BREVE ESAME CRITICO DEL «NOVUS ORDO MISSÆ»
I
Nell'ottobre del 1967, al Sinodo Episcopale, convocato a Roma,
fu chiesto un giudizio sulla celebrazione sperimentale di una
cosiddetta «messa normativa», ideata dal Consilium ad
exequendam Constitutionem de Sacra Liturgia.
Tale messa suscitò le piú gravi perplessità tra i presenti al
Sinodo, con una forte opposizione (43 non placet),
moltissime e sostanziali riserve (62 juxta modum) e 4
astensioni, su 187 votanti. La stampa internazionale di
informazione parlò di «rifiuto», da parte del Sinodo, della
messa proposta. Quella di tendenze innovatrici ne tacque. E un
noto periodico, destinato ai Vescovi ed espressione del loro
insegnamento, cosí sintetizzò il nuovo rito:
«[vi] si vuol fare tabula rasa di tutta la teologia della
Messa. In sostanza ci si avvicina alla teologia protestante
che ha distrutto il sacrificio della Messa».
Nel
Novus Ordo Missæ, testé promulgato dalla Costituzione
Apostolica Missale romanum, ritroviamo purtroppo, identica
nella sua sostanza, la stessa «messa normativa». Né sembra che
le Conferenze Episcopali, almeno in quanto tali, siano mai state
nel frattempo interpellate al riguardo.
Nella Costituzione Apostolica
si afferma che l'antico messale, promulgato da S. Pio V il 19
luglio 1570 ma risalente in gran parte a Gregorio Magno e ad
ancor piú remota antichità (1)
fu per quattro secoli la norma della celebrazione del Sacrificio
per i sacerdoti di rito latino, e, portato in ogni terra, «innumeri
præterea sanctissimi viri animorum suorum erga Deum pietatem,
haustis ex eo... copiosus aluerunt». E tuttavia questa
riforma, che lo pone definitivamente fuori uso, si sarebbe resa
necessaria «ex quo tempore latius in christiana plebe
increbescere et invalescere cœpit sacræ fovendæ liturgiæ studium».
Ci sembra evidente, in questa affermazione, un grave equivoco.
Perché il desiderio del popolo, se fu espresso, lo fu quando -
soprattutto per merito del grande S. Pio X - esso cominciò a
scoprire gli autentici ed eterni tesori della sua liturgia. Il
popolo non chiese assolutamente mai, onde meglio comprenderla,
una liturgia mutata o mutilata. Chiese di meglio comprendere una
liturgia immutabile e che mai avrebbe voluto si mutasse.
Il
Messale Romano di San Pio V era religiosamente venerato e
carissimo al cuore dei cattolici, sacerdoti e laici. Non si vede
in che cosa l'uso di esso, con l'opportuna catechesi, potesse
impedire una piú piena partecipazione e una maggiore conoscenza
della sacra liturgia e perché, con tanti eccelsi pregi che gli
sono riconosciuti, non lo si sia stimato degno di continuare a
nutrire la pietà liturgica del popolo cristiano.
Sostanzialmente rifiutata dal Sinodo Episcopale, quella stessa «messa
normativa» oggi si ripresenta e si impone come Novus Ordo
Missæ; il quale non è stato mai sottoposto al giudizio
collegiale delle Conferenze; né è stata mai voluta dal popolo (e
men che meno nelle missioni) una qualsiasi riforma della Santa
Messa. Non si riesce dunque a comprendere i motivi della nuova
legislazione, che sovverte una tradizione immutata nella Chiesa
dal IV-V secolo, come la stessa Costituzione Missale Romanum
riconosce. Non sussistendo dunque i motivi per appoggiare questa
riforma, la riforma stessa appare priva di un fondamento
razionale, che, giustificandola, la renda accettabile al popolo
cattolico.
Il
Concilio aveva espresso bensí, con il par. 50 della
Costituzione Sacrosanctum Concilium, il desiderio che le
varie parti della Messa fossero riordinate, «ut singularum
partium propria ratio necnon mutua connexio clarius pateant».
Vedremo subito come l'Ordo testé promulgato risponda a questi
auspici, dei quali possiamo dire non resti, nel risultato,
neppure la memoria.
Un esame particolareggiato del Novus Ordo rivela
mutamenti di portata tale da giustificare per esso lo stesso
giudizio dato per la «messa normativa». Quello, come
questa, è tale da contentare, in molti punti, i protestanti piú
modernisti.
|
II
Cominciamo dalla definizione di Messa che si presenta al
par. 7, vale a dire in apertura al secondo capitolo del Novus
Ordo: «De structura Missæ».
«Cena dominica sive Missa
est sacra synaxis seu congregatio populi Dei in unum
convenientis, sacerdote præside, ad memoriale Domini
celebrandum(2).
Quare de sanctæ ecclesiæ locali congregatione eminenter
valet promissio Christi “Ubi sunt duo vel tres congregati in
nomine meo, ibi sum in medio eorum” (Mt. 18, 20)».
La definizione di Messa è dunque limitata a quella di «cena»,
il che è poi continuamente ripetuto (n. 8, 48, 55d, 56); tale «cena»
è inoltre caratterizzata dalla assemblea, presieduta dal
sacerdote, e dal compiersi il memoriale del Signore, ricordando
quel che Egli fece il Giovedí Santo.
Tutto ciò non implica: né la Presenza Reale, né la realtà del
Sacrificio, né la sacramentalità del sacerdote consacrante, né
il valore intrinseco del Sacrificio eucaristico
indipendentemente dalla presenza dell'assemblea (3).
Non implica, in una parola, nessuno dei valori dogmatici
essenziali della Messa e che ne costituiscono pertanto la vera
definizione. Qui l'omissione volontaria equivale al loro
«superamento», quindi, almeno in pratica, alla loro negazione (4).
Nella seconda parte dello stesso paragrafo si afferma -
aggravando il già gravissimo equivoco - che vale «eminenter»
per questa assemblea la promessa del Cristo: «Ubi sunt duo
vel tres congregati in nomine meo, ibi sum in medio eorum»
(Mt. 18, 20). Tale promessa, che riguarda soltanto la presenza
spirituale del Cristo con la sua grazia, viene posta sullo
stesso piano qualitativo, salvo la maggiore intensità, di quello
sostanziale e fisico della presenza sacramentale eucaristica.
Segue immediatamente (n. 8) una suddivisione della Messa in
liturgia della parola e liturgia eucaristica, con l'affermazione
che nella Messa è preparata la mensa della parola di Dio come
del Corpo di Cristo, affinché i fedeli «instituantur et
reficiantur»: assimilazione paritetica del tutto illegittima
delle due parti della liturgia, quasi tra due segni di eguale
valore simbolico, sulla quale torneremo piú tardi.
Di denominazioni della Messa ve
ne sono innumerevoli: tutte accettabili relativamente, tutte da
respingere se usate, come lo sono, separatamente e in assoluto.
Ne citiamo alcune: Actio Christi et populi Dei, Cena dominica
sive Missa, Convivium Paschale, Communis participatio mensæ
Domini, Memoriale Domini, Precatio Eucharistica, Liturgia verbi
et liturgia eucharistica, ecc.
Come è fin troppo evidente, l'accento è posto ossessivamente
sulla cena e sul memoriale anziché sulla rinnovazione incruenta
del Sacrificio del Calvario. Anche la formula «Memoriale
Passionis et Resurrectionis Domini» è inesatta, essendo
la Messa il memoriale del solo Sacrificio, che è redentivo in sé
stesso, mentre la Resurrezione ne è il frutto conseguente(5).
Vedremo piú avanti con quale coerenza, nella stessa formula
consacratoria e in generale in tutto il Novus Ordo, tali
equivoci siano rinnovati e ribaditi.
|
III
E
veniamo alle finalità della Messa.
1) Finalità ultima.
È il sacrificio di lode alla Santissima Trinità, secondo
l'esplicita dichiarazione di Cristo nella intenzione primordiale
della sua stessa Incarnazione: «Ingrediens mundum dicit:
“Hostiam et oblationem noluisti: corpus autem aptasti mihi”»
(Ps. XL, 7-9, in: Hebr. 10, 5).
Questa finalità è scomparsa:
-
dall'Offertorio, con la preghiera Suscipe, Sancta
Trinitas,
- dalla conclusione della Messa con il placeat
tibi, Sancta Trinitas,
- e dal Prefazio, che nel ciclo domenicale non sara
piú quello della Santissima Trinità, riservato ora alla
sola
festa e che quindi sarà pronunziato una sola volta
l'anno.
2) Finalità ordinaria.
È il Sacrificio propiziatorio. Anch'essa è deviata,
perché anziché mettere l'accento sulla remissione dei peccati
dei vivi e dei morti lo si mette sulla nutrizione e
santificazione dei presenti (n. 54). Certo Cristo istituí il
Sacramento nell'ultima Cena e si pose in stato di vittima per
unirci al suo stato vittimale; questo però precede la
manducazione e ha un antecedente e pieno valore redentivo,
applicativo della immolazione cruenta, tanto è vero che il
popolo assistendo alla Messa non è tenuto a comunicarsi
sacramentalmente (6).
3) Finalità immanente.
Qualunque sia la natura del sacrificio è essenziale che sia
gradito a Dio e da lui accettabile ed accettato. Nello stato di
peccato originale nessun sacrificio avrebbe diritto di essere
accettabile. Il solo sacrificio che ha diritto di essere
accettato è quello di Cristo. Nel Novus Ordo si
snatura l'offerta in una specie di scambio di doni tra l'uomo e
Dio; l'uomo porta il pane e Dio lo cambia in «pane di
vita»; l'uomo porta il vino e Dio lo cambia in «bevanda
spirituale»: «Benedictus es, Domine, Deus universi, quia
de tua largitate accepimus panem (o: vinum) quem
tibi offerimus, fructum terræ (o: vitis) et manuum
hominum, ex quo nobis fiet panis vitæ (o: potus
spiritualis)»
(7).
Superfluo notare l'assoluta indeterminatezza delle due formule «panis
vitæ» e «potus spiritualis», che possono significare
qualunque cosa. Ritroviamo qui l'identico e capitale equivoco
della definizione della Messa: là il Cristo presente solo
spiritualmente tra i suoi; qui pane e vino «spiritualmente» (e
non sostanzialmente) mutati
(8).
Nella preparazione dell'offerta, un consimile gioco di equivoci
è attuato con la soppressione delle due stupende preghiere. Il «Deus,
qui humanæ substantiæ dignitatem mirabiliter condidisti et
mirabilius reformasti», era un richiamo all'antica
condizione di innocenza dell'uomo e alla sua attuale condizione
di riscattato dal sangue di Cristo: ricapitolazione discreta e
rapida di tutta l'economia del Sacrificio, da Adamo all'attimo
presente. La finale offerta propiziatoria del calice, affinché
ascendesse «cum odore suavitatis» al cospetto della
maestà divina, di cui si implorava la clemenza, ribadiva
mirabilmente questa economia. Sopprimendo il continuo
riferimento a Dio della prece eucaristica, non vi è piú
distinzione alcuna tra sacrificio divino e umano.
Eliminando la chiave di volta bisogna costruire delle
impalcature; sopprimendo le finalità reali se ne devono
inventare di fittizie. Ed ecco i gesti che dovrebbero
sottolineare l'unione tra sacerdote e fedeli, tra fedeli e
fedeli; ecco la sovrapposizione, che immediatamente crollerà nel
ridicolo, delle offerte per i poveri e per la chiesa all'offerta
dell'Ostia da immolare. L'unicità primordiale di questa verrà
del tutto obliterata: la partecipazione all'immolazione della
Vittima diverrà una riunione di filantropi e un banchetto di
beneficenza.
|
IV
Passiamo all'essenza del Sacrificio.
Il mistero della Croce non vi è
piú espresso esplicitamente, ma in modo oscuro, velato,
impercepibile dal popolo (9).
Eccone le ragioni:
1) Il senso dato nel Novus Ordo alla cosiddetta «Prex
eucharistica» è: «ut tota congregatio fidelium se cum
Christo coniungat in confessione magnalium Dei et in
oblatione sacrificii». (n. 54, fine).
Di quale sacrificio si tratta? Chi è l'offerente? Nessuna
risposta a questi interrogativi.
La definizione in limine della «Prex eucharistica» è
questa: «Nunc centrum et culmen totius celebrationis
initium habet, ipsa nempe Prex eucharistica, prex scilicet
gratiarum actionis et sanctificationis» (n. 54, pr.).
Gli effetti sono dunque sostituiti alle cause, di cui non si
dice una sola parola. La menzione esplicita del fine
dell'offerta, che era nel Suscipe, non è sostituita
da nulla. Il mutamento di formulazione rivela il mutamento
di dottrina.
2) La causa di questa non-esplicitazione del
Sacrificio è, né piú né meno, la soppressione del ruolo
centrale della Presenza Reale, cosí lampante prima nella
liturgia eucaristica. Ve ne è una sola menzione - unica
citazione, in nota, dal Concilio di Trento - ed è quella che
si riferisce alla Presenza Reale come nutrimento (n. 241,
nota 63). Alla Presenza Reale e permanente di Cristo in
Corpo, Sangue, Anima e Divinità nelle Specie transustanziate
non si allude mai. La stessa parola transustanziazione è
totalmente ignorata.
La soppressione della invocazione alla terza Persona della
SS.ma Trinità (Veni sanctificator), onde scendesse
sopra le oblate come già discese nel grembo della Vergine a
compiervi il miracolo della Divina Presenza, si inserisce in
questo sistema di tacite negazioni, di degradazioni a catena
della Presenza Reale.
L'eliminazione poi:
- delle genuflessioni (non ne restano che tre del
sacerdote e una, con eccezioni, del popolo, alla
Consacrazione);
- della purificazione delle dita del sacerdote nel
calice;
- della preservazione delle stesse dita da ogni
contatto profano dopo la Consacrazione;
- della purificazione dei vasi, che può essere non
immediata, e non fatta sul corporale;
- della palla a protezione del calice;
- della doratura interna dei vasi sacri;
- della consacrazione dell'altare mobile;
- della pietra sacra e delle reliquie nell'altare mobile
e sulla «mensa», quando la celebrazione non avvenga
in
luogo sacro (la distinzione ci porta diritti alle «cene
eucaristiche» in case private);
- delle tre tovaglie d'altare, ridotte a una sola;
- del ringraziamento in ginocchio (sostituito da un
grottesco ringraziamento di preti e fedeli seduti, in cui
la
Comunione in piedi ha il suo aberrante compimento);
- di tutte le antiche prescrizioni nel caso di caduta
dell'Ostia consacrata, ridotte a un quasi sarcastico
«reverenter accipiatur» (n. 239);
tutto ciò non fa che ribadire in modo oltraggioso l'implicito
ripudio della fede nel dogma della Presenza Reale.
3) La funzione assegnata all'altare
(n. 262).
L'altare è quasi costantemente chiamato mensa (10).
«Altare, seu mensa dominica, quæ centrum est totius liturgiæ
eucharisticæ» n. 49, (cfr. 262). Si specifica che l'altare
deve essere staccato dalle pareti perché vi si possa girare
intorno e la celebrazione possa farsi verso il popolo (n. 262);
si precisa che esso deve essere il centro della congregazione
dei fedeli cosí che l'attenzione si volga spontaneamente ad esso
(ibid.).
Ma il confronto fra i nn. 262 e 276 sembra escludere
nettamente che il SS.mo Sacramento possa essere conservato su
questo altare. Ciò segnerà una dicotomia irreparabile tra la
presenza, nel celebrante, del Sommo ed Eterno Sacerdote e quella
stessa Presenza realizzata sacramentalmente. Prima esse erano
un'unica presenza
(11).
Ora si raccomanda di conservare il SS.mo in un luogo
appartato, ove possa esplicarsi la devozione privata dei
fedeli, quasi si trattasse di una qualsiasi reliquia, sicché
entrando in chiesa non sarà piú il Tabernacolo ad attirare
immediatamente gli sguardi ma una mensa spoglia e nuda. Si
oppone ancora una volta pietà privata a pietà liturgica, si
drizza altare contro altare.
Nella raccomandazione insistente di distribuire nella comunione
le Specie Consacrate nella stessa Messa, anzi di consacrare un
pane di grandi dimensioni
(12),
cosí che il sacerdote possa dividerlo con una parte almeno dei
fedeli, è ribadito lo sprezzante atteggiamento verso il
Tabernacolo come verso tutta la pietà eucaristica fuori della
Messa: altro strappo violento alla fede nella Presenza Reale
sinché durino le Specie consacrate (13).
4) Le formule consacratorie.
L'antica formula della Consacrazione era una formula
propriamente sacramentale, e non narrativa, indicata
soprattutto da tre cose:
a) il testo
della Scrittura, non ripreso alla lettera; l'inserto
paolino «mysterium fidei» era una confessione
immediata di fede del sacerdote nel mistero realizzato dalla
Chiesa per mezzo del suo sacerdozio gerarchico;
b) la punteggiatura e il carattere tipografico;
vale a dire il punto fermo e daccapo, che segnava il
passaggio dal modo narrativo al modo sacramentale e
affermativo, e le parole sacramentali in carattere piú
grande, al centro della pagina e spesso di diverso colore,
nettamente staccate dal contesto storico. Il tutto dava
sapientemente alla formula un valore proprio, un valore
autonomo;
c) l'anamnesi («Haec quotiescumque
feceritis in mei memoriam facietis», che in greco suona:
«eis ten emou anamnesin» - «volti alla mia memoria»).
Essa si riferiva al Cristo operante e non alla semplice
memoria di lui o dell'evento: un invito a ricordare ciò che
Egli fece («hæc... in mei memoriam facietis») e come
Egli lo fece, e non soltanto la sua persona o la cena.
La formula paolina oggi sostituita all'antica («Hoc
facite in meam commemorationem») - proclamata come sarà
quotidianamente nelle lingue volgari - sposterà
irrimediabilmente, nella mente degli ascoltatori, l'accento
sulla memoria del Cristo come termine dell'azione
eucaristica, mentre essa ne è il principio. L'idea finale di
commemorazione prenderà ben presto il posto dell'idea di
azione sacramentale (14).
Il modo narrativo è ora sottolineato dalla formula: «narratio
institutionis» (n. 55d), e ribadito dalla definizione
della anamnesi, dove si dice che «Ecclesia memoriam
ipsius Christi agit» (n. 55c).
In breve: la teoria proposta per l'epiclesi, la modificazione
delle parole della Consacrazione e dell'anamnesi, hanno come
effetto di modificare il modus significandi delle parole
della Consacrazione. Le formule consacratorie sono ora
pronunciate dal sacerdote come costituenti una narrazione
storica e non piú enunciate come esprimenti un giudizio
categorico e affermativo proferito da Colui nella cui persona
egli agisce: «Hoc est Corpus meum» (e non: «Hoc est
Corpus Christi») (15).
L'acclamazione, poi, assegnata al popolo subito
dopo la Consacrazione: («Mortem
tuam annuntiamus, Domine, etc.… donec venias») introduce,
travestita di escatologismo, l'ennesima ambiguità sulla Presenza
Reale. Si proclama, senza soluzione di continuità, l'attesa
della venuta seconda del Cristo alla fine dei tempi proprio nel
momento in cui Egli è sostanzialmente presente sull'altare:
quasi che quella, e non questa, fosse la vera venuta.
Ciò è ancor piú accentuato nella formula di acclamazione
facoltativa n. 2 (Appendix): «Quotiescumque manducamus
panem hunc, et calicem bibimus, mortem tuam annuntiamus, Domine,
donec venias»; dove le diverse realtà di immolazione e
manducazione, e quelle di Presenza Reale e secondo avvento del
Cristo, raggiungono il massimo di ambiguità (16).
|
V
Veniamo ora alla realizzazione del Sacrificio.
I quattro elementi di esso erano, nell'ordine:
1)
il Cristo.
2) il sacerdote;
3) la Chiesa;
4) i fedeli.
1) Nel Novus Ordo, la posizione attribuita
ai fedeli è autonoma (ab-soluta), quindi totalmente
falsa: dalla definizione iniziale: «Missa est sacra
synaxis seu congregatio populi», al saluto del sacerdote
al popolo, che esprimerebbe alla comunità riunita la «presenza»
del Signore (n. 28): «Qua salutatione et populi
responsione manifestatur ecclesiæ congregatæ mysterium».
Dunque vera presenza di Cristo, ma solo spirituale, e
mistero della Chiesa, ma come pura assemblea che
manifesta e sollecita tale presenza.
Ciò si ripete ovunque:
- il carattere
comunitario della Messa ossessivamente ribadito (nn.
74-152);
- l'inaudita distinzione tra «Missa cum populo»
e «Missa sine populo» (nn. 203-231);
- la definizione della «oratio universalis seu
fidelium» (n. 45), ove si sottolinea ancora una
volta
l'«ufficio sacerdotale» del popolo («populus
sui sacerdotii munus exercens») presentato in
modo equivoco perché ne viene taciuta la
subordinazione a quello del sacerdote; tanto piú che
questi si fa
interprete, nella sua qualità di mediatore
consacrato, di tutte le intenzioni del popolo nel Te
igitur e nei
due Memento.
Nella «Prex eucharistica III» («Vere sanctus»,
p. 123) è addirittura detto al Signore: «populum tibi
congregare non desinis, ut a solis ortu usque ad occasum
oblatio munda offeratur nomini tuo»: ove l'affinché
fa pensare che l'elemento indispensabile alla
celebrazione sia il popolo anziché il sacerdote; e
poiché non è precisato neppure qui chi sia l'offerente (17)
il
popolo stesso appare investito di poteri sacerdotali
autonomi.
Di questo passo non stupirebbe l'autorizzazione al popolo,
tra qualche tempo, di congiungersi al sacerdote nella
pronuncia delle formule consacratorie (ciò che del resto
sembra già accada, qua e là).
2) La posizione
del sacerdote è minimizzata, alterata, falsata.
Prima in funzione del popolo di cui egli è caratterizzato
per lo piú come mero presidente o fratello anziché come
ministro consacrato che celebra in persona Christi.
Poi in funzione della Chiesa come un «quidam de populo».
Nella definizione della epiclesi (n. 55c) le invocazioni
sono attribuite anonimamente alla Chiesa: il ruolo del
sacerdote è dissolto.
Nel Confiteor divenuto collettivo egli non è piú
giudice, testimone e intercessore presso Dio; è logico
dunque che non gli sia piú dato di impartire l'assoluzione,
che è stata infatti soppressa. Egli è «integrato» ai
fratres. Persino il chierichetto lo chiama cosí nel
Confiteor della «Missa sine populo».
Già prima di quest'ultima riforma era stata soppressa la
significativa distinzione tra la Comunione del sacerdote -
il momento in cui, per cosí dire, il Sommo ed Eterno
Sacerdote e colui che agiva in sua persona si fondevano in
intimissima unione (nella quale era il compimento del
Sacrificio) - e quella dei fedeli.
Non piú una parola ormai sul suo potere di sacrificatore,
sul suo atto consacratorio, sulla realizzazione per suo
mezzo della Presenza eucaristica. Egli appare nulla piú che
un ministro protestante.
La sparizione o l'uso facoltativo di molti paramenti (in
certi casi alba e stola bastano - n. 298) vanificano ancor
piú l'originale conformazione al Cristo: il sacerdote non è
piú rivestito di tutte le virtú di Lui; egli è un semplice
«graduato» che uno o due segni distinguono appena dalla
massa
(18):
(«un po' piú uomo degli altri» per citare la formula
involontariamente umoristica di un moderno predicatore[19]).
Di nuovo, come nella opposizione degli altari, si separa ciò
che Dio ha unito: l'unico Sacerdozio del Verbo di Dio.
3) Infine la posizione della Chiesa di fronte al
Cristo.
In un solo caso, quello della «Missa sine populo» ci
si degna di ammettere che la Messa è «Actio Christi et
Ecclesiæ» (n. 4, cfr. Presb. Ord. n. 13), mentre
nel caso della «Missa cum populo» non si accenna che
allo scopo di «far memoria di Cristo» e santificare i
presenti. «Presbyter celebrans... populum... sibi sociat
in offerendo sacrificio per Christum in Spiritu Sancto Deo
Patri» (n. 60), anziché associare il popolo a Cristo che
offre sé stesso «per Spiritum Sanctum Deo Patri».
S'inseriscono in questo contesto:
- la gravissima omissione delle clausole «Per Christum
Dominum nostrum», garanzia di esaudimento data alla
Chiesa di
tutti i tempi (Io. 14, 13-14,. 15, 16; 16,
23-24);
- l'ossessivo «paschalismo»: quasi che la comunicazione
della grazia non presentasse altri aspetti altrettanto
importanti;
- l'escatologismo dubbio e maniaco, in cui la comunicazione
di una realtà, la grazia, che è permanente ed eterna, è
ricondotta
alla dimensione del tempo: popolo in marcia, chiesa
peregrinante - non piú militante, si badi, contro la
Potestas
tenebrarum - verso un futuro che non è piú
vincolato all'eterno (quindi anche all'eterno presente) ma a
un vero e proprio
avvenire temporale.
La Chiesa - Una, Santa, Cattolica, Apostolica
- è umiliata come tale nella
formula che, nella «Prex eucharistica IV», ha
sostituito la preghiera del Canone romano «pro omnibus
orthodoxis atque catholicæ et apostolicæ fidei cultoribus».
Ora essi sono, né piú né meno: «omnium qui te quærunt
corde sincero».
Cosí, nel Memento dei morti, questi non sono piú
trapassati «cum signo fidei et dormiunt in somno pacis»
ma semplicemente «obierunt in pace Christi tui»; ad
essi si aggiunge, con nuovo e patente scapito del concetto
di unitarietà e visibilità, la turba di «omnium
defunctorum quorum fidem tu solus cognovisti».
In nessuna delle tre nuove preci, poi, vi è il minimo cenno,
come già si è detto, allo stato di sofferenza dei
trapassati, in nessuna la possibilità di un Memento
particolare: il che, ancora una volta, snerva la fede nella
natura propiziatoria e redentiva del Sacrificio
(20).
Omissioni dissacranti
avviliscono ovunque il Mistero della Chiesa.
- Esso è misconosciuto innanzi tutto come gerarchia sacra:
Angeli e Santi sono ridotti all'anonimato nella seconda parte
del Confiteor collettivo: sono scomparsi come testimoni e
giudici, nella persona di Michele, dalla prima
(21).
- Scomparse anche le varie Gerarchie Angeliche (e ciò è
senza precedenti) dal nuovo Prefazio della «Prex II».
- Soppressa nel Communicantes la memoria dei Pontefici
e dei Santi Martiri su cui la Chiesa di Roma è fondata, che
furono
senza dubbio i trasmettitori delle tradizioni apostoliche e
le completarono in ciò che divenne, con S. Gregorio, la Messa
romana.
- Soppressa, nel Libera nos, la menzione della B.
Vergine, degli Apostoli e di tutti i Santi: la sua e loro
intercessione non è
quindi piú chiesta neppure nel momento del pericolo.
- L'unità della Chiesa è compromessa fino all'intollerabile
omissione, nell'intero Ordo, comprese le tre nuove «Preces»
(e
con la sola eccezione del Communicantes del Canone romano),
dei nomi degli Apostoli Pietro e Paolo, fondatori della
Chiesa di Roma, nonché dei nomi degli altri Apostoli,
fondamento e segno della Chiesa unica e universale.
- Chiaro attentato al dogma della Comunione dei Santi: la
soppressione, quando il sacerdote celebri senza inserviente, di
tutte
le salutationes e della benedizione finale; dell'Ite
Missa est (22),
poi, persino nella messa celebrata con l'inserviente.
- Il doppio Confiteor mostrava come il prete, in veste di
ministro di Cristo e in profonda inclinazione, riconoscendosi
indegno dell'alta missione, del «tremendum mysterium»
che andava a celebrare, e addirittura (nell'Aufer a nobis)
di
entrare nel Santo dei Santi, invocava ad intercessione (nell'Oramus
te, Domine) i meriti dei martiri di cui l'altare
racchiudeva le reliquie. Entrambe le preghiere sono state
soppresse. Vale qui ciò che già è stato detto per il doppio
Confiteor e la doppia Comunione.
- Sono profanate le condizioni del Sacrificio come segno di
una cosa sacra: vedi ad esempio la celebrazione fuori del
luogo
sacro nel qual caso l'altare può essere sostituito da una
semplice «mensa» senza pietra consacrata né reliquie, con una
sola
tovaglia (nn. 260, 265). Anche qui vale quanto già detto a
proposito della Presenza Reale: dissociazione del «convivium»
e
sacrificio della cena, dalla stessa Presenza Reale.
La desacralizzazione è perfezionata grazie alle
nuove, grottesche modalità dell'offerta;
- l'accenno al pane anziché all'azimo;
- la facoltà, data persino ai chierichetti (nonché ai
laici nella comunione sub utraque specie) di toccare i vasi
sacri (n. 244d);
- la inverosimile atmosfera che si creerà nella chiesa ove si
alterneranno senza tregua sacerdote, diacono, suddiacono,
salmista,
commentatore (il sacerdote stesso par divenuto tale,
continuamente incoraggiato com'è a «spiegare» ciò che sta per
compiere), lettori (uomini e donne) chierici o laici che
accolgono i fedeli alla porta e li accompagnano ai loro posti,
fanno la
colletta, portano e smistano offerte;
- e, in tanto delirio scritturistico, la presenza
antiveterotestamentaria, antipaolina della «mulier idonea»
che, per la prima
volta nella tradizione della Chiesa, sarà autorizzata a
leggere le lezioni e adempiere anche ad altri «ministeria
quae extra
presbyterium peraguntur» (n. 70).
- Infine la mania concelebratoria, che finirà di distruggere
la pietà eucaristica del sacerdote e di obnubilare la figura
centrale del
Cristo, unico Sacerdote e Vittima, e dissolverla nella
presenza collettiva dei concelebranti
(23).
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VI
Ci
siamo limitati ad un sommario esame del Novus Ordo, nelle
sue deviazioni piú gravi dalla teologia della Messa cattolica.
Le osservazioni fatte sono soltanto quelle che hanno un
carattere tipico. Una valutazione completa delle insidie, dei
pericoli, degli elementi spiritualmente e psicologicamente
distruttivi che il documento contiene, sia nei testi come nelle
rubriche e nelle istruzioni, richiederebbe ben altra mole di
lavoro.
Poiché furono criticati
ripetutamente e autorevolmente nella loro forma e sostanza,
abbiamo sorvolato sui nuovi canoni, di cui il secondo(24)
ha immediatamente scandalizzato i fedeli per la sua brevità. Di
esso si è potuto scrivere, tra molte altre cose, che può essere
celebrato in piena tranquillità di coscienza da un prete che non
creda piú né alla transustanziazione né alla natura sacrificale
della Messa, e che quindi si presterebbe benissimo anche alla
celebrazione da parte di un ministro protestante.
Il nuovo Messale fu presentato a
Roma come «ampio materiale pastorale», «testo piú
pastorale che giuridico» su cui le Conferenze Episcopali
avrebbero potuto operare secondo le circostanze e il genio dei
vari popoli. Del resto, la I sezione della nuova Congregazione
per il Culto Divino sarà responsabile «dell'edizione e della
costante revisione dei libri liturgici».
Scrive l'ultimo bollettino ufficiale degli Istituti Liturgici di
Germania, Svizzera, Austria
(25):
«i
testi latini dovranno ora esser tradotti nelle lingue dei
vari popoli; lo stile “romano” dovrà essere adattato
all'individualità delle Chiese locali; ciò che fu concepito
al di fuori del tempo deve essere trasposto nel mutevole
contesto di situazioni concrete, nel flusso costante della
Chiesa universale e delle sue miriadi di congregazioni».
La Costituzione Apostolica stessa dà il colpo di grazia
alla lingua universale (in contrasto con la volontà espressa nel
Concilio Vaticano II) affermando senza equivoci che «in tot
varietate linguarum una (?) eademque cunctorum precatio...
quovis ture fragrantior ascendat».
La morte del latino è data dunque per scontata; quella del
gregoriano, che pure il Concilio riconobbe «liturgiæ
romanæ proprium» (Sacros. Conc. n. 116), ordinando
che «principem locum obtineat» (ibid.), ne consegue
logicamente, con la libera scelta, tra l'altro, dei testi
dell'Introito e del Graduale.
Il
nuovo rito è dato quindi in partenza come pluralistico e
sperimentale, legato al tempo e al luogo.
Spezzata cosí per sempre l'unità di culto, in che cosa
consisterà ormai quell'unità di fede che ne conseguiva e di cui
sempre si parla come della sostanza da difendere senza
compromissioni?
È evidente che il Novus Ordo non vuole piú
rappresentare la fede di Trento.
A questa fede, nondimeno, la coscienza cattolica è vincolata in
eterno.
Il vero cattolico è dunque posto, dalla promulgazione del
Novus Ordo, in una tragica necessità di opzione.
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VII
La Costituzione accenna
esplicitamente a una ricchezza di pietà e di dottrina mutuata
nel Novus Ordo dalle Chiese di Oriente. Il risultato
appare tale da respingere inorridito il fedele di rito
orientale, tanto lo spirito ne è, piú che remoto, addirittura
opposto.
A che si riducono queste scelte ecumeniche?
In sostanza
- alla molteplicità delle anafore (non certo alla loro bellezza
e complessità),
- alla presenza del diacono e alla comunione sub utraque
specie.
Per contro, pare si sia voluto eliminare deliberatamente tutto
quanto, nella liturgia romana, era piú prossimo all'orientale(26)
e, rinnegando
l'inconfondibile ed immemorabile carattere romano, abdicare a
ciò che piú gli era proprio e spiritualmente prezioso. Lo si
è sostituito con elementi che soltanto a certi riti riformati (e
nemmeno a quelli piú prossimi al cattolicesimo) lo avvicinano
degradandolo, mentre vieppiú ne allontaneranno l'Oriente, come
l'hanno già allontanato le ultime riforme.
In compenso, esso piacerà sommamente a tutti quei gruppi,
vicini alla apostasia, che devastano la Chiesa inquinandone
l'organismo, intaccandone l'unità dottrinale, liturgica, morale
e disciplinare in una crisi spirituale senza precedenti.
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VIII
S.
Pio V curò l'edizione del Missale romanum affinché (come
la stessa Costituzione ricorda) fosse strumento di unità
tra i cattolici. In conformità alle prescrizioni del Concilio
Tridentino esso doveva escludere ogni pericolo, nel culto, di
errori contro la fede, insidiata allora dalla Riforma
protestante.
Cosí gravi erano i motivi del Santo Pontefice che mai come in
questo caso appare giustificata, quasi profetica, la sacra
formula che chiude la Bolla di promulgazione del suo Messale:
«Si quis autem hoc
attentare praesumpserit, indignationem Omnipotenti Dei ac
beatorum Petri et Pauli Apostolorum eius se noverit
incursurum» (Quo primum, 19 luglio 1570)(27).
Si è avuto l'ardire di affermare, presentando ufficialmente il
Novus Ordo alla Sala Stampa del Vaticano, che le ragioni
del Tridentino non sussistono piú. Non solo esse sussistono
ancora, ma ne esistono oggi, non esitiamo a dirlo, di
infinitamente piú gravi. Proprio facendo fronte alle insidie
che minacciavano di secolo in secolo la purezza del deposito
ricevuto («depositum custodi, devitans profanas vocum
novitates», I Tim. 6, 20), la Chiesa dovette
erigergli intorno le difese ispirate delle sue definizioni
dogmatiche e dei suoi pronunciamenti dottrinali. Essi ebbero
ripercussione immediata nel culto, che divenne il monumento piú
completo della sua fede.
Volere ad ogni
costo riportare questo culto all'antico, rifacendo freddamente,
in vitro, quel che in antico ebbe la grazia della spontaneità
primigenia, secondo quell'«insano archeologismo» cosí
tempestivamente e lucidamente condannato da Pio XII (28),
significa - come purtroppo si è visto - smantellarlo di tutte le
sue difese teologiche oltre che di tutte le bellezze accumulate
nei secoli(29),
e proprio in uno dei momenti piú critici, forse il piú critico
che la storia della Chiesa ricordi.
Oggi, non piú all'esterno, ma all'interno stesso
della cattolicità l'esistenza di divisioni e scismi è
ufficialmente riconosciuta(30);
l'unità della Chiesa è non piú soltanto minacciata ma già
tragicamente compromessa(31)
e gli errori contro la fede s'impongono, piú che insinuarsi,
attraverso abusi ed aberrazioni liturgiche ugualmente
riconosciute(32).
L'abbandono di una tradizione liturgica che fu per quattro
secoli segno e pegno di unità di culto (per sostituirla con
un'altra, che non potrà non essere segno di divisione per le
licenze innumerevoli che implicitamente autorizza, e che pullula
essa stessa di insinuazioni o di errori palesi contro la purezza
della fede cattolica) appare, volendo definirlo nel modo piú
mite, un incalcolabile errore.
Corpus Domini 1969
(1) - «Le preghiere del nostro Canone si trovano nel trattato
De Sacramentis (fine del IV-V secolo) ... La nostra Messa
risale, senza mutamento essenziale, all'epoca in cui
si sviluppava per la prima volta dalla piú antica liturgia
comune.
Essa serba ancora il profumo di quella liturgia
primitiva, nei giorni in cui Cesare governava il mondo e sperava
di poter
spegnere la fede cristiana; i giorni in cui i nostri
padri si riunivano avanti l'aurora per cantare un inno a Cristo
come a
loro Dio [cfr. Pl. jr., Ep. 96] … . Non vi è,
in tutta la cristianità, rito altrettanto venerabile quanto la
Messa romana»
(A. Fortescue).
«Il Canone romano risale, tale e quale è oggi, a San
Gregorio Magno. Non vi è, in Oriente come in Occidente, nessuna
preghiera eucaristica che, rimasta in uso fino ai
nostri giorni, possa vantare una tale antichità! Agli occhi non
solo degli
ortodossi, ma degli anglicani e persino dei
protestanti che hanno ancora in qualche misura il senso della
tradizione,
gettarlo a mare equivarrebbe, da parte della Chiesa
Romana, a rinnegare ogni pretesa di rappresentare mai piú la
vera
Chiesa Cattolica » (P. Louis Bouyer).
(2) -
In nota, per una tale definizione, si rimanda a due testi del
Concilio Vaticano II. Ma a leggere quei due testi non si
trova nulla che giustifichi tale definizione.
Il primo testo (decreto Presbyterorum Ordinis, n.
5) suona cosí: « ...I presbiteri sono consacrati a Dio mediante
il
ministero del vescovo, in modo che... nelle sacre
celebrazioni agiscano come ministri di Colui che
ininterrottamente
esercita la funzione sacerdotale in favore nostro nella
Liturgia... E soprattutto con la celebrazione della Messa
offrono
sacramentalmente il Sacrificio di Cristo».
Ed ecco l'altro testo cui si rimanda (Costituzione
Sacrosanctum Concilium, n. 33): «Nella Liturgia Dio parla al
suo
popolo. Cristo annunzia ancora il suo Vangelo. Il popolo
a sua volta risponde a Dio con i canti e con la preghiera.
Anzi,
le preghiere rivolte a Dio dal sacerdote che presiede
l'assemblea nella persona di Cristo vengono dette a nome di
tutto il
popolo santo e di tutti gli astanti».
Non si spiega come da tali testi si sia potuto trarre
la suddetta definizione.
Notiamo poi l'alterazione radicale, in questa
definizione della Messa, di quella del Vaticano II (Presbyterorum
Ordinis,
1254): «Est ergo Eucharistica Synaxis centrum
congregationis fidelium...». Fatto sparire fraudolentemente
il centrum, nel Novus Ordo la
congregatio stessa ne ha usurpato il posto.
(3)
- Cosí il Tridentino sancisce la Presenza Reale: «Principio
docet Sancta Synodus et aperte et simpliciter
profitetur in almo Sanctæ Eucharestiæ sacramento post
panis et vini consacrationem Dominum
nostrum Iesum Christum verum Deum atque hominem vere,
realiter ac substantialiter [can. 1] sub
specie illarum rerum sensibilium contineri». (DB,
874). Nella Sessione XXII, che ci interessa qui direttamente
(De sanctissimo Missæ Sacrificio), la dottrina
sancita (DB, nn. 937a fino a 956) e chiaramente
sintetizzata in nove
canoni:
1. La Messa è vero, visibile sacrificio - non
simbolica rappresentazione - «quo cruentum illud
semel in cruce peragendum repræsentaretur atque illius
salutaris virtus in remissionem eorum, quæ a nobis quotidie
committuntur peccatorum applicaretur» (DB, 938).
2. Gesú Cristo Nostro Signore «sacerdotem
secundum ordinem Mechisedech se in æternum [Ps.
109, 4] constitutum declarans, corpus et sanguinem suum
sub specibus panis et vini Deo Patri obtulit ac sub earundem
rerum symbolis Apostolis (quos tunc Novi Testamenti
sacerdotes constituebat), ut sumerent, tradidit, et eisdem
eorumque in sacerdotio successoribus, ut offerent, præcepit
per hæc verba: “Hoc facite in meam commemorationem” [Lc.
22, 19; I Cor. 11, 24] uti semper catholica
Ecclesia intellexit et docuit». (DB, ibid.).
Il celebrante, l'offerente, il sacrificatore è il
sacerdote, a ciò consacrato, non il popolo di Dio,
l'assemblea. «Si quis dixerit, illis verbis: “Hoc
facite” etc. Christum non instituisse Apostolos sacerdotes,
aut non ordinasse, ut ipsi aliique sacerdotes offerent
corpus et sanguinem suum: anathema sit» (Can. 2; DB,
949).
3. Il Sacrificio della Messa è un vero sacrificio
propiziatorio e NON una «nuda commemorazione del sacrificio
compiuto sulla croce». «Si quis dixerit; Missæ
sacrificium tantum esse laudis et gratiarum actiones aut
nudam commemorationem sacrificii in cruce peracti, non autem
propitiatorium; vel soli prodesse sumenti, neque pro vivis
et defunctis, pro peccatis, pœnis, satisfactionibus et aliis
necessitatibus offeri debere, a.s.» (Can. 3; DB,
950).
Si ricorda inoltre il can. 6: «Si quis dixerit Canon
Missæ errores continere ideoque abrogandum esse, a.s.»;
(DB, 953) e il canone 8: «Si quis dixerit Missæ,
in quibus solus sacerdos sacramentaliter communicat,
illicitas esse, ideoque abrogandas, a.s.» (DB,
955).
(4) -
Ora è superfluo asserire che, se venisse negato un solo dogma
definito, crollerebbero ipso facto tutti i dogmi, in
quanto
crollerebbe il principio stesso della infallibilità del
supremo solenne Magistero Gerarchico, papale o conciliare che
sia.
(5)
- Si dovrebbe aggiungere anche l'Ascensione ove si volesse
riprendere l'Unde et memores, che d'altronde non
accomuna ma nettamente e finemente distingue: ...«tam
beatæ Passioni, nec non ab inferis Resurrectionis,
sed et in cœlum gloriosæ Ascensionis».
(6) -
Tale spostamento di accento è riscontrabile anche nella
sorprendente eliminazione, nei tre nuovi canoni, del Memento
dei morti e della menzione della sofferenza delle anime
purganti, alle quali il Sacrificio satisfattorio era applicato.
(7)
- Cfr. Mysterium Fidei, ove Paolo VI condanna sia gli
errori del simbolismo che le nuove teorie della «transignificazione»
e «transfinalizzazione». «...aut ratione signi... ita
instare quasi symbolismus, qui nullo diffitente
sanctissimæ Eucharistiæ certissime inest, totam
exprimat et exhauriat rationem presentiæ Christi in
hoc Sacramento... aut de transubstantiationis mysterio
disserere quin de mirabili conversione totius
substantiæ panis in corpus et totius substantiæ vini in
sanguinem Christi, de qua lonquitur
Concilium Tridentinum, mentio fiat, ita ut in sola
“transignificatione” et “transfinalizatione”, ut
aiunt, consistant» (A.A.S. LVII, 1965, p.
755).
(8) -
L'introduzione di nuove formule, o di espressioni che, pur
ricorrendo nei testi dei Padri e dei Concili e nei documenti
del
Magistero, vengono usate in senso univoco, non
subordinato alla dottrina sostanziale con cui formano una
inscindibile
unità (p. es. «spiritualis alimonia», «cibus
spiritualis», «potus spiritualis», ecc.) è ampiamente
denunciata e
condannata nella Mysterium Fidei. Paolo VI
premette che: «servata Fidei integritate, aptus quoque modus
loquendi servetur oportet, ne indisciplinatis verbis
utentibus nobis falsæ, quod absit, de Fide
altissimarum rerum suboriantur opiniones»; cita
Sant'Agostino: «Nobis tamen ad certam regulam loqui
fas est, ne verborum licentia etiam de rebus, quæ
significantur impiam gignant opinionem» (De Civ.
Dei, X, 23. PL, 41, 300); continua: «Regula
ergo loquendi, quem Ecclesia longo sæculorum labore non
sine Spiritus Sancti munimine induxit et Conciliorum
auctoritate firmavit, quæque non semel tessera
et vexillum Fidei orthodoxæ facta est, sancte servetur,
neque eam quisquam pro lubitu vel prætextu
novæ scientiæ immutare præsumat... Eodem modo ferendus
non est quisquis formulis, quibus
Concilium Tridentinum Mysterium Eucharisticum ad
credendum proposuit, suo marte derogare velit»
(A. A. S. LVII, 1965, p. 758).
(9)
- In netta contraddizione con quanto prescrive (Sacros. Conc.,
n. 48) il Vaticano II.
(10) -
Una volta (n. 259) è riconosciuta la sua funzione primaria: «Altare,
in quo sacrificium crucis sub signis
sacramentalibus præsens efficitur». Non sembra
molto per eliminare gli equivoci dell'altra costante
denominazione.
(11)
- «Separare il Tabernacolo dall'altare equivale a separare due
cose che in forza della loro natura debbono restare unite»
(Pio XII, Allocuzione al Congresso Internazionale
di Liturgia, Assisi - Roma 18-23 settembre 1956). Cfr.
anche
Mediator Dei, I, 5.
(12) -
Raramente è usata, nel Novus Ordo, la parola «hostia»,
tradizionale nei libri liturgici con il suo preciso significato
di
«vittima». Ciò rientra nel sistema inteso a
mettere in evidenza esclusivamente gli aspetti di «cena»
e di «cibo».
(13)
- Per il consueto fenomeno di sostituzione e di scambio di una
cosa per l'altra, la Presenza Reale viene equiparata alla
presenza nella parola (n. 7, 54). Ma questa è
in verità di tutt'altra natura perché non ha realtà che in
usu, mentre quella
è, in modo stabile, obbiettivamente, indipendentemente
dalla comunicazione che se ne fa nel Sacramento.
Tipicamente protestanti le formule: «Deus populum
suum alloquitur... Christus per verbum suum in
medio fidelium præsens adest» (n. 33, , cfr.
Sacros. Conc., nn. 33 e 7), cosa che, strettamente parlando,
non
ha senso perché la presenza di Dio nella parola è
mediata, legata a un atto dello spirito, alla condizione
spirituale
dell'individuo e limitata nel tempo.
L'errore non è senza la piú tragica conseguenza:
l'affermazione, o l'insinuazione, che la Presenza Reale sia
legata
all'usus e finisca insieme con esso.
(14) -
L'azione sacramentale della istituzione è puntualizzata come
avvenuta nel dare Gesú agli Apostoli «a mangiare» il suo
Corpo e Sangue sotto le specie del pane e del vino, e
non nella azione della consacrazione e nella mistica separazione
in
essa compiuta del Corpo e del Sangue, essenza del
Sacrificio eucaristico (cfr. l’intero capitolo I della Parte II
- «Il Culto
Eucaristico» - della Mediator Dei).
(15)
- Le parole della Consacrazione, quali sono inserite nel
contesto del Novus Ordo, possono essere valide in virtú
dell’intenzione del ministro. Possono non esserlo
perché non lo sono piú ex vi verborum o piú precisamente
in virtú
del modus significandi che avevano finora nella
Messa. I sacerdoti, che, in un prossimo avvenire, non avranno
ricevuto la formazione tradizionale e che si
affideranno al Novus Ordo al fine di «fare ciò che fa la
Chiesa»
consacreranno validamente? È lecito dubitarne.
(16) -
Non si dica, secondo il noto procedimento della critica
protestante, che queste espressioni appartengono a quello
stesso
contesto scritturistico. La Chiesa ne ha sempre
evitato la giustapposizione e sovrapposizione per rimuovere
appunto la
confusione delle diverse realtà che detti testi
esprimono.
(17)
- Di contro a luterani e calvinisti che affermavano come tutti i
cristiani siano sacerdoti e perciò offerenti della cena v. A.
Tanquerey: Synopsis theologiæ dogmaticæ, t. III,
Desclee 1930: «Omnes et soli sacerdotes sunt, proprie
loquendo, ministri secundarii sacrificii missæ.
Christus est quidem principalis minister. Fideles
mediate, non autem sensu stricto, per sacerdotes
offerunt ». (Cfr. Cons. Trid. Sess. XXII, Can. 2).
(18) -
Notiamo una innovazione impensabile e che sarà psicologicamente
disastrosa: il Venerdí Santo in paramenti rossi
anziché neri (n. 308b): la commemorazione cioè di un
qualsiasi martire anziché il lutto della Chiesa tutta per il
suo
Fondatore. Cfr. Mediator Dei, I, 5 (v. p. 36,
nota 28).
(19)
- P. Roquet, O.P., alle Domenicane di Betania a Plesschenet.
(20) -
In alcune traduzioni del Canone romano, il «locus refrigerii,
lucis et pacis» veniva reso come un semplice stato
(«beatitudine, luce, pace»). Che dire, ora, della
sparizione di ogni esplicito accenno alla Chiesa purgante?
(21)
- In tanta febbre di decurtazione, un solo arricchimento:
l'omissione, menzionata nell'accusa dei peccati al
Confiteor...
(22) -
Alla conferenza stampa in cui fu presentato l'Ordo, il P.
Lecuyer, in una professione di pura fede razionalistica, parlò
di convertire in «Dominus tecum», «Ora,
frater», etc. le salutationes nella «Missa sine
populo», «...perché
non vi sia nulla che non corrisponda a verità
».
(23)
- A questo proposito noteremo marginalmente che appare lecito,
ai sacerdoti che siano costretti a celebrare da soli prima o
dopo la concelebrazione, di comunicarsi di nuovo
sub utraque specie durante questa.
(24) -
Che si è voluto presentare come «canone di Ippolito»
mentre di quel canone serba appena qualche reminiscenza
verbale.
(25)
- Gottesdienst, n. 9, 14 maggio 1969.
(26) -
Si pensi, per ricordare solo la bizantina, alle
preghiere penitenziali, lunghissime, istanti, ripetute;
ai solenni riti di
vestizione del celebrante e del diacono;
alla preparazione, che è già un rito completo in sé stessa,
delle offerte alla
proscomidia; alla presenza costante,
nelle orazioni e persino nelle offerte, della Beata Vergine,
dei Santi e delle
Gerarchie Angeliche (che, nell'Entrata col
Vangelo sono addirittura evocate come invisibilmente
concelebranti e con le
quali si identifica il coro nel Cherubicon);
alla iconostasi che nettamente separa santuario da tempio,
clero da popolo;
alla consacrazione celata, evidente simbolo
dell'Inconoscibile a cui l'intera Liturgia allude; alla
posizione del celebrante
versus ad Deum e mai versus ad
populum; alla comunione amministrata sempre e solo
dal celebrante; ai continui e
profondi segni di adorazione di cui sono fatte
segno le Specie; all'atteggiamento essenzialmente
contemplativo del
popolo.
Il fatto che tali liturgie, anche nelle forme meno
solenni, durino piú di un'ora, e le costanti definizioni che vi
si trovano
(«tremenda e inenarrabile liturgia», «tremendi,
celesti, vivificanti misteri », ecc.) bastino a dir tutto.
Notiamo infine, sia nella Divina Liturgia di San
Giovanni Crisostomo che in quella di San Basilio,
come il concetto di
«cena» o di «banchetto» appaia
chiaramente subordinato a quello di sacrificio, cosí come lo era
nella Messa romana.
(27)
- Nella Sessione XIII (decreto sulla SS.ma Eucarestia), il
Concilio di Trento manifesta la sua intenzione «ut stirpitus
convelleret zizania execrabilium errorum et
schismatum, quæ inimicus homo... in doctrina fidei
usu et cultu Sacrosanctæ Eucharestiæ superseminavit
(Mt. 13, 25 ss.)... quam alioqui Salvator
noster in Ecclesia sua tamquam symbolum reliquit eius
unitatis et caritatis, qua Christianos omnes
inter se coniunctos et copulatos, esse voluit» (DB,
873).
(28) -
«Ad sacræ liturgiæ fontes mente animoque redire sapiens
perfecto ac laudabilissima res est, cum
disciplinæ huius studium, ad eius origines remigrans,
haud parum conferat ad festorum dierum
significationem et ad formularum, quæ usurpantur,
sacrarumque cæremoniarum sententiam altius
dividentiusque pervestigandam: non sapiens tamen, non
laudabile est omnia ad antiquitatem quovis
modo reducere. Itaque, ut exemplis utamur, is ex
recto aberret itinere, qui priscam altari velit
mensæ formam restituere; qui liturgicas vestes velit
nigro semper carere colore; qui sacras
imagines ac statuas e templis prohibeat; qui divini
Redemptoris in Crucem acti effigies ita
conformari iubeat, ut corpus eius acerrimos non
referat, quos passus est, cruciatus... Hæc enim
cogitandi agendique ratio nimiam illam reviscere
iubet atque insanam antiquitatum cupidinem,
quam illegitimum excitavit Pistoriense concilium,
itemque multiplices illos restituere enititur
errores, qui in causa fuere, cur conciliabulum idem
cogeretur, quique inde non sine magno
animorum detrimento consecuti sunt, quosque Ecclesia,
cum evigilans semper evistat “fidei
depositi” custos sibi a Divino Conditore concrediti,
iure meritoque reprobavit» (Mediator Dei, I, 5).
(29)
- «...Non ci illuda il criterio di ridurre l'edificio della
Chiesa, diventato largo e maestoso per la gloria di Dio, come un
suo
tempio magnifico, alle sue iniziali e minime
proporzioni, quasi che quelle siano solo le vere, solo le
buone...» (Paolo
VI, Ecclesiam suam).
(30) -
«Un fermento praticamente scismatico divide, suddivide,
spezza la Chiesa» (Paolo VI, Omelia in Cena Domini,
1969).
(31)
- «Vi sono anche tra noi quegli «schismata», quelle «scissuræ»
che la prima lettera ai Corinzi di San Paolo, oggi nostra
ammaestrante lettura, dolorosamente denuncia» (cfr.
Paolo VI, ibid.).
(32) -
È noto a tutti come il Concilio Vaticano II venga oggi rinnegato
proprio da coloro che si vantarono di esserne i padri;
coloro che - mentre il Sommo Pontefice, chiudendolo,
dichiarava non aver esso mutato nulla - ne partirono decisi a
«farne esplodere» il contenuto in sede di
applicazione. Purtroppo la Santa Sede, con una fretta che ai piú
parve
inesplicabile, ha consentito e quasi incoraggiato,
attraverso il Consilium ad exequendam Constitutionem de
Sacra Liturgia, una sempre crescente infedeltà al
Concilio; che va dagli aspetti solo apparentemente formali
(latino,
gregoriano, soppressione di riti venerandi, ecc.) a
quelli sostanziali consacrati dal Novus Ordo. Le terribili
conseguenze, che abbiamo tentato di illustrare, si
sono ripercosse, in modo psicologicamente forse ancora piú
catastrofico, nei campi della disciplina e del
magistero ecclesiastico, scuotendo paurosamente, insieme con il
prestigio,
la docilità dovuta alla Sede Apostolica.
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