pasqua fino al principio di novembre si mantenga lo stesso numero
di salmi, che è stato prescritto sopra;
-
eccetto che, a causa della brevità delle notti, non si leggano le
lezioni dal lezionario, ma, invece di tre, se ne reciti a memoria una sola
dell'antico Testamento seguita da un responsorio breve;
-
tutto il resto si svolga, come è già stato prescritto, cioè
nell'Ufficio vigiliare non si dicano mai meno di dodici salmi, senza contare i
salmi 3 e 94.
Capitolo XI - L'Ufficio notturno nelle Domeniche
-
Per l'Ufficio vigilare della domenica ci si alzi un po' prima.
-
Anche in questo caso si osservi un determinato ordine, cioè, dopo
aver cantato sei salmi come abbiamo stabilito sopra ed essersi seduti tutti
ordinatamente ai propri posti, si leggano sul lezionario quattro lezioni con i
relativi responsori, secondo quanto abbiamo già detto;
-
solo al quarto responsorio il cantore intoni il Gloria e allora tutti
si alzino subito in piedi con riverenza.
-
A queste lezioni seguano per ordine altri sei salmi con le antifone
come i precedenti e il versetto.
-
Quindi si leggano di nuovo altre quattro lezioni con i propri
responsori, secondo le norme precedenti.
-
Poi si recitino tre cantici, tratti dai libri dei Profeti a scelta
dell'abate, che si devono cantare con l'Alleluia.
-
Detto quindi il versetto, con la benedizione dell'abate si leggano
altre quattro lezioni del nuovo Testamento nel modo gi indicato.
-
Dopo il quarto responsorio l'abate intoni l'inno Te Deum
laudamus,
-
finito il quale lo stesso abate legga la lezione dai Vangeli, mentre
tutti stanno in piedi con la massima reverenza.
-
Al termine di questa lettura tutti rispondano Amen, poi l'abate
prosegua immediatamente con l'inno Te decet laus e, recitata la preghiera di
benedizione, si incomincino le lodi.
-
Quest'ordine dell'Ufficio vigiliare della domenica dev'essere
mantenuto in ogni stagione, tanto d'estate che d'inverno,
-
salvo il caso deprecabile in cui i monaci si alzassero più tardi,
nella quale circostanza bisognerà abbreviare le lezioni e i responsori.
-
Si stia però bene attenti che ciò non avvenga; ma se dovesse
accadere, il responsabile di una simile negligenza ne faccia in coro degna
riparazione a Dio.
Capitolo
XII - Le
lodi
-
Alle Lodi della domenica, prima di tutto si dica il salmo 66 tutto di
seguito, senza antifona,
-
quindi il salmo 50 con l'Alleluia,
-
poi il 117 e il 62
-
quindi il cantico dei tre fanciulli nella fornace (il Benedicite), i
salmi di lode, una lezione dell'Apocalisse a memoria, il responsorio, l'inno, il
versetto, il cantico del Vangelo (il Benedictus) e la prece litanica con cui si
finisce.
Capitolo XIII - Le lodi nei giorni feriali
-
Nei giorni feriali le Lodi si celebrino nel modo seguente:
-
si dica il salmo 66 senza antifona, recitandolo lentamente in modo che
tutti possano essere presenti per il salmo 50, che deve dirsi con l'antifona.
-
Dopo di questi, si dicano altri due salmi secondo la consuetudine e
cioè
-
al lunedì i salmi 5 e 35,
-
al martedì il 42 e il 56,
-
al mercoledì il 63 e il 64,
-
al giovedì l'87 e l'89,
-
al venerdì il 75 e il 91
-
e al sabato il 142 con il cantico del Deuteronomio, diviso in due
parti dal Gloria.
-
In tutti gli altri giorni poi si dica il cantico profetico proprio di
quel giorno, secondo l'uso della Chiesa romana.
-
Quindi seguano i salmi di lode, una breve lezione dell'Apostolo a
memoria, il responsorio, l'inno, il versetto, il cantico del Vangelo, la prece
litanica e così si termina.
-
Ma l'Ufficio delle Lodi e del Vespro non si chiuda mai senza che,
secondo l'uso stabilito, alla fine, tra l'attenzione di tutti, il superiore
reciti il Pater per le offese alla carità fraterna che avvengono di solito nella
vita comune,
-
in modo che i presenti possano purificarsi da queste colpe, grazie
all'impegno preso con la stessa preghiera nella quale dicono: "Rimetti a
noi, come anche noi rimettiamo".
-
Nelle altre Ore, invece, si dica ad alta voce solo l'ultima parte del
Pater, a cui tutti rispondano: "Ma liberaci dal male".
Capitolo XIV - L'Ufficio vigilare nelle feste dei Santi
-
Nelle feste dei Santi e in tutte le solennità si proceda come abbiamo
stabilito per la domenica,
-
ad eccezione dei salmi, delle antifone e delle lezioni, che saranno
proprie di quel giorno; si segua però l'ordine già fissato.
Capitolo
XV -
Quando si deve dire l'alleluia
-
L'Alleluia si dica sempre dalla santa Pasqua fino a Pentecoste, tanto
nei salmi che nei responsori;
-
da Pentecoste poi sino al principio della Quaresima lo si dica
soltanto negli ultimi sei salmi dell'Ufficio notturno.
-
Ma in tutte le domeniche che cadano fuori del tempo quaresimale i
cantici, le Lodi, Prima, Terza, Sesta e Nona si dicano con l'Alleluia, mentre il
Vespro avrà le antifone proprie.
-
I
responsori, invece, non si dicano mai con l'Alleluia, se non da
Pasqua a Pentecoste.
Capitolo XVI - La celebrazione dei divini Offici durante
le ore del giorno
-
"Sette volte al giorno ti ho lodato", dice il profeta.
-
Questo sacro numero di sette sarà adempiuto da noi, se assolveremo i
doveri del nostro servizio alle Lodi, a Prima, a Terza, a Sesta, a Nona, a Vespro
e Compieta,
-
perché proprio di queste ore diurne il profeta ha detto: "Sette
volte al giorno ti ho lodato".
-
Infatti nelle Vigilie notturne lo stesso profeta dice: "Nel mezzo
della notte mi alzavo per lodarti".
-
Dunque in queste ore innalziamo lodi al nostro Creatore "per le
opere della sua giustizia" e cioè alle lodi, a Prima, a Terza, a Sesta, a
Nona, a Vespro e a Compieta e di notte alziamoci per celebrare la sua grandezza.
Capitolo XVII - Salmi delle ore del giorno
-
Abbiamo già stabilito l'ordine della salmodia per l'Ufficio notturno
e per le Lodi; adesso provvediamo per le altre Ore.
-
All'ora di Prima si dicano tre salmi separatamente, ciascuno con il
proprio Gloria
-
e l'inno della stessa Ora segua il versetto Deus in adiutorium prima
di iniziare i salmi.
-
Finiti i tre salmi, si reciti una sola lezione, il versetto, il Kyrie
eleison e le preci finali.
-
A Terza, a sesta e a Nona si celebri l'Ufficio secondo lo stesso
ordine e cioè il versetto iniziale, gli inni delle rispettive Ore, tre salmi, la
lezione, il versetto, il Kyrie eleison e le preci finali.
-
Se la comunità fosse numerosa, si salmeggi con le antifone,
altrimenti si recitino i salmi tutti di seguito.
-
L'Ufficio del Vespro comprenda quattro salmi con le antifone,
-
dopo i quali si reciti la lezione, quindi il responsorio, l'inno, il
versetto, il cantico del Vangelo, il Kyrie e il Pater, a cui segue il congedo.
-
Compieta, infine, consista in tre salmi di seguito, senza antifona,
-
ai quali segua l'inno della medesima ora, una sola lezione, il
versetto, il Kyrie eleison e la benedizione con cui si conclude.
Capitolo
XVIII -
L'ordine dei salmi nelle ore del giorno
-
Prima di tutto si dica il versetto: "O Dio, vieni in mio
soccorso; Signore, affrettati ad aiutarmi", il Gloria e poi l'inno di
ciascuna Ora.
-
A Prima della domenica si dicano quattro strofe del salmo 118;
-
alle altre Ore, cioè a Terza, Sesta e Nona, si dicano tre strofe per
volta dello stesso salmo.
-
A Prima del lunedì si recitino tre salmi e cioè il salmo 1, il 2 e
il 6;
-
e così nei giorni successivi fino alla domenica si dicano di seguito
tre salmi fino al 19, in modo però che il 9 e il 17 si dividano in due.
-
Così le vigilie domenicali cominceranno sempre con il salmo 20.
-
A Terza, Sesta e Nona del lunedì si dicano le ultime nove strofe del
salmo 118, tre per ciascuna Ora.
-
Esaurito questo salmo in due giorni, cioè alla domenica e al lunedì,
-
a Terza, Sesta e Nona del martedì si recitino rispettivamente tre
salmi dal 119 al 127, cioè in tutto nove salmi.
-
Questi vengano sempre ripetuti allo stesso modo nelle medesime Ore
fino alla domenica, lasciando però invariati gli inni, le lezioni e i versetti
per tutte le Ore della settimana,
-
in modo che alla domenica si cominci sempre dal salmo 118.
-
Il Vespro poi si celebri ogni giorno con il canto di quattro salmi,
-
dal 109 fino al 147;
-
eccettuando quelli che sono riservati alle altre Ore, cioè i salmi
117-127, 133 e 142,
-
tutti gli altri si dicano a Vespro.
-
E poiché vengono a mancare tre salmi, si dividano i più lunghi del
gruppo indicato, ossia il 138, il 143 e il 144.
-
Il 116, invece, che è il più breve, venga unito al 115.
-
Stabilito così l'ordine della salmodia vespertina, tutto il resto,
cioè la lezione, il responsorio, l'inno, il versetto e il cantico, si dica come
abbiamo disposto sopra.
-
A Compieta, infine, si ripetano tutti i giorni gli stessi salmi e cioè
il 4, il 90 e il 133.
-
Una volta fissato l'ordine della salmodia di tutti i salmi rimanenti
vengano distribuiti in parti uguali nei sette Uffici notturni,
-
dividendo quelli più lunghi e assegnandone dodici per notte.
-
Ci teniamo però ad avvertire che, se qualcuno non trovasse
conveniente tale distribuzione dei salmi, li disponga pure come meglio crede,
-
purché badi bene di fare in modo che in tutta la settimana si reciti
l'intero salterio di centocinquanta salmi e con l'Ufficio vigiliare della
domenica si ricominci sempre da capo.
-
Infatti i monaci, che in una settimana salmeggiano meno dell'intero
salterio con i cantici consueti, danno prova di grande indolenza e fiacchezza nel
servizio a cui sono consacrati,
-
dato che dei nostri padri si legge che in un sol giorno adempivano con
slancio e fervore quanto è augurabile che noi tiepidi riusciamo a eseguire in
una settimana.
Capitolo
XIX - La
partecipazione interiore all'Ufficio divino
-
Sappiamo per fede che Dio è presente dappertutto e che "gli
occhi del Signore guardano in ogni luogo i buoni e i cattivi",
-
ma dobbiamo crederlo con assoluta certezza e senza la minima
esitazione, quando prendiamo parte all'Ufficio divino.
-
Perciò ricordiamoci sempre di quello che dice il profeta:
"Servite il Signore nel timore"
-
e ancora: "Lodatelo degnamente"
-
e ancora: " Ti canterò alla presenza degli angeli".
-
Consideriamo dunque come bisogna comportarsi alla presenza di Dio e
dei suoi Angeli
-
e partecipiamo alla salmodia in modo tale che l'intima disposizione
dell'animo si armonizzi con la nostra voce.
|
Capitolo
XX - La
riverenza nella preghiera
-
Se quando dobbiamo chiedere un favore a qualche personaggio, osiamo
farlo solo con soggezione e rispetto,
-
quanto più dobbiamo rivolgere la nostra supplica a Dio, Signore di
tutte le cose, con profonda umiltà e sincera devozione.
-
Bisogna inoltre sapere che non saremo esauditi per le nostre parole,
ma per la purezza del cuore e la compunzione che strappa le lacrime.
-
Perciò la preghiera dev'essere breve e pura, a meno che non venga
prolungata dall'ardore e dall'ispirazione della grazia divina.
-
Ma quella che si fa in comune sia brevissima e quando il superiore dà
il segno, si alzino tutti insieme.
Capitolo
XXI - I
decani del monastero
-
Se la comunità è abbastanza numerosa, si scelgano in essa alcuni
monaci di buon esempio e di santa vita per costituirli decani;
-
essi vigileranno premurosamente, secondo le leggi di Dio e gli ordini
dell'abate sui gruppi di dieci fratelli affidati alle loro rispettive cure.
-
Come decani devono essere eletti quei monaci con i quali l'abate possa
tranquillamente condividere i suoi pesi
-
e in tale scelta non bisogna tener conto dell'ordine di anzianità, ma
regolarsi solo in considerazione della condotta esemplare e della scienza delle
cose di Dio.
-
Se poi fra questi decani ce ne fosse qualcuno che, montato un po' in
superbia, dovesse essere ripreso, sia rimproverato una prima, una seconda e una
terza volta e, se non vorrà correggersi,
-
venga sostituito con un altro veramente degno.
-
La stessa cosa stabiliamo per il priore.
Capitolo
XXII - Il
dormitorio dei monaci
-
Ciascun monaco dorma in un letto proprio
-
e ne riceva la fornitura conforme alle consuetudini monastiche e
secondo quanto disporrà l'abate.
-
Se è possibile dormano tutti nello stesso locale, ma se il numero
rilevante non lo permette, riposino a dieci o venti per ambiente insieme con gli
anziani incaricati della sorveglianza.
-
Nel dormitorio rimanga sempre accesa una lampada fino al mattino.
-
Dormano vestiti, con ai fianchi semplici cinture o corde, senza
portare coltelli appesi al lato mentre riposano, per non ferirsi nel sonno.
-
Così i monaci siano sempre pronti e, appena dato il segnale,
alzandosi senza indugio si affrettino a prevenirsi vicendevolmente per l'Ufficio
divino, ma sempre con la massima gravità e modestia.
-
I più giovani non abbiano i letti vicini, ma alternati con quelli dei
più anziani.
-
Quando poi si alzano per l'Ufficio divino, si esortino garbatamente a
vicenda per prevenire le scuse degli assonnati.
Capitolo
XXIII -
La scomunica per le colpe
-
Se qualche fratello si dimostrerà ribelle o disobbediente o superbo o
mormoratore, o assumerà un atteggiamento di ostilità e di disprezzo nei
confronti di qualche punto della santa Regola o degli ordini dei superiori,
-
questi lo rimproverino una prima e una seconda volta in segreto,
secondo il precetto del Signore.
-
Se non si migliorerà, venga ripreso pubblicamente di fronte a tutti.
-
Ma nel caso che anche questo provvedimento si dimostri inefficace, sia
scomunicato, purché sia in grado di valutare la portata di una tale punizione.
-
Se invece difetta di una sufficiente sensibilità, sia sottoposto al
castigo corporale.
Capitolo
XXIV - La
misura della scomunica
-
La scomunica e, in genere, la punizione disciplinare dev'essere
proporzionata alla gravità della colpa
-
e ciò è di competenza dell'abate.
-
Però il monaco che avrà commesso mancanze meno gravi sia escluso
dalla mensa comune.
-
Il trattamento inflitto a chi viene escluso dalla mensa è il
seguente: in coro non intoni salmo, né antifona, né reciti lezioni fino a
quando non avrà riparato alle sue mancanze;
-
mangi da solo dopo la comunità,
-
sicché se, per esempio, i monaci pranzano all'ora di Sesta, egli
mangi a Nona; se pranzano a Nona, egli a Vespro,
-
fino a quando avrà ottenuto il perdono con una conveniente
riparazione.
Capitolo
XXV - Le
colpe più gravi
-
Il monaco colpevole di mancanze più gravi sia invece sospeso oltre
che dalla mensa anche dal coro.
-
Nessuno lo avvicini per fargli compagnia o parlare di qualsiasi cosa.
-
Attenda da solo al lavoro che gli sarà assegnato e rimanga nel lutto
della penitenza, consapevole della terribile sentenza dell'apostolo che dice:
-
"Costui è stato consegnato alla morte della carne, perché la
sua anima sia salva nel giorno del Signore".
-
Prenda il suo cibo da solo nella quantità e nell'ora che l'abate
giudicherà più conveniente per lui;
-
non sia benedetto da chi lo incontra e non si benedica neppure il cibo
che gli viene dato.
Capitolo
XXVI -
Rapporti dei confratelli con gli scomunicati
-
Se qualche monaco oserà avvicinare in qualche modo un fratello
scomunicato, o parlare con lui, o inviargli un messaggio, senza l'autorizzazione
dell'abate,
-
incorra nella medesima punizione.
Capitolo
XXVII -
La sollecitudine dell'abate per gli scomunicati
-
L'abate deve prendersi cura dei colpevoli con la massima
sollecitudine, perché "non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i
malati".
-
Perciò deve agire come un medico sapiente, inviando in qualità di
amici fidati dei monaci anziani e prudenti
-
che quasi inavvertitamente confortino il fratello vacillante e lo
spingano a un'umile riparazione, incoraggiandolo perché "non sia sommerso
da eccessiva tristezza",
-
in altre parole "gli usi maggiore carità", come dice
l'Apostolo "e tutti preghino per lui".
-
Bisogna che l'abate sia molto vigilante e si impegni premurosamente
con tutta l'accortezza e la diligenza di cui è capace per non perdere nessuna
delle pecorelle a lui affidate.
-
Sia pienamente cosciente di essersi assunto il compito di curare anime
inferme e non di dover esercitare il dominio sulle sane
-
e consideri con timore il severo oracolo del profeta per bocca del
quale il Signore dice: "Ciò che vedevate pingue lo prendevate; ciò invece
che era debole lo gettavate via".
-
Imiti piuttosto la misericordia del buon Pastore che, lasciate sui
monti le novantanove pecore, andò alla ricerca dell'unica che si era smarrita
-
ed ebbe tanta compassione della sua debolezza che si degnò di
caricarsela sulle sue sacre spalle e riportarla così all'ovile.
Capitolo
XXVIII -
La procedura nei confronti degli ostinati
-
Se un monaco, già ripreso più volte per una qualsiasi colpa, non si
correggerà neppure dopo la scomunica, si ricorra a una punizione ancor più
severa e cioè al castigo corporale.
-
Ma se neppure così si emenderà o - non sia mai! - montato in
superbia pretenderà persino di difendere il suo operato, l'abate si regoli come
un medico provetto,
-
ossia, dopo aver usato i linimenti e gli unguenti delle esortazioni, i
medicamenti delle Scritture divine e, infine, la cauterizzazione della scomunica
e le piaghe delle verghe,
-
vedendo che la sua opera non serve a nulla, si affidi al rimedio più
efficace e cioè alla preghiera sua e di tutta la comunità
-
per ottenere dal Signore che tutto può la salvezza del fratello.
-
Se, però, nemmeno questo tentativo servirà a guarirlo, l'abate,
metta mano al ferro del chirurgo, secondo quanto dice l'apostolo: "Togliete
di mezzo a voi quel malvagio"
-
e ancora: "Se l'infedele vuole andarsene, vada pure",
-
perché una pecora infetta non debba contagiare tutto il gregge.
Capitolo
XXIX - La
riammissione dei fratelli che hanno lasciato il monastero
-
Il monaco, che, dopo aver lasciato per propria colpa il monastero,
volesse ritornarvi, prometta anzitutto di correggersi definitivamente dalla colpa
per la quale è uscito
-
e a questa condizione sia ricevuto all'ultimo posto per provare la sua
umiltà.
-
Se poi uscisse di nuovo sia riammesso fino alla terza volta, ma sappia
che in seguito gli sarà negata ogni possibilità di ritorno.
|
Capitolo
XXX - La
correzione dei ragazzi
-
Ogni età e intelligenza dev'essere trattata in modo adeguato.
-
Perciò i bambini e gli adolescenti e quelli che non sono in grado di
comprendere la gravità della scomunica,
-
quando commettono qualche colpa siano puniti con gravi digiuni o
repressi con castighi corporali, perché si correggano.
Capitolo
XXXI - Il
cellerario del monastero
-
Come cellerario del monastero si scelga un fratello saggio, maturo,
sobrio, che non ecceda nel mangiare e non abbia un carattere superbo, turbolento,
facile alle male parole, indolente e prodigo,
-
ma sia timorato di Dio e un vero padre per la comunità.
-
Si prenda cura di tutto e di tutti.
-
Non faccia nulla senza il permesso dell'abate
-
ed esegua fedelmente gli ordini ricevuti.
-
Non dia ai fratelli motivo di irritarsi e,
-
se qualcuno di loro avanzasse pretese assurde, non lo mortifichi
sprezzantemente, ma sappia respingere la richiesta inopportuna con ragionevolezza
e umiltà.
-
Custodisca l'anima sua, ricordandosi sempre di quella sentenza
dell'apostolo che dice: "Chi avrà esercitato bene il proprio ministero, si
acquisterà un grado onorevole".
-
Si interessi dei malati, dei ragazzi, degli ospiti e dei poveri con la
massima diligenza, ben sapendo che nel giorno del giudizio dovrà rendere conto
di tutte queste persone affidate alle sue cure.
-
Tratti gli oggetti e i beni del monastero con la reverenza dovuta ai
vasi sacri dell'altare
-
e non tenga nulla in poco conto.
-
Non si lasci prendere dall'avarizia né si abbandoni alla prodigalità,
ma agisca sempre con criterio e secondo le direttive dell'abate.
-
Soprattutto sia umile e se non può concedere quanto gli è stato
richiesto, dia almeno una risposta caritatevole,
-
perché sta scritto: "Una buona parola vale più del migliore dei
doni".
-
Si interessi solo delle incombenze che gli ha affidato l'abate, senza
ingerirsi in quelle da cui lo ha escluso.
-
Distribuisca ai fratelli la porzione di vitto prestabilita senza
alterigia o ritardi, per non dare motivo di scandalo, ricordandosi di quello che
toccherà, secondo la divina promessa, a "chi avrà scandalizzato uno di
questi piccoli".
-
Se la comunità fosse numerosa, gli si concedano degli aiuti con la
cui collaborazione possa svolgere serenamente il compito che gli è stato
assegnato.
-
Nelle ore fissate si distribuisca quanto si deve dare e si chieda
quello che si deve chiedere,
-
in modo che nella casa di Dio non ci sia alcun motivo di turbamento o
di malcontento.
Capitolo
XXXII -
Gli arnesi e gli oggetti del monastero
-
Per la cura di tutto quello che il monastero possiede di arnesi, vesti
o qualsiasi altro oggetto l'abate scelga dei monaci su cui possa contare a motivo
della loro vita virtuosa
-
e affidi loro i singoli oggetti nel modo che gli sembrerà più
opportuno, perché li custodiscano e li raccolgano.
-
Tenga l'inventario di tutto, in maniera che, quando i vari monaci si
succedono negli incarichi loro assegnati, egli sappia che cosa dà e che cosa
riceve.
-
Se poi qualcuno trattasse con poca pulizia o negligenza le cose del
monastero, venga debitamente rimproverato;
-
nel caso che non si corregga, sia sottoposto alle punizioni previste
dalla Regola.
Capitolo
XXXIII -
Il "vizio" della proprietà
-
Nel monastero questo vizio dev'essere assolutamente stroncato fin
dalle radici,
-
sicché nessuna si azzardi a dare o ricevere qualche cosa senza il
permesso dell'abate,
-
né pensi di avere nulla di proprio, assolutamente nulla, né un
libro, né un quaderno o un foglio di carta e neppure una matita,
-
dal momento che ai monaci non è più concesso di disporre liberamente
neanche del proprio corpo e della propria volontà,
-
ma bisogna sperare tutto il necessario dal padre del monastero e non
si può tenere presso di sé alcuna cosa che l'abate che l'abate non abbia dato o
permesso.
-
"Tutto sia comune a tutti", come dice la Scrittura, e
"nessuno dica o consideri propria qualsiasi cosa".
-
Se poi si scoprisse qualcuno che si compiace in questo pessimo vizio,
bisognerà rimproverarlo una prima e una seconda volta
-
e, nel caso che non si corregga, infliggergli il dovuto castigo.
Capitolo
XXXIV -
La distribuzione del necessario
-
"Si distribuiva a ciascuno proporzionatamente al bisogno",
si legge nella Scrittura.
-
Con questo non intendiamo che si debbano fare preferenze - Dio ce ne
liberi! - ma che si tenga conto delle eventuali debolezze;
-
quindi chi ha meno necessità, ringrazi Dio senza amareggiarsi,
-
mentre chi ha maggiori bisogni, si umili per la propria debolezza,
invece di montarsi la testa per le attenzioni di cui è fatto oggetto
-
e così tutti i membri della comunità staranno in pace.
-
Soprattutto bisogna evitare che per qualsiasi motivo faccia la sua
comparsa il male della mormorazione, sia pure attraverso una parola o un gesto.
-
E, nel caso che se ne trovi colpevole qualcuno, sia punito con maggior
rigore.
Capitolo
XXXV - Il
servizio della cucina
-
I fratelli si servano a vicenda e nessuno sia dispensato dal servizio
della cucina, se non per malattia o per un impegno di maggiore importanza,
-
perché così si acquista un merito più grande e si accresce la carità.
-
Ma i più deboli siano provveduti di un aiuto, in modo da non dover
compiere questo servizio di malumore;
-
anzi, è bene che, in generale, tutti abbiano degli aiuti in
corrispondenza alla grandezza della comunità e alle condizioni locali.
-
In una comunità numerosa il cellerario sia dispensato dal servizio
della cucina, come anche i fratelli che, secondo quanto abbiamo già detto, sono
occupati in compiti di maggiore utilità,
-
ma tutti gli altri si servano a vicenda con carità.
-
Al sabato il monaco che termina il suo turno settimanale, faccia le
pulizie.
-
Si lavino gli asciugatoi usati dai fratelli per le mani e i piedi.
-
Tanto il monaco che finisce il servizio, quanto quello che lo
comincia, lavino i piedi a tutti.
-
Il primo consegni puliti e intatti al cellerario tutti gli utensili di
cui si è servito nel proprio turno.
-
A sua volta il cellerario li affidi al fratello che entra in servizio,
in modo da sapere quello che dà e quello che riceve.
-
Un'ora prima del pranzo, ciascuno dei monaci di turno in cucina
riceva, oltre la quantità di cibo stabilita per tutti, un po' di pane e di vino,
-
per poter poi all'ora del pranzo servire i propri fratelli senza
lamentele né grave disagio;
-
ma nei giorni festivi aspettino fino al termine della celebrazione
eucaristica.
-
Alla domenica, subito dopo le Lodi, quelli che iniziano e quelli che
terminano il servizio della cucina si inginocchino in coro davanti a tutti,
chiedendo che preghino per loro.
-
Chi ha finito il proprio turno reciti il versetto: "Sii
benedetto, Signore Dio, che mi hai aiutato e mi hai consolato".
-
E quando lo avrà ripetuto tre volte e avrà ricevuto la benedizione,
continui il fratello che gli succede nel servizio, dicendo: "O Dio, vieni in
mio soccorso; Signore, affrettati ad aiutarmi";
-
anche questo versetto sarà ripetuto tre volte da tutti, dopo di che
il fratello riceverà la benedizione e inizierà il suo turno.
Capitolo
XXXVI - I
fratelli infermi
-
L'assistenza agli infermi deve avere la precedenza e la superiorità
su tutto, in modo che essi siano serviti veramente come Cristo in persona,
-
il quale ha detto di sé: "Sono stato malato e mi avete
visitato",
-
e: "Quello che avete fatto a uno di questi piccoli, lo avete
fatto a me".
-
I malati però riflettano, a loro volta, che sono serviti per amore di
Dio e non opprimano con eccessive pretese i fratelli che li assistono,
-
ma comunque bisogna sopportarli con grande pazienza, poiché per mezzo
loro si acquista un merito più grande.
-
Quindi l'abate vigili con la massima attenzione perché non siano
trascurati sotto alcun riguardo.
-
Per i monaci ammalati ci sia un locale apposito e un infermiere
timorato di Dio, diligente e premuroso.
-
Si conceda loro l'uso dei bagni, tutte le volte che ciò si renderà
necessario a scopo terapeutico; ai sani, invece, e specialmente ai più giovani
venga consentito più raramente.
-
I malati più deboli avranno anche il permesso di mangiare carne per
potersi rimettere in forze; però, appena ristabiliti, si astengano tutti dalla
carne come al solito.
-
Ma la più grande preoccupazione dell'abate deve essere che gli
infermi non siano trascurati dal cellerario e dai fratelli che li assistono,
perché tutte le negligenze commesse dai suoi discepoli ricadono su di lui.
Capitolo
XXXVII -
I vecchi e i ragazzi
-
Benché la stessa natura umana sia portata alla compassione per queste
due età, dei vecchi, cioè, e dei ragazzi, bisogna che se ne interessi anche
l'autorità della Regola.
-
Si tenga sempre conto della loro fragilità e, per quanto riguarda i
cibi, non siano affatto obbligati all'austerità della Regola,
-
Ma, con amorevole indulgenza, si conceda loro un anticipo sulle ore
fissate per i pasti.
Capitolo XXXVIII -
La lettura in refettorio
-
Alla mensa dei monaci non deve mai mancare la lettura, né è permesso
di leggere a chiunque abbia preso a caso un libro qualsiasi, ma bisogna che ci
sia un monaco incaricato della lettura, che inizi il suo compito alla domenica.
-
Dopo la Messa e la comunione, il lettore che entra in funzione si
raccomandi nel coro alle preghiere dei fratelli, perché Dio lo tenga lontano da
ogni tentazione di vanità;
-
e tutti ripetano per tre volte il versetto: "Signore apri le mie
labbra e la mia bocca annunzierà la tua lode", che è stato intonato dal
lettore stesso,
-
il quale, dopo aver ricevuta così la benedizione, potrà iniziare il
proprio turno.
-
Nel refettorio regni un profondo silenzio, in modo che non si senta
alcun bisbiglio o voce, all'infuori di quella del lettore.
-
I fratelli si porgano a vicenda il necessario per mangiare e per bere,
senza che ci sia bisogno di chiedere nulla.
-
Se poi proprio occorresse qualche cosa, invece che con la voce, si
chieda con un leggero rumore che serva da richiamo.
-
E nessuno si permetta di fare delle domande sulla lettura o su
qualsiasi altro argomento, per non offrire occasione di parlare,
-
a meno che il superiore non ritenga opportuno di dire poche parole di
edificazione.
-
Prima di iniziare la lettura, il monaco di turno prenda un po' di vino
aromatico, sia per rispetto alla santa Comunione, sia per evitare che il digiuno
gli pesi troppo,
-
e poi mangi con i fratelli che prestano servizio in cucina e in
refettorio.
-
Però i monaci non devono leggere e cantare tutti secondo l'ordine di
anzianità, ma questo incarico va affidato solo a coloro che sono in grado di
edificare i propri ascoltatori.
Capitolo
XXXIX -
La misura del cibo
-
Volendo tenere il debito conto delle necessità individuali, riteniamo
che per il pranzo quotidiano fissato - a seconda delle stagioni - dopo Sesta o
dopo Nona, siano sufficienti due pietanze cotte,
-
in modo che chi eventualmente non fosse in condizioni di prenderne
una, possa servirsi dell'altra.
-
Dunque a tutti i fratelli devono bastare due pietanze cotte e se ci
sarà la possibilità di procurarsi della frutta o dei legumi freschi, se ne
aggiunga una terza.
-
Quanto al pane penso che basti un chilo abbondante al giorno, sia
quando c'è un solo pasto, che quando c'è pranzo e cena.
-
In quest'ultimo caso il cellerario ne metta da parte un terzo per
distribuirlo a cena.
-
Nel caso che il lavoro quotidiano sia stato più gravoso del solito,
se l'abate lo riterrà opportuno, avrà piena facoltà di aggiungere un piccolo
supplemento,
-
purché si eviti assolutamente ogni abuso e il monaco si guardi
dall'ingordigia.
-
Perché nulla è tanto sconveniente per un cristiano, quanto gli
eccessi della tavola,
-
come dice lo stesso nostro Signore: "State attenti che il vostro
cuore non sia appesantito dal troppo cibo".
-
Quanto poi ai ragazzi più piccoli, non si serva loro la medesima
porzione, ma una quantità minore, salvaguardando in tutto la sobrietà.
-
Tutti infine si astengano assolutamente dalla carne di quadrupedi, a
eccezione dei malati molto deboli.
|
Capitolo
XL - La
misura del vino
-
"Ciascuno ha da Dio il proprio dono, chi in un modo, chi in un
altro"
-
ed è questo il motivo per cui fissiamo la quantità del vitto altrui
con una certa perplessità.
-
Tuttavia, tenendo conto della cagionevole costituzione dei più
gracili, crediamo che a tutti possa bastare un quarto di vino a testa.
-
Quanto ai fratelli che hanno ricevuto da Dio la forza di astenersene
completamente, sappiano che ne riceveranno una particolare ricompensa.
-
Se però le esigenze locali o il lavoro o la calura estiva
richiedessero una maggiore quantità, sia in facoltà del superiore concederla,
badando sempre a evitare la sazietà e ancor più l'ubriachezza.
-
Per quanto si legga che il vino non è fatto per i monaci, siccome
oggi non è facile convincerli di questo, mettiamoci almeno d'accordo sulla
necessità di non bere fino alla sazietà, ma più moderatamente,
-
perché "il vino fa apostatare i saggi".
-
I monaci poi che risiedono in località nelle quali è impossibile
procurarsi la suddetta misura, ma se ne trova solo una quantità molto minore o
addirittura nulla, benedicano Dio e non mormorino:
-
è questo soprattutto che mi preme di raccomandare, che si guardino
dalla mormorazione.
Capitolo
XLI -
L'orario dei pasti
-
Dalla santa Pasqua fino a Pentecoste i fratelli pranzino all'ora di
Sesta, cioè a mezzogiorno, e cenino la sera.
-
Invece da Pentecoste in poi, per tutta l'estate, se non sono impegnati
nei lavori agricoli o sfibrati dalla calura estiva, al mercoledì e al venerdì
digiunino sino all'ora di Nona, cioè fin dopo le 14
-
e negli altri giorni pranzino all'ora di Sesta.
-
Ma nel caso che abbiano da lavorare nei campi o che il caldo sia
eccessivo, potranno pranzare tutti i giorni alle 12, secondo quanto stabilirà
paternamente l'abate.
-
Così questi regoli e disponga tutto in modo che le anime si salvino e
i monaci possano compiere il proprio dovere senza un motivo fondato di
mormorazione.
-
Dal 14 settembre fino all'inizio della Quaresima pranzino sempre
all'ora di Nona.
-
Durante la Quaresima, poi, fino a Pasqua pranzino all'ora di Vespro:
-
questo Ufficio però dev'essere celebrato a un'ora tale da non aver
bisogno di accendere il lume durante il pranzo e poter terminare mentre è ancora
giorno.
-
Anzi, in ogni stagione, sia l'ora del pranzo che quella della cena
devono essere fissate in maniera che tutto si possa fare con la luce del sole.
Capitolo
XLII - Il
silenzio dopo compieta
-
I monaci devono custodire sempre il silenzio con amore, ma soprattutto
durante la notte.
-
Perciò in ogni periodo dell'anno, sia di digiuno oppure no, si
procederà nel modo seguente:
-
se non si digiuna, appena alzati da cena, i monaci si riuniscano tutti
insieme e uno di loro legga le Conferenze o le Vite dei Padri o qualche altra
opera di edificazione,
-
ma non i primi sette libri della Bibbia e neppure quelli dei Re, perché
ai temperamenti impressionabili non fa bene ascoltare a quell'ora i suddetti
testi scritturistici, che però si dovranno leggere in altri momenti;
-
se invece fosse giorno di digiuno, dopo la celebrazione dei Vespri e
un breve intervallo, vadano direttamente alla lettura di cui abbiamo parlato
-
e leggano quattro o cinque pagine o quanto è consentito dal tempo a
disposizione,
-
perché durante questo intervallo della lettura possano radunarsi
tutti, compresi quelli che fossero eventualmente stati occupati in qualche
incombenza.
-
Quando saranno tutti riuniti, dicano insieme Compieta, all'uscita
dalla quale non sia più permesso ad alcuno di pronunciare una parola.
-
Chiunque sia colto a trasgredire questa regola del silenzio venga
severamente punito,
-
eccetto il caso in cui sopraggiungano degli ospiti o l'abate abbia
dato un ordine a un monaco;
-
ma anche in questa eventualità bisogna procedere con la massima
gravità e il debito riserbo.
Capitolo
XLIII -
La puntualità nell'Ufficio divino e in refettorio
-
All'ora dell'Ufficio divino, appena si sente il segnale, lasciato
tutto quello che si ha tra le mani, si accorra con la massima sollecitudine,
-
ma nello stesso tempo con gravità, per non dare adito alla
leggerezza.
-
In altre parole non si anteponga nulla all'opera di Dio".
-
Se qualcuno arriva all'Ufficio notturno dopo il Gloria del salmo 94,
che proprio per questo motivo vogliamo sia cantato molto lentamente e con pause,
non occupi il proprio posto nel coro,
-
ma si metta all'ultimo o in quella parte che l'abate avrà destinato
per questi negligenti, perché siano veduti da lui e da tutti,
-
e vi rimanga fino a quando, al termine del l'Ufficio divino, avrà
riparato dinanzi a tutta la comunità con una penitenza.
-
Abbiamo ritenuto opportuno far rimanere questi ritardatari all'ultimo
posto o in un canto, perché si correggano almeno per la vergogna di essere visti
da tutti.
-
Se, infatti, rimanessero fuori del coro, ci potrebbe essere qualcuno
che ritorna a dormire o si siede fuori o si mette a chiacchierare, dando così
occasione al demonio;
-
è bene invece che entrino, in modo da non perdere tutto l'Ufficio e
correggersi per l'avvenire.
-
Nelle Ore del giorno, invece, il monaco che arriva all'Ufficio divino
dopo il versetto o il Gloria del primo salmo, che segue lo stesso versetto, si
metta all'ultimo posto, secondo la norma precedente,
-
e non si permetta di unirsi al coro dei fratelli che salmeggiano, fino
a che non avrà riparato, a meno che l'abate gliene dia il permesso con il suo
perdono;
-
ma anche in questo caso il ritardatario dovrà riparare la sua
mancanza.
-
Per quanto riguarda il refettorio, chi non arriva prima del versetto
in modo che tutti uniti dicano il versetto stesso, preghino e poi siedano insieme
a mensa,
-
se la mancanza è dovuta a negligenza o cattiva volontà, sia
rimproverato fino a due volte.
-
Ma se ancora non si corregge, sia escluso dalla mensa comune
-
e mangi da solo, separato dalla comunità e senza la sua razione di
vino, fino a che non abbia riparato e si sia corretto.
-
Lo stesso castigo sia inflitto al monaco che non si trovi presente al
versetto che si recita dopo il pranzo.
-
Nessuno poi si permetta di mangiare o di bere qualcosa prima dell'ora
stabilita.
-
Ma il monaco che non avesse accettato ciò che gli era stato offerto
dal superiore, quando desidererà quello che ha rifiutato in precedenza o altro,
non ottenga assolutamente nulla fino a che non dimostri di essersi debitamente
corretto.
Capitolo
XLIV - La
riparazione degli scomunicati
-
Il monaco che per colpe gravi è stato escluso dal coro e della mensa
comune, al termine dell'Ufficio divino si prostri in silenzio davanti alla porta
del coro,
-
rimanendo lì disteso con la faccia a terra dinanzi a tutti quelli che
escono
-
e continui a fare in questo modo fino a quando l'abate non giudichi
che ha sufficientemente riparato.
-
Quando poi sarà chiamato dall'abate, si getti ai piedi di lui e di
tutti i fratelli per chiedere le loro preghiere.
-
Allora, se l'abate vorrà, potrà essere riammesso in coro al suo
posto o a quello designato dallo stesso abate,
-
senza permettersi, però, di recitare un salmo, una lezione o altro, a
meno che l'abate glielo ordini.
-
Inoltre al termine di tutte le Ore dell'Ufficio divino, si prostri a
terra lì dove si trova
-
e faccia così la sua riparazione, finché l'abate non metterà fine a
questa penitenza.
-
Quelli, invece, che per colpe più leggere sono stati esclusi solo
dalla mensa, facciano penitenza in coro per il tempo stabilito dall'abate
-
e la ripetano fin tanto che questi li benedica e dica: Basta!
Capitolo
XLV - La
riparazione per gli errori commessi in coro
-
Se un monaco commette un errore mentre recita un salmo, un
responsorio, un'antifona o una lezione e non si umilia davanti a tutti con una
penitenza, sia sottoposto a una punizione più severa,
-
perché non ha voluto correggersi umilmente dell'errore commesso per
negligenza.
-
Nel caso dei ragazzi, invece, per una colpa di questo genere si
ricorra al castigo corporale.
Capitolo
XLVI - La
riparazione per le altre mancanze
-
Se, mentre è impegnato in un qualsiasi lavoro in cucina, in dispensa,
nel proprio servizio, nel forno, nell'orto, in qualche attività o si trova in un
altro luogo qualunque, un monaco commette uno sbaglio,
-
rompe o perde un oggetto o incorre comunque in una mancanza
-
e non si presenta subito all'abate e alla comunità per riparare
spontaneamente e confessare la propria colpa,
-
sarà sottoposto a una punizione più severa, quando il fatto verrà
reso noto da altri.
-
Ma se il movente segreto del peccato fosse nascosto nell'intimo della
coscienza, lo manifesti solo all'abate o a qualche monaco anziano,
-
che sappia curare le miserie proprie e altrui senza svelarle e
renderle di pubblico dominio.
Capitolo
XLVII -
Il segnale per l'Ufficio divino
-
Bisogna che l'abate si assuma personalmente il compito di dare il
segnale per l'Ufficio divino, oppure lo affidi a un monaco diligente in modo che
tutto avvenga regolarmente nelle ore fissate.
-
L'intonazione dei salmi e delle antifone, secondo l'ordine
prestabilito, spetta, dopo l'abate, ai monaci appositamente designati.
-
E nessuno si permetta di cantare o di leggere all'infuori di chi è
capace di farlo in maniera da edificare i suoi ascoltatori;
-
inoltre questo compito dev'essere svolto con umiltà, gravità e
reverenza e solo dietro incarico dell'abate.
Capitolo
XLVIII -
Il lavoro quotidiano
-
L'ozio è nemico dell'anima, perciò i monaci devono dedicarsi al
lavoro in determinate ore e in altre, pure prestabilite, allo studio della parola
di Dio.
-
Quindi pensiamo di regolare gli orari di queste due attività
fondamentali nel modo seguente:
-
da Pasqua fino al 14 settembre, al mattino verso le 5 quando escono da
Prima, lavorino secondo le varie necessità fino alle 9;
-
dalle 9 fino all'ora di Sesta si dedichino allo studio della parola di
Dio.
-
Dopo l'Ufficio di Sesta e il pranzo, quando si alzano da tavola,
riposino nei rispettivi letti in assoluto silenzio e, se eventualmente qualcuno
volesse leggere per proprio conto, lo faccia in modo da non disturbare gli altri.
-
Si celebri Nona con un po' di anticipo, verso le 14, e poi tutti
riprendano il lavoro assegnato dall'obbedienza fino all'ora di Vespro.
-
Ma se le esigenze locali o la povertà richiedono che essi si occupino
personalmente della raccolta dei prodotti agricoli, non se ne lamentino,
-
perché i monaci sono veramente tali, quando vivono del lavoro delle
proprie mani come i nostri padri e gli Apostoli.
-
Tutto però si svolga con discrezione, in considerazione dei più
deboli.
-
Dal 14 settembre, poi, fino al principio della Quaresima, si
applichino allo studio fino alle 9,
-
quando celebreranno l'ora di Terza, dopo la quale tutti saranno
impegnati nei rispettivi lavori fino a Nona, e cioè alle 14.
-
Al primo segnale di Nona, ciascuno interrompa il proprio lavoro per
essere pronto al suono del secondo segnale.
-
Dopo il pranzo si dedichino alla lettura personale o allo studio dei
salmi.
-
Durante la Quaresima leggano dall'alba fino alle 9 inoltrate e poi
lavorino in conformità agli ordini ricevuti fino verso le 4 pomeridiane.
-
In quei giorni di Quaresima ciascuno riceva un libro dalla biblioteca
e lo legga ordinatamente da cima a fondo.
-
I suddetti libri devono essere distribuiti all'inizio della Quaresima.
-
E per prima cosa bisognerà incaricare uno o due monaci anziani di
fare il giro del monastero nelle ore in cui i fratelli sono occupati nello
studio,
-
per vedere se per caso ci sia qualche monaco indolente, che, invece di
dedicarsi allo studio, perda, tempo oziando e chiacchierando e quindi, oltre a
essere improduttivo per sé, distragga anche gli altri.
-
Se si trovasse - non sia mai! - un fratello che si comporta in questo
modo, sia rimproverato una prima e una seconda volta,
-
ma se non si corregge, gli si infligga una punizione prevista dalla
Regola, in modo da incutere anche negli altri un salutare timore.
-
Non è neppure permesso che un monaco si trovi con un altro fuori del
tempo stabilito.
-
Anche alla domenica si dedichino tutti allo studio della parola di
Dio, a eccezione di quelli destinati ai vari servizi.
-
Ma se ci fosse qualcuno tanto negligente e fannullone da non volere o
poter studiare o leggere, gli si dia qualche lavoro da fare, perché non rimanga
in ozio.
-
Infine ai monaci infermi o cagionevoli si assegni un lavoro o
un'attività che non li lasci nell'inazione e nello stesso tempo non li sfinisca
per l'eccessiva fatica, spingendoli ad andarsene,
-
poiché l'abate ha il dovere di tener conto della loro debolezza.
Capitolo XLIX - La
quaresima dei monaci
-
Anche se è vero che la vita del monaco deve avere sempre un carattere
quaresimale,
-
visto che questa virtù è soltanto di pochi, insistiamo
particolarmente perché almeno durante la Quaresima ognuno vigili con gran
fervore sulla purezza della propria vita,
-
profittando di quei santi giorni per cancellare tutte le negligenze
degli altri periodi dell'anno.
-
E questo si realizza degnamente, astenendosi da ogni peccato e
dedicandosi con impegno alla preghiera accompagnata da lacrime di pentimento,
allo studio della parola di Dio, alla compunzione del cuore e al digiuno.
-
Perciò durante la Quaresima aggiungiamo un supplemento al dovere
ordinario del nostro servizio, come, per es., preghiere particolari, astinenza
nel mangiare o nel bere,
-
in modo che ognuno di noi possa di propria iniziativa offrire a Dio
"con la gioia dello Spirito Santo" qualche cosa di più di quanto deve
già per la sua professione monastica;
-
si privi cioè di un po' di cibo, di vino o di sonno, mortifichi la
propria inclinazione alle chiacchiere e allo scherzo e attenda la santa Pasqua
con l'animo fremente di gioioso desiderio.
-
Ma anche ciò che ciascuno vuole offrire personalmente a Dio dev'essere
prima sottoposto umilmente all'abate e poi compiuto con la sua benedizione e
approvazione,
-
perché tutto quello che si fa senza il permesso dell'abate sarà
considerato come presunzione e vanità, anziché come merito.
-
Perciò si deve far tutto con l'autorizzazione dell'abate.
|
Capitolo
L - I
monaci che lavorano lontano o sono in viaggio
-
I fratelli, che lavorano molto lontano e non possono essere presenti
in coro nell'ora fissata per l'Ufficio divino,
-
se l'impossibilità in cui si trovano è stata effettivamente
accettata dall'abate,
-
recitino pure l'Ufficio divino sul posto di lavoro, mettendosi in
ginocchio per la reverenza dovuta a Dio.
-
Così pure quelli, che sono mandati in viaggio, non lascino passare le
ore stabilite per l'Ufficio, ma lo recitino come meglio possono e non trascurino
l'adempimento del dovere inerente al loro sacro servizio.
Capitolo
LI - I
monaci che si recano nelle vicinanze
-
Il monaco, che viene mandato fuori per qualche commissione e conta di
tornare in monastero nella stessa giornata, non si permetta di mangiare fuori,
anche se viene pregato con insistenza da qualsiasi persona,
-
a meno che l'abate non gliene abbia dato il permesso.
-
Se contravverrà a questa prescrizione, sarà scomunicato.
Capitolo
LII - La
chiesa del monastero
-
La chiesa sia quello che dice il suo nome, quindi in essa non si
faccia né si riponga altro.
-
Alla fine dell'Ufficio divino escano tutti in perfetto silenzio e con
grande rispetto per Dio,
-
in modo che, se un monaco volesse rimanere a pregare. privatamente,
non sia impedito dall'indiscrezione altrui.
-
Se, però, anche in un altro momento qualcuno desidera pregare per
proprio conto, entri senz'altro e preghi, non a voce alta, ma con lacrime e
intimo ardore.
-
Perciò, come abbiamo detto, chi non intende dedicarsi all'orazione si
guardi bene dal trattenersi in chiesa dopo la celebrazione del divino Ufficio,
per evitare che altri siano disturbati dalla sua presenza.
Capitolo
LIII -
L'accoglienza degli ospiti
-
Tutti gli ospiti che giungono in monastero siano ricevuti come Cristo,
poiché un giorno egli dirà: "Sono stato ospite e mi avete accolto"
-
e a tutti si renda il debito onore, ma in modo particolare ai nostri
confratelli e ai pellegrini.
-
Quindi, appena viene annunciato l'arrivo di un ospite, il superiore e
i monaci gli vadano incontro, manifestandogli in tutti i modi il loro amore;
-
per prima cosa preghino insieme e poi entrino in comunione con lui,
scambiandosi la pace.
-
Questo bacio di pace non dev'essere offerto prima della preghiera per
evitare le illusioni diaboliche.
-
Nel saluto medesimo si dimostri già una profonda umiltà verso gli
ospiti in arrivo o in partenza,
-
adorando in loro, con il capo chino o il corpo prostrato a terra, lo
stesso Cristo, che così viene accolto nella comunità.
-
Dopo questo primo ricevimento, gli ospiti siano condotti a pregare e
poi il superiore o un monaco da lui designato si siedano insieme con loro.
-
Si legga all'ospite un passo della sacra Scrittura, per sua
edificazione, e poi gli si usino tutte le attenzioni che può ispirare un
fraterno e rispettoso senso di umanità.
-
Se non è uno dei giorni in cui il digiuno non può essere violato, il
superiore rompa pure il suo digiuno per far compagnia all'ospite,
-
mentre i fratelli continuino a digiunare come al solito.
-
L'abate versi personalmente l'acqua sulle mani degli ospiti per la
consueta lavanda;
-
lui stesso, poi, e tutta la comunità lavino i piedi a ciascuno degli
ospiti
-
e al termine di questo fraterno servizio dicano il versetto:
"Abbiamo ricevuto la tua misericordia, o Dio, nel mezzo del tuo
Tempio".
-
Specialmente i poveri e i pellegrini siano accolti con tutto il
riguardo e la premura possibile, perché è proprio in loro che si riceve Cristo
in modo tutto particolare e, d'altra parte, l'imponenza dei ricchi incute
rispetto già di per sé.
-
La cucina dell'abate e degli ospiti sia a parte, per evitare che i
monaci siano disturbati dall'arrivo improvviso degli ospiti, che non mancano mai
in monastero.
-
Il servizio di questa cucina sia affidato annualmente a due fratelli,
che sappiano svolgerlo come si deve.
-
A costoro si diano anche degli aiuti, se ce n'è bisogno, perché
servano senza mormorare, ma, a loro volta, quando hanno meno da fare, vadano a
lavorare dove li manda l'obbedienza.
-
E non solo in questo caso, ma nei confronti di tutti i fratelli
impegnati in qualche particolare servizio del monastero, si segua un tale
principio
-
e cioè che, se occorre, si concedano loro degli aiuti, mentre, una
volta terminato il proprio lavoro, essi devono tenersi disponibili per qualsiasi
ordine.
-
Così pure la foresteria, ossia il locale destinato agli ospiti, sia
affidata a un monaco pieno di timor di Dio:
-
in essa ci siano dei letti forniti di tutto il necessario e la casa di
Dio sia governata con saggezza da persone sagge.
-
Nessuno, poi, a meno che ne abbia ricevuto l'incarico, prenda contatto
o si intrattenga con gli ospiti,
-
ma se qualcuno li incontra o li vede, dopo averli salutati umilmente
come abbiamo detto e aver chiesta la benedizione, passi oltre, dichiarando di non
avere il permesso di parlare con gli ospiti.
Capitolo
LIV - La
distribuzione delle lettere e dei regali destinati ai singoli monaci
-
Senza il consenso dell'abate nessun monaco può ricevere dai suoi
parenti o da qualunque altra persona lettere, oggetti di devozione o altri
piccoli regali e neanche farne a sua volta o scambiarli con i confratelli.
-
E anche se i parenti gli mandassero qualche dono, non si permetta di
accettarlo, senza averne prima informato l'abate.
-
Ma questi, anche nel caso che dia il suo consenso per ricevere il
dono, può sempre assegnarlo a chi vuole
-
e il monaco a cui era destinato non deve farsi di questo un motivo di
afflizione, per non dare occasione al diavolo.
-
Se poi qualcuno si provasse a comportarsi diversamente, sia sottoposto
ai castighi dalla Regola.
Capitolo
LV - Gli
abiti e le calzature dei monaci
-
Bisogna dare ai monaci degli abiti adatti alle condizioni e al clima
della località in cui abitano,
-
perché nelle zone fredde si ha maggiore necessità di coprirsi e in
quelle calde di meno:
-
il giudizio al riguardo è di competenza dell'abate.
-
Comunque riteniamo che nei climi temperati bastino per ciascun monaco
una tonaca e una cocolla,
-
quest'ultima di lana pesante per l'inverno e leggera o lisa per
l'estate;
-
inoltre lo scapolare per il lavoro e come calzature, scarpe e calze.
-
Quanto al colore e alla qualità di tutti questi indumenti, i monaci
non devono attribuirvi eccessiva importanza, accontentandosi di quello che si può
trovare sul posto ed è più a buon mercato.
-
L'abate però stia attento alla misura degli abiti, in modo che non
siano troppo corti, ma della taglia di chi li indossa.
-
I monaci che ricevono gli indumenti nuovi, restituiscano i vecchi, che
devono essere riposti nel guardaroba per poi distribuirli ai poveri.
-
Infatti a ogni monaco bastano due cocolle e due tonache per potersi
cambiare la notte e per lavarle;
-
il di più è superfluo e dev'essere eliminato.
-
Anche le calze e qualsiasi altro oggetto usato dev'essere restituito,
quando ne viene assegnato uno nuovo.
-
I monaci, che sono mandati in viaggio, ricevano dal guardaroba gli
indumenti occorrenti, che restituiranno poi lavati al ritorno.
-
Anche le cocolle e le tonache per il viaggio siano un po' migliori di
quelle portate usualmente; gli interessati le prendano in consegna dal
guardaroba, quando partono, e le restituiscano al ritorno.
-
Per la fornitura dei letti poi bastino un pagliericcio, una coperta di
grossa tela, un coltrone e un cuscino di paglia o di crine.
-
I letti, però, devono essere frequentemente ispezionati dall'abate,
per vedere se non ci sia nascosta qualche piccola proprietà personale.
-
E se si scoprisse qualcuno in possesso di un oggetto che non ha
ricevuto dall'abate, sia sottoposto a una gravissima punizione.
-
Ma, per strappare fin dalle radici questo vizio della proprietà,
l'abate distribuisca tutto il necessario
-
e cioè: cocolla, tonaca, calze, scarpe, cintura, coltello, ago,
fazzoletti e il necessario per scrivere, in modo da togliere ogni pretesto di
bisogno.
-
In questo, però, deve sempre tener presente quanto è detto negli
Atti degli Apostoli e cioè che "Si dava a ciascuno secondo le sue necessità".
-
Quindi prenda in considerazione le particolari esigenze dei più
deboli, anziché la malevolenza degli invidiosi.
-
Comunque, in tutte le sue decisioni si ricordi del giudizio di Dio.
Capitolo
LVI - La
mensa dell'abate
-
L'abate mangi sempre in compagnia degli ospiti e dei pellegrini.
-
Ma quando gli ospiti sono pochi, può chiamare alla sua mensa i monaci
che vuole.
-
Sarà bene tuttavia lasciare uno o due monaci anziani con la comunità
per il mantenimento della disciplina.
Capitolo
LVII - I
monaci che praticano un'arte o un mestiere
-
Se in monastero ci sono dei fratelli esperti in un'arte o in un
mestiere, li esercitino con la massima umiltà, purché l'abate lo permetta.
-
Ma se qualcuno di loro monta in superbia, perché gli sembra di
portare qualche utile al monastero,
-
sia tolto dal suo lavoro e non gli sia più concesso di occuparsene, a
meno che rientri in se stesso, umiliandosi, e l'abate non glielo permetta di
nuovo.
-
Se poi si deve vendere qualche prodotto del lavoro di questi monaci,
coloro, che sono stati incaricati di trattare l'affare, si guardino bene da
qualsiasi disonestà.
-
Si ricordino sempre di Anania e Safira, per non correre il rischio che
la morte, subita da quelli nel corpo,
-
colpisca le anime loro e di tutte le persone, che hanno comunque
defraudato le sostanze del monastero.
-
Però nei prezzi dei suddetti prodotti non deve mai insinuarsi
l'avarizia,
-
ma bisogna sempre venderli un po' più a buon mercato dei secolari
-
"affinché in ogni cosa sia glorificato Dio".
Capitolo
LVIII -
Norme per l'accettazione dei fratelli
-
Quando si presenta un aspirante alla vita monastica, non bisogna
accettarlo con troppa facilità,
-
ma, come dice l'Apostolo: "Provate gli spiriti per vedere se
vengono da Dio".
-
Quindi, se insiste per entrare e per tre o quattro giorni dimostra di
saper sopportare con pazienza i rifiuti poco lusinghieri e tutte le altre
difficoltà opposte al suo ingresso, perseverando nella sua richiesta,
-
sia pure accolto e ospitato per qualche giorno nella foresteria.
-
Ma poi si trasferisca nel locale destinato ai novizi, perché vi
ricevano la loro formazione, vi mangino e vi dormano.
-
Ad essi venga inoltre preposto un monaco anziano, capace di
conquistare le anime, con l'incarico di osservarli molto attentamente.
-
In primo luogo bisogna accertarsi se il novizio cerca veramente Dio,
se ama l'Ufficio divino, l'obbedienza e persino le inevitabili contrarietà della
vita comune.
-
Gli si prospetti tutta la durezza e l'asperità del cammino che
conduce a Dio.
-
Se darà sicure prove di voler perseverare nella sua stabilità, dopo
due mesi gli si legga per intero questa Regola
-
e gli si dica: "Ecco la legge sotto la quale vuoi militare; se ti
senti di poterla osservare, entra; altrimenti, va' pure via liberamente".
-
Se persisterà ancora nel suo proposito, sia ricondotto nel suddetto
locale dei novizi e si metta la sua pazienza alla prova in tutti i modi
possibili.
-
Passati sei mesi, gli si legga di nuovo la Regola, perché prenda
coscienza dell'impegno che sta per assumersi.
-
E se continua a perseverare, dopo altri quattro mesi, gli si legga
ancora una volta la stessa Regola.
-
Se allora, dopo aver seriamente riflettuto, prometterà di essere
fedele in tutto e di obbedire a ogni comando, sia pure accolto nella comunità,
-
ma sappia che anche l'autorità della Regola gli vieta da quel giorno
di uscire dal monastero
-
e di sottrarsi al giogo della disciplina monastica che, in una così
prolungata deliberazione, ha avuto la possibilità di accettare o rifiutare
liberamente.
-
Al momento dell'ammissione faccia in coro, davanti a tutta la comunità,
solenne promessa di stabilità, conversione continua e obbedienza,
-
al cospetto di Dio e di tutti i suoi santi, in modo da essere
pienamente consapevole che, se un giorno dovesse comportarsi diversamente, sarà
condannato da Colui del quale si fa giuoco.
-
Di tale promessa stenda un documento sotto forma di domanda, rivolta
ai Santi, le cui reliquie sono conservate nella chiesa, e all'abate presente.
-
Scriva di suo pugno il suddetto documento o, se non è capace, lo
faccia scrivere da un altro, dietro sua esplicita richiesta, e lo firmi con un
segno, deponendolo poi sull'altare con le proprie mani.
-
Una volta depositato il documento sull'altare, il novizio intoni
subito il versetto: "Accoglimi, Signore, secondo la tua promessa e vivrò; e
non deludermi nella mia speranza".
-
Tutta la comunità ripeta per tre volte lo stesso versetto,
aggiungendovi alla fine il Gloria.
-
Poi il novizio si prostri ai piedi di ciascuno dei fratelli per
chiedergli di pregare per lui e da quel giorno sia considerato come un membro
della comunità.
-
Se possiede dei beni materiali, li distribuisca in precedenza ai
poveri o li doni al monastero con un atto ufficiale senza riservare per sé la
minima proprietà,
-
ben sapendo che da quel giorno in poi non sarà più padrone neanche
del proprio corpo.
-
Quindi, subito dopo, sia spogliato in coro delle vesti che indossa e
rivestito dell'abito monastico.
-
Ma gli indumenti di cui si è spogliato devono essere conservati nel
guardaroba,
-
in modo che, se in seguito dovesse - Dio non voglia!- cedere alla
suggestione diabolica e lasciare il monastero, sia mandato via senza l'abito
monastico.
-
Non gli si restituisca invece la domanda che l'abate ha ritirato
dall'altare, ma sia conservata in monastero.
Capitolo
LIX - I
piccoli oblati
-
Se qualche persona facoltosa volesse offrire il proprio figlio a Dio
nel monastero e il ragazzo è ancora piccino, i genitori stendano la domanda di
cui abbiamo parlato nel capitolo precedente
-
e l'avvolgano nella tovaglia dell'altare insieme con l'oblazione della
Messa e la mano del bimbo, offrendolo in questo modo.
-
Per quanto riguarda poi i loro beni, o nella domanda suddetta
promettano di non dargli mai nulla, né direttamente né per interposta persona,
né in qualsiasi altro modo, e neanche di dargli mai l'occasione di procurarsi
qualche sostanza,
-
oppure, se non intendono regolarsi secondo questa prassi e desiderano
offrire qualche cosa al monastero per la salute dell'anima loro,
-
facciano donazione dei beni che vogliono regalare al monastero,
riservandosene, se credono, l'usufrutto.
-
Così si precludano tutte le vie, in modo da non lasciare al ragazzo
alcun miraggio da cui possa esser tratto in inganno e - Dio non voglia! - in
perdizione, come ci ha insegnato l'esperienza.
-
La stessa procedura seguano anche i meno abbienti.
-
Quanto a coloro che non possiedono proprio nulla, facciano
semplicemente la domanda e offrano il loro figlioletto con l'oblazione della
Messa, alla presenza di testimoni.
|
Capitolo
LX - I
sacerdoti aspiranti alla vita monastica
-
Se qualche sacerdote chiede di essere ammesso nel monastero, non
bisogna affrettarsi troppo ad accogliere la sua richiesta.
-
Ma se continua a insistere in questa preghiera, sappia che dovrà
osservare tutta la disciplina della Regola,
-
senza la minima attenuazione, in modo che gli si possa dire con la
Scrittura: "Amico, che sei venuto a fare?".
-
Gli si conceda tuttavia di prender posto dopo l'abate, di dare la
benedizione e di recitare le preci finali, purché l'abate disponga così;
-
altrimenti non pretenda assolutamente nulla, anzi sia per tutti un
esempio di umiltà, ben sapendo di essere soggetto alla disciplina della Regola.
-
E se per caso nella comunità si dovesse trattare dell'assegnazione
delle cariche o di qualche altro affare,
-
occupi il posto che gli spetta corrispondentemente al suo ingresso in
monastero e non quello che gli è stato concesso in considerazione della sua
dignità sacerdotale.
-
Se poi qualche chierico, spinto dallo stesso desiderio, volesse essere
aggregato alla comunità, sia assegnato a un posto di un certo riguardo,
-
ma sempre a condizione che prometta anche lui l'osservanza della
Regola e la propria stabilità.
Capitolo
LXI -
L'accoglienza dei monaci forestieri
-
Se un monaco forestiero, giunto di lontano, vuole abitare nel
monastero in qualità di ospite
-
e si dimostra soddisfatto delle consuetudini locali,
-
accontentandosi con semplicità di quello che trova, senza disturbare
la comunità con le sue pretese, sia accolto per tutto il tempo che desidera.
-
Nel caso poi che egli rilevi qualche inconveniente o dia qualche
suggerimento, l'abate si chieda se il Signore non lo abbia mandato proprio per
questo.
-
E se in seguito vorrà fissare la sua stabilità nel monastero, non si
opponga un rifiuto a questa sua richiesta, tanto più che durante la sua
permanenza si è avuto modo di studiarne il comportamento.
-
Se però, quando era ospite si è dimostrato pieno di pretese e di
difetti, non solo non dev'essere aggregato alla comunità,
-
ma bisogna dirgli garbatamente di andarsene per evitare che le sue
miserie contagino anche gli altri.
-
Invece, se non merita di essere allontanato, non sia accolto e
incorporato nella comunità solo nel caso che ne faccia domanda,
-
ma sia addirittura invitato a rimanere, perché gli altri possano
trarre profitto dal suo esempio
-
e perché dappertutto si serve il medesimo Signore e si milita sotto
lo stesso Re.
-
Anzi, se l'abate lo ritiene degno, può anche assegnargli un posto un
po' elevato.
-
E non solamente un monaco, ma anche coloro che appartengono all'ordine
sacerdotale o al chiericato, l'abate può destinare a un posto superiore a quello
corrispondente al loro ingresso in monastero, se ha notato che la condotta lo
merita.
-
Si guardi però sempre dall'ammettere stabilmente nella sua comunità
un monaco proveniente da un monastero conosciuto, senza il consenso e le lettere
commendatizie del suo abate,
-
perché sta scritto: "Non fare agli altri quello che non vuoi che
sia fatto a te".
Capitolo
LXII - I
sacerdoti del monastero
-
Se un abate desidera che uno dei suoi monaci sia ordinato sacerdote o
diacono per il servizio della comunità scelga in essa un fratello degno di
esercitare tali funzioni.
-
Ma il monaco ordinato si guardi dalla vanità e dalla superbia
-
e non creda di poter fare altro che quello che gli ordina l'abate,
tenendo sempre presente che d'ora in poi dovrà essere maggiormente sottomesso
alla disciplina.
-
Né col pretesto del sacerdozio trascuri l'obbedienza alla Regola o la
disciplina, ma anzi progredisca sempre più nelle vie di Dio.
-
Conservi sempre il posto che gli spetta in corrispondenza del suo
ingresso in monastero,
-
tranne che per il ministero dell'altare, oppure nel caso che la scelta
della comunità o la volontà dell'abate l'abbiano promosso in considerazione
della sua vita esemplare.
-
Sappia però che deve osservare la disciplina prestabilita per i
decani e i superiori.
-
Se avrà la presunzione di agire diversamente, non sia più trattato
come un sacerdote, ma come un ribelle.
-
E nell'eventualità che, dopo essere stato ammonito non si
correggesse, si chiami a testimonio anche il vescovo.
-
Ma se neanche allora si emendasse e le sue colpe diventassero sempre
più evidenti, sia espulso dal monastero,
-
purché però sia stato così ostinato da non volersi sottomettere e
obbedire alla Regola.
Capitolo
LXIII -
L'ordine della comunità
-
Nella comunità ognuno conservi il posto che gli spetta secondo la
data del suo ingresso o l'esemplarità della sua condotta o la volontà
dell'abate.
-
Bisogna però che quest'ultimo non metta lo scompiglio nel gregge che
gli è stato affidato, prendendo delle disposizioni ingiuste come se esercitasse
un potere assoluto,
-
ma pensi sempre che dovrà rendere conto a Dio di tutte le sue
decisioni e azioni.
-
Dunque i monaci si succedano nel bacio di pace e nella comunione,
nell'intonare i salmi e nei posti in coro, secondo l'ordine stabilito dall'abate
o a essi spettante.
-
E in nessuna occasione l'età costituisca un criterio distintivo o
pregiudizievole per stabilire i posti,
-
perché Samuele e Daniele, quando erano ancora fanciulli, giudicarono
gli anziani.
-
Quindi, a eccezione di quelli che, come abbiamo già detto, l'abate
avrà promosso per ragioni superiori o degradato per motivi fondati, tutti gli
altri occupino sempre i posti determinati dalla data del rispettivo ingresso,
-
in modo che il monaco, arrivato - per esempio - in monastero alle 9,
sappia di essere più giovane di quello arrivato alle 8, quale che sia la sua età
e dignità.
-
Per quanto riguarda i ragazzi, invece, si osservi in tutto e per tutto
la relativa disciplina.
-
I più giovani, dunque, trattino con riguardo i più anziani, che a
loro volta li ricambino con amore.
-
Anche quando si chiamano tra loro, nessuno si permetta di rivolgersi
all'altro con il solo nome,
-
ma gli anziani diano ai giovani l'appellativo di "fratello"
e i giovani usino per gli anziani quello di "reverendo padre", come
espressione del loro rispetto filiale.
-
L'abate poi sia chiamato "signore" e "abate", non
perché si sia arrogato da sé un tale titolo, ma in onore e per amore di Cristo
del quale sappiamo per fede che egli fa le veci.
-
Da parte sua, però, rifletta sull'onore che gli viene tributato e se
ne dimostri degno.
-
Dovunque i fratelli si incontrano, il più giovane chieda la
benedizione al più anziano;
-
quando passa un monaco anziano, il più giovane si alzi e gli ceda il
posto, guardandosi bene dal rimettersi a sedere prima che l'anziano glielo
permetta,
-
in modo che si realizzi quanto è scritto: "Prevenitevi a vicenda
nel rendervi onore".
-
I ragazzi più piccoli e i giovanetti occupino in coro e in refettorio
i posti loro spettanti secondo la Regola:
-
ma fuori di lì siano sorvegliati e tenuti dappertutto sotto la
disciplina, finché non avranno raggiunto un età più matura.
Capitolo
LXIV -
L'elezione dell'abate
-
Nell'elezione dell'abate bisogna seguire il principio di scegliere il
monaco che tutta la comunità ha designato concordemente nel timore di Dio,
oppure quello prescelto con un criterio più saggio da una parte sia pur piccola
di essa.
-
Il futuro abate dev'essere scelto in base alla vita esemplare e alla
scienza soprannaturale, anche se fosse l'ultimo della comunità.
-
Se invece, - non sia mai! - la comunità eleggesse, sia pure di comune
accordo, una persona consenziente ai suoi abusi,
-
e il vescovo della diocesi o gli abati o i fedeli delle vicinanze ne
venissero comunque a conoscenza
-
devono impedire in tutti i modi che il complotto di quegli sciagurati
abbia il sopravvento e nominare un degno ministro della casa di Dio,
-
ben sapendo che ne riceveranno una grande ricompensa, mentre invece
sarebbero colpevoli, se non se ne curassero.
-
Il nuovo eletto, poi, pensi sempre al carico che si è addossato e a
chi dovrà rendere conto del suo governo
-
e sia consapevole che il suo dovere è di aiutare, piuttosto che di
comandare.
-
Bisogna quindi che sia esperto nella legge di Dio per possedere la
conoscenza e la materia da cui trarre "cose nuove e antiche",
intemerato, sobrio, comprensivo
-
e faccia "trionfare la misericordia sulla giustizia", in
modo da meritare un giorno lo stesso trattamento per sé.
-
Detesti i vizi, ma ami i suoi monaci.
-
Nelle stesse correzioni agisca con prudenza per evitare che, volendo
raschiare troppo la ruggine, si rompa il vaso:
-
diffidi sempre della propria fragilità e si ricordi che "non
bisogna spezzare la canna già incrinata".
-
Con questo non intendiamo che l'abate debba permettere ai difetti di
allignare, ma che li sradichi - come abbiamo già detto - con prudenza e carità,
nel modo che gli sembrerà più conveniente per ciascuno,
-
e cerchi di essere più amato che temuto.
-
Non sia turbolento e ansioso, né esagerato e ostinato, né invidioso
e sospettoso, perché così non avrebbe mai pace;
-
negli stessi ordini sia previdente e riflessivo e, tanto se il suo
comando riguarda il campo spirituale, quanto se si riferisce a un interesse
temporale, proceda con discernimento e moderazione,
-
tenendo presente la discrezione del santo patriarca Giacobbe, che
diceva: "Se affaticherò troppo i miei greggi, moriranno tutti in un
giorno".
-
Seguendo questo e altri esempi di quella discrezione che è la madre
di tutte le virtù, disponga ogni cosa in modo da stimolare le generose
aspirazioni dei forti, senza scoraggiare i deboli.
-
E soprattutto osservi e faccia osservare integramente la presente
Regola
-
per potersi sentir dire dal Signore, al termine della sua onesta
gestione, le parole udite dal servo fedele, che a tempo debito distribuì il
frumento ai suoi compagni:
-
"In verità vi dico: - dichiara Gesù - gli diede potere su tutti
i suoi beni".
Capitolo
LXV - Il
priore del monastero
-
Accade spesso che la nomina del priore dia origine a gravi scandali,
-
perché alcuni, gonfiati da un maligno spirito di superbia e convinti
di essere altrettanti abati, si attribuiscono indebitamente un potere assoluto,
fomentando litigi, creando divisioni nelle comunità,
-
specialmente in quei monasteri nei quali il priore viene nominato
dallo stesso vescovo o dagli stessi abati a cui spetta l'elezione dell'abate.
-
E' facile rendersi conto dell'assurdità di una simile procedura, con
cui si dà motivo al priore di insuperbirsi fin dal primo momento della sua
nomina,
-
perché la considerazione di questo stato di cose può insinuare in
lui l'idea di non essere più soggetto all'autorità dell'abate.
-
"Tu pure - dirà a se stesso - sei stato nominato da quelli che
hanno eletto l'abate".
-
Di qui nascono invidie, liti, maldicenze, rivalità, divisioni e
disordini di ogni genere,
-
per cui, mentre l'abate e il priore sono in disaccordo, le loro anime
vengono necessariamente a trovarsi in pericolo a motivo di questo contrasto
-
e i loro sudditi, parteggiando per l'uno o per l'altro, vanno in
perdizione.
-
La responsabilità di questa perniciosa situazione ricade
principalmente sugli autori di tanto disordine.
-
Quindi, per la tutela della pace e della carità ci è sembrato
necessario far dipendere l'ordinamento del monastero unicamente dalla volontà
del suo abate.
-
E, se è possibile, tutte le attività del monastero siano regolate -
come abbiamo già stabilito in precedenza - per mezzo di decani, secondo quanto
disporrà l'abate,
-
in modo che, ripartendo l'autorità fra varie persone, non si dia
motivo a uno solo di insuperbirsi.
-
Ma se le condizioni locali lo esigono o la comunità lo chiede
umilmente e con ragioni fondate e l'abate lo giudica opportuno,
-
nomini egli stesso priore quel monaco che avrà scelto con il
consiglio di fratelli timorati di Dio.
-
Il priore, da parte sua, esegua con reverenza gli ordini del suo abate
e non faccia nulla contro la volontà o le disposizioni di lui,
-
perché quanto più è stato elevato al di sopra degli altri, tanto
maggior impegno deve dimostrare nell'osservanza delle prescrizioni della Regola.
-
Se poi questo priore si rivelerà pieno di difetti o, lusingato dalla
vanità, monterà in superbia o darà prova manifesta di disprezzare la santa
Regola, sia ammonito a voce per quattro volte,
-
ma, nel caso che non si corregga, si prenda nei suoi confronti il
provvedimento disciplinare previsto dalla Regola.
-
Se neppure così si ravvederà, sia deposto dalla carica di priore e
sostituito da un altro che ne sia degno.
-
E se in seguito non intenderà starsene quieto e sottomesso in comunità,
sia addirittura espulso dal monastero.
-
Ma l'abate, da parte sua, si ricordi sempre che un giorno dovrà
rendere conto a Dio di tutte le sue decisioni, per evitare che la fiamma
dell'invidia e della gelosia gli divori l'anima.
Capitolo
LXVI - I
portinai del monastero
-
Alla porta del monastero sia destinato un monaco anziano e assennato,
che sappia ricevere e riportare le commissioni e sia abbastanza maturo da non
disperdersi, andando in giro a destra e a sinistra.
-
Questo portinaio deve avere la sua residenza presso la porta, in modo
che le persone che arrivano trovino sempre un monaco pronto a rispondere.
-
Quindi, appena qualcuno bussa o un povero chiede la carità, risponda:
"Deo gratias!" Oppure: "Benedicite!"
-
e con tutta la delicatezza che ispira il timor di Dio venga incontro
alle richieste del nuovo arrivato, dimostrando una grande premura e un'ardente
carità.
-
Lo stesso portinaio, se ha bisogno di aiuto, sia coadiuvato da un
fratello più giovane.
-
Il monastero, poi, dev'essere possibilmente organizzato in modo che al
suo interno si trovi tutto l'occorrente, ossia l'acqua, il mulino, l'orto e i
vari laboratori,
-
per togliere ai monaci ogni necessità di girellare fuori, il che non
giova affatto alle loro anime.
-
Infine vogliamo che questa Regola sia letta spesso in comunità, perché
nessuno possa giustificarsi con il pretesto dell'ignoranza.
Capitolo
LXVII - I
monaci mandati in viaggio
-
I monaci, che sono mandati in viaggio, si raccomandino alle preghiere
di tutti i confratelli e dell'abate;
-
e nell'orazione conclusiva dell'Ufficio divino si ricordino sempre
tutti gli assenti.
-
Quelli, poi, che rientrano, nel giorno stesso del loro ritorno si
prostrino in coro al termine di tutte le Ore canoniche,
-
implorando dalla comunità una preghiera per riparare le mancanze
eventualmente commesse durante il viaggio, guardando o ascoltando qualcosa di
male o perdendosi in chiacchiere.
-
E nessuno si permetta di riferire ad altri quello che ha visto o udito
fuori del monastero, perché questo sarebbe veramente rovinoso.
-
Se poi qualcuno si provasse a farlo, sia sottoposto al castigo
previsto dalla Regola.
-
Allo stesso modo sia punito chi osasse oltrepassare i confini del
monastero o andare in qualunque luogo o fare qualsiasi cosa, sia pur minima,
senza il consenso dell'abate.
Capitolo LXVIII -
Le obbedienze impossibili
-
Anche se a un monaco viene imposta un'obbedienza molto gravosa, o
addirittura impossibile a eseguirsi, il comando del superiore dev'essere accolto
da lui con assoluta sottomissione e soprannaturale obbedienza.
-
Ma se proprio si accorgesse che si tratta di un carico, il cui peso è
decisamente superiore alle sue forze, esponga al superiore i motivi della sua
impossibilità con molta calma e senso di opportunità,
-
senza assumere un atteggiamento arrogante, riluttante o contestatore.
-
Se poi, dopo questa schietta e umile dichiarazione, l'abate restasse
fermo nella sua convinzione, insistendo nel comando, il monaco sia pur certo che
per lui è bene così
-
e obbedisca per amore di Dio, confidando nel Suo aiuto.
Capitolo
LXIX -
Divieto di arrogarsi le difese dei confratelli
-
Bisogna evitare in tutti i modi che per qualsiasi motivo un monaco si
provi a difendere un altro o ad assumerne in certo modo la protezione,
-
anche se ci fosse tra loro un qualsiasi vincolo di parentela.
-
I monaci si guardino assolutamente da un simile abuso, che può
costituire una pericolosissima occasione di disordini o di scandali.
-
Se qualcuno trasgredisse queste norme, sia punito con la massima
severità.
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Capitolo
LXX -
Divieto di arrogarsi la riprensione dei confratelli
-
Nel monastero si deve sopprimere decisamente ogni occasione di arbitri
e di soprusi;
-
perciò dichiariamo che non è permesso ad alcuno di infliggere la
scomunica o un castigo corporale a un confratello, senza l'autorizzazione
dell'abate.
-
I colpevoli di tale trasgressione siano rimproverati alla presenza
dell'intera comunità, affinché anche gli altri ne abbiano timore.
-
I ragazzi, però, rimangano fino a quindici anni sotto la disciplina e
l'oculata vigilanza di tutti,
-
ma sempre con grande moderazione e buon senso.
-
Chi poi si arrogasse una qualsiasi autorità sugli adulti, senza il
comando dell'abate, o si inquietasse irragionevolmente con i ragazzi, sia
sottoposto alla punizione prevista dalla Regola,
-
perché sta scritto: "Non fare agli altri ciò che non vuoi sia
fatto a te".
Capitolo
LXXI -
L'obbedienza fraterna
-
La virtù dell'obbedienza non dev'essere solo esercitata da tutti nei
confronti dell'abate, ma bisogna anche che i fratelli si obbediscano tra loro,
-
nella piena consapevolezza che è proprio per questa via
dell'obbedienza che andranno a Dio.
-
Dunque, dopo aver dato l'assoluta precedenza al comando dell'abate o
dei superiori da lui designati, a cui non permettiamo che si preferiscano ordini
privati,
-
per il resto i più giovani obbediscano ai confratelli più anziani
con la massima carità e premura.
-
Se qualcuno dà prova di un carattere litigioso sia debitamente
corretto.
-
Se poi un monaco viene comunque rimproverato dall'abate o da qualsiasi
anziano per un qualunque motivo
-
o si accorge semplicemente che un anziano è sdegnato o anche
leggermente alterato nei suoi riguardi,
-
si inginocchi subito dinanzi a lui, senza la minima esitazione, e
rimanga così per riparare, finché la benedizione dell'altro non sani quel lieve
dissenso.
-
Se qualcuno si rifiutasse altezzosamente di farlo, sia sottoposto a un
castigo corporale e, se si ostina in questo atteggiamento di ribellione, sia
scacciato dal monastero.
Capitolo
LXXII -
Il buon zelo dei monaci
-
Come c'è un cattivo zelo, pieno di amarezza, che separa da Dio e
porta all'inferno,
-
così ce n'è uno buono, che allontana dal peccato e conduce a Dio e
alla vita eterna.
-
Ed è proprio in quest'ultimo che i monaci devono esercitarsi con la
più ardente carità
-
e cioè: si prevengano l'un l'altro nel rendersi onore;
-
sopportino con grandissima pazienza le rispettive miserie fisiche e
morali;
-
gareggino nell'obbedirsi scambievolmente;
-
nessuno cerchi il proprio vantaggio, ma piuttosto ciò che giudica
utile per gli altri;
-
si portino a vicenda un amore fraterno e scevro da ogni egoismo;
-
temano filialmente Dio;
-
amino il loro abate con sincera e umile carità;
-
non antepongano assolutamente nulla a Cristo,
-
che ci conduca tutti insieme alla vita eterna.
Capitolo
LXXIII -
La modesta portata di questa regola
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Abbiamo abbozzato questa Regola con l'intenzione che, mediante la sua
osservanza nei nostri monasteri, riusciamo almeno a dar prova di possedere una
certa rettitudine di costumi e di essere ai primordi della vita monastica.
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Del resto, chi aspira alla pienezza di quella vita dispone degli
insegnamenti dei santi Padri, il cui adempimento conduce all'apice della
perfezione.
-
C'è infatti una pagina, anzi una parola, dell'antico o del nuovo
Testamento, che non costituisca una norma esattissima per la vita umana?.
-
O esiste un'opera dei padri della Chiesa che non mostri chiaramente la
via più rapida e diretta per raggiungere l'unione con il nostro Creatore?
-
E le Conferenze, le Istituzioni e le Vite dei Padri, come anche la
Regola del nostro santo padre Basilio,
-
che altro sono per i monaci fervorosi e obbedienti se non mezzi per
praticare la virtù?
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Ma
per noi, svogliati, inosservanti e negligenti, ciò è motivo di vergogna e di
confusione.
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Chiunque
tu sia, dunque, che con sollecitudine e ardore ti dirigi verso la patria
celeste, metti in pratica con l'aiuto di Cristo questa modestissima Regola,
abbozzata come una semplice introduzione,
-
e con la grazia di Dio giungerai finalmente a quelle più alte cime di
scienza e di virtù, di cui abbiamo parlato sopra. Amen.
Fine
della Regola
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